Torre e l'ultima Guerra
Reminiscenze di un torrese
extramoenia
in quel di Bologna
RICORDI
di Salvatore Argenziano
(a mio figlio)
Per gentile concessione dell'autore
© S. Argenziano 2001
Bologna - Tel.-Fax 051.5872026
salvatore.argenziano@fastwenet.it
*** 1 ***
Pomeriggio di Pasqua, 1943.
Arriviamo ad
Episcopio
nel
tiepido pomeriggio
quando le ombre già
si arrampicano veloci
sui verdi pendii boscosi
e sulle facciate delle case.
Da Sarno sotto la selva incombente
per l’ampio stradone alberato
polveroso di carrette
strada bianca
tra muri a secco e prati
per strette scorciatoie tra case,
saliamo, corteo di sfollati
tra la curiosità partecipe
nella interrotta pomeridiana
serenità della festa
di gente ancora ignara
di distruzioni e fragori di guerra
Ci accoglie il fresco androne
il giardino in fondo
che si perde nel bosco
e la premurosa partecipazione
dei nostri ospiti.
Rassicurante la sistemazione
per la notte e il domani;
per tutti ci saranno
case ad accoglierci.
Le ansie materne assopite
ci ritroviamo uniti
a consumare le merende
destinate alla gita pasquale.
Su alti letti di ferro e sedie e
poltrone
nell’eccitazione curiosa
dell’avventura
noi ragazzi in tanti insieme
come a villeggiare
ci prepariamo per un dimenticato
ininterrotto sonno.
*** 2 *** Bombardamento aereo
notturno di Torre del Greco.
L’urlo tardivo delle sirene
il sonno interrotto
di corsa in salita
la scalinata prima dello slargo
Sopra la Ripa
che porta alla fetida umida grotta
ricovero antiaereo.
Mamma è stremata
in braccio Vittorio due anni.
Nel buio il crepitio lampeggiante
assordante dell’antiaerea
fragorosamente coperto
dal boato delle bombe
in un’esplosione di luce
e rovinare di palazzi.
Si respira tufo e calce
tra urla di aiuto
nomi invocati e cercati.
La carrettella spinta in salita
con feriti imploranti
corre verso l’ospedale.
*** 3 ***.Sabato Santo.
Il mattino
del Sabato Santo
alla
Cappella di Portosalvo
festanti
partecipi di riti e canti
nell’attesa
della Gloria
e delle
pagnottelle odorose
cotte nel
forno di campagna
con la
farina bianca
dal mulino
mandata
in gran
segreto
per il
capo andato militare.
Settimana
Santa
mute le
campane
chierici
festanti
di don
Bernardino
percorriamo
il Corso
con la taccarella
ad
annunciare le Funzioni
e scandire
le ore canoniche.
Profumi di
acqua di millefiori
e di grano
cotto nel latte
per le
pastiere
e di
tortani e casatielli
dai forni
di campagna
invadono
la loggia
e i nostri
giochi interrotti
ai
richiami delle vecchie zie,
non fate vernia
e mbrecciate,
il nipote
sacerdote
custodi
delle devozioni,
alla
mestizia del Santo Giorno.
Fili esili
paglierini
pallidi
steli appena nati
di grano
coltivato nell’ombra
della
consolle ammantata
spiando
curiosi e impazienti,
in ciotole
e vasi smaltati
colmi di
segatura,
per gli
addobbi rituali
alla
Cappella di Portosalvo.
Lo struscio
per i “Sepolcri”
tre,
cinque, sette le soste,
bisogna
dare la mano ai grandi
non
perdersi nella folla,
vestiti a
festa e compunti
ma non è
festa,
dalla
Cappella a sopra la Ripa
Santa
Maria, l’Assunta, il Cappellone
drappi
viola e meste orazioni
tra fumi e
afrore di ceri,
storditi
si ridiscende
alla
freschezza del mare
ai profumi
delle preparazioni
per il
sabato di Gloria.
Per la
Gloria a mezzogiorno
sul
campanile aperto al mare
a suonare
le campane
tra le
cento voci delle barche
la
pacifica sirena del mulino
alto sulla
roccia
in fondo
al porto,
il grigio
bruco di lamiere
sul molo
fino alla
lopa
il
martellare dei calafati
dal
cantiere sulla Scarpetta,
il su giù,
su giù dei segatori,
uno gobbo
sul pezzo in alto
e sotto in
ginocchio a tirare l’altro.
Inebriati
da tanti suoni
e dal
familiare odore
di stoppa
e catrame,
di mare e
nafta del porto,
ci
contendiamo le cordicelle
delle
campane
|
in un
concerto di tre note,
din....,da.din.......,da.di.dan......,
dan.,.........don............
Sulla
chiana della Scarpetta
accarezzata
dalla quotidiana marea
scalzi
nell’acqua bassa
primaverile
abbraccio col mare
per
l’antica usanza,
gloria
gloria scummigliando,
della
lavanda beneaugurante
strappando
novelle cozze
a
succhiarne il salso sapore.
*** 4 ***
Alba di Pasqua.
Domenica di Pasqua; oggi non è festa.
L’alba fredda ci trova ancora svegli
tra brividi di paure e di orrore
nella conta di quelli
rimasti sotto le macerie.
Gli uomini lontano militari
e mamme e zie sole
unite a decidere se partire.
Ora anche Torre
è nel mirino delle fortezze volanti.
L’illusione è svanita
di chi ci diceva intoccabili
per i tanti concittadini americani.
Da un palazzo all’altro del Corso
portiamo le apprensioni delle donne,
convochiamo zie e cugine
per la decisione lacerante
di lasciare il quartiere, sfollare.
Dove andare se le radici
sono da sempre avvinghiate
a questa nera roccia,
a questo mare
a questo quartiere.
Incontri e consultazioni
alla bottega dei Rocco
che hanno parenti a Episcopio
lontano da porti, ferrovie e città.
Andremo con loro.
Dalla
Scesa del Fronte
e della
banchina nel porto,
sopra al
Caffè
misterioso
e vietato ritrovo
dove
giocano a zecchinetto
uomini malacarna
tra risse
e bestemmie,
profumo di
cordame dai magazzini
di vele e
di provviste di bordo
tra reti,
cime e sacchi di gallette,
fino al
ponte di Cavino,
la puteca
di casadduoglio
dei Rocco,
il Salone
di Gennaro il barbiere,
si
applicano sanguette,
il banco
sul marciapiede
del cazzabocchio
di Pasquale
e il
negozio di don Gennarino,
punti
d’incontro del quartiere,
fascino di
racconti dei grandi
e scontri
verbali di pallone,
due
palazzate da ponente a levante
il mio
Corso Garibaldi,
abbascio a
mare,
chiuso tra
la nera scogliera
a
strapiombo nel mare
lingua
avanzata di antica lava
e la
cancellata della ferrovia,
la
campanella annuncia il treno
e la
chiusura del passaggio a livello,
varco e
confine
verso il
quartiere delle cento fontane
ed il
centro.
Il fresco
zampillio dalle cannelle
allineate
sul fronte del fabbricato
in alto
l’invito di dotta usanza,
sitientes
venite ad aquas,
la serale
lenta passeggiata
con giarri
e buttiglioni
scendendo
l’ampia grariata
consunta
al centro
da
generazioni di sciuliarelle
su tavole
di legno.
Sotto le
volte umide e buie
due file
di cannelle si fronteggiano
per le
lavandaie
ed il
corallaro chino nella lustrata
come
impastando il sacco
scricchiolante
di rosse perle.
Dietro,
verso lo slargo dei segatori
chiuso dal
viadotto della ferrovia,
l’abbeverata
bassa
per le
bestie e i bimbi.
Il mondo
della mia infanzia
aperto al
mare
da varchi
e vicarielli
e al sole
pomeridiano,
agli
spiazzali in terra battuta
per i
giochi con le pastore,
litrattielli
e filo per le cumete
l’ambita
posta,
tra
cantieri di gozzi e paranze
e ruderi
di vecchie fabbriche
la vaccaria
della priora,
muri sfrantummati
che la
libecciata aggredisce
e disgrega
ad ogni vernata,
incessante
erosione del tempo,
e scogli
per nascondigli
e trincee
per sfide pretiate,
e nere
protuberanze per tuffi,
veloci in
un ciclo ininterrotto
nel bianco
della schiuma
e guerre
di calate,
poi
sfiniti al calore del sole
come
lacerte, nell’amplesso
dello
scoglio levigato.
Montagne
di tronchi alla stagionatura
per
l’opera dei segatori,
cataste di
piezzi
arrivati
con carri
dalle ruote giganti
e bianchi
buoi maestosi,
stacchiamo
per le furnacelle
tenere
umide cortecce
le mani
azzeccose e profumate
del bianco
lattice
trasudante
dal piezzo
reso
viscido e spettrale
nel
pallore della sua nudità.
*** 5 ***. Il treno per Sarno.
Gitanti obbligati,
riuniti all’ombra pomeridiana
della stazioncina Circumvesuviana
aperta alla Montagna fumante
dove la campagna alta
avvolge le prime bianche case,
sopra i Cappuccini.
Verdi orti di
terra rossa
arsiccia
terra di vulcano
punteggiata
da bianchi casolari
e ombrosi
pini,
e prevole
di uva catranesca
e fragola e
greca
per vini lammeccati
come nettare
e secchi come
lacrime distillate,
antico e
solare paesaggio
di un’altra
Torre, la contadina,
‘ncoppa
adda nuje.
Con piramidi
di fave fresche
e fiche trujane
e vuttate
e
ceveze bianche e nere
sotto la
spasa intrecciata
il
campagnuolo scende
per cupe
sulagne
e canaloni e
lagni
tra muri di mazzacani
e pale di
fichi d’india
ambulante
venditore;
il canto
d’invito segna le stagioni
al fresco
calare del giorno.
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