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*** 5 ***. 
Il treno per Sarno.

Gitanti obbligati,

riuniti all’ombra pomeridiana

della stazioncina Circumvesuviana

aperta alla Montagna fumante

dove la campagna alta

avvolge le prime bianche case,

sopra i Cappuccini.

Verdi orti di terra rossa

arsiccia terra di vulcano

punteggiata da bianchi casolari

e ombrosi pini,

e prevole di uva catranesca

e fragola e greca

per vini lammeccati come nettare

e secchi come lacrime distillate,

antico e solare paesaggio

di un’altra Torre, la contadina,

‘ncoppa adda nuje.

 

Con piramidi di fave fresche

e fiche trujane e vuttate

e ceveze bianche e nere

sotto la spasa intrecciata

il campagnuolo scende

per cupe sulagne

e canaloni e lagni

tra muri di mazzacani

e pale di fichi d’india

ambulante venditore;

il canto d’invito segna le stagioni

al fresco calare del giorno.

 

 

*** 6 ***. Il viaggio

Tra sedili di legno

appigliato al finestrino

nel vento della corsa

vedo il mare apparire

nel barbaglio del solco riflesso

che dardeggiando mi insegue,

sparire e trasparire

dietro solitari fuggenti palazzi

e verdi chiome di pinete.

Il sole alto è già declinante.

Non lo vedrò domani immergersi

di corsa nel mare

mentre consumiamo la cena

cugini a raccolta

contro il parapetto della loggia.

 

L’inattesa gita pasquale

ci porta per paesi noti

e poi ignoti.

Il treno si allontana dal mare

penetra in una realtà

cupamente ignorata

specchio della nostra tristezza.

Inimmaginata la vita

tra monti e monti

dove è già l’ombra prima del tramonto

senza la rasserenante visione

dell’ultimo chiarore

di un orizzonte lineare

illimitante.

 

*** 7 ***. 
In campagna.

Notte silenziosa

lunga e ininterrotta,

ristoratrice.

 

Troviamo casa in campagna

tra canti di contadini

nella controra assolata

su letti con paglioni di sbreglie

nella bianca nudità dei muri

assorti nella fissità

e l’improvviso correre

di domestiche lacerte vermenare.

All’alba mangiano maccheroni,

e partono per i campi

anche i ragazzi con loro.

Dicono stace per sta e face per fa

e mi appaiono tanto diversi da noi.

 

Viviamo i giorni di primavera

senza impegni scolastici

balilla della IV elementare

serenamente godendo di esperienze

nuove e lontane

dalla nostra consuetudine marittima.

 

Il prato antistante la Chiesa

degradante verso la strada

ci accoglie distesi

a godere il tepore del sole primaverile

tra i racconti dei grandi

costretti a condividere con i piccoli

le ore di ozio ed i giochi.

Imparano a fumare passandosi

boccata dopo boccata

furtivamente una milit.

 

All’ombra di alberi secolari,

al bordo della strada,

sulle panche di pietra

i locali giocano a zecchinetto

capannello di osservatori

attenti all’arrivo dei militi

che dispensano calci e strappano le carte.

Provo a spiare questo mondo

e vengo allontanato bruscamente.

 

Alla valletta del Santuario, la Foce

dove pigramente tra canneti

il Sarno sbocca alla luce,

andiamo per fare i bagni

nell’acqua bassa

ferma, fredda, muta,

tra il gracidare di rane

i noccioli generosi sul sentiero

il nauseabondo odore

dell’erba fetente

e la polvere della riva.

 

La memoria corre al mare

distesi ad asciugare

al sereno sciacquio

su neri scogli levigati.

 

I bagni dagli scogli neri

le mamme in cerchio sedute

come salotto

nello scarillo di acqua bassa

laghetto sicuro per i bambini.

Primi passi in un mare alto

privo di piatta spiaggia

scogli e pareti tappezzate

di brune grasse alghe e patelle,

tane di neri ranci,

sporgenze e anfratti

familiari luoghi domestici,

con salvagenti di sughero e tela bianca

residui antichi di bastimenti

ricordi della vita di mare del Nonno

e ‘nzerte di anelli di sughero

per i  tuffi a cufaniello

e le prime sbracciate al largo

a vedere il palazzo di Papote

e credersi come i grandi

che fanno summuzzate ‘nfunno

per ancine reali e carnumme.

 

*** 8 ***. 
Torniamo a Torre.

Vicini all’estate incalzano

presagi di altra guerra.

Torniamo a Torre con Papà

nella bella divisa di milite,

ultima breve licenza,

per la stretta rassicurante della famiglia

nell’attesa timorosa

di eventi definitivi.

 

Non più bandierine avanzanti

sulle carte africane a scuola

a cura del maestro in camicia nera

e nella vetrina del fotografo in piazza.

 

Notte dopo notte incessante

il lugubre ululo delle sirene

nel terrore crescente

del cupo rombo incombente.

 

Dalla rosea penombra del tramonto

con cuscini e coperte

al buio della grotta mefitica

nera roccia trasudante

occupiamo i posti per la notte

umidi giacigli

su scivoli di terra.

 

Sento svanire il ricordo

delle serene Novene di maggio

sulla articolata loggia

aperta al mare

aggregato unificante

di appartamenti e della famiglia

a sera raccolta

con nonna Luigia assorta

nella mestizia antica del lutto

sull’uscio di casa sua

e zia Rosa che ha visto sul comò

tra i velieri in bottiglia di zio Peppino

il munaciello marinaretto;

ora dal suo terrazzo

in sequenza continua

solitaria biascica orabbronobis.

 

Dal palazzo di fronte viene

zia Maria, vedova di zio Palumbo

disperso per affondamento

nel porto di Valona

con Salvatore di nero vestito.

Arriva zia Michelina con i figli,

zio Michele prigioniero in India,

e la sua dominante allegria

e l’ironia maliziosa e piccante

e zia Lena dall’energia prorompente

di autoritaria mastressa.

Da lati e angoli nascosti della loggia

al buio sereno della sera

si snoda la litania

di voci alternanti nel Rosario.

I ragazzi sui gradini dell’asteco

seduti a grappolo

in disparte per distrarsi.

 

Serena notte primaverile

di vigilia dell’Ascensione

nell’attesa della festa canonica.

Nel bacile bianco di smalto

galleggiano petali di rose

esposti alla rugiada notturna

per la benedizione dell’Angelo

rituale lavanda mattutina del viso

a far belli i bimbi.

 

Alba tersa, e fresca di maggio

pellegrini a piedi a Pompei

dietro al Rosario di don Bernardino

il passo lento delle donne rispondenti.

Schiara juorno alla partenza

dal Corso e per la salita del Rio

e per la piazza sotto Garibaldi

nel perentorio gesto a indicare

vicoli di bisogni corporali

delle pisciate e delle cacate

e sulla Nazionale, strada bianca,

solo carrette, verso il mercato

al trotto i cavalli.

Bambini allegri in gita,

impazienti lasciamo dietro

le litanie del corteo

fino al richiamo preoccupato

delle mamme.

 

Il monaco di San Francesco

familiare figura di questuante

alto e magro nella nera tonaca

sosta con noi sulla loggia

all’ombra della pergola sul pozzo

per la frugale colazione

ci racconta storie del Santo

e ci dà la figurella.

 

Per la  festa dell’Uttava

nel varco centrale don Nicola Ascione,

sulla quotidiana stesa

della bianca tonachina

dipinge ad affresco misteri biblici

sull’altare di fabbrica.

La Domenica delle Palme

l’impostata tra botti e benedizioni,

il primo palo, in cima l’ulivo,

la palma benedetta,

per l’impalcato di tavole e intonaco

alto a nascondere il mare

tornando a casa dalla Ripa.

   

Sotto al baldacchino di raso

arriva il Santissimo

con le autorità in divisa

tra bandiere e gagliardetti

per la visita ai Tappeti

e lo scoprimento del Mistero.

Folla e corteo nel Corso in festa

tra lo sfarzo dei cupertini ai balconi

cangianti damaschi di seta

e traforati merletti e ricami

a consumare pomeriggi e occhi

di zite intente al corredo,

gelosamente conservati

e tolti dal cascione per l’addubbata

tra fuochi di artificio

 e Marcia Reale e Giovinezza.

   

All’ombra di alti palazzi a levante

della Piazza della Parrocchia

tra il chiosco dei giornali

e quello dell’orologiaio

freschi mattini di festa

le bande venute da lontano,

l’alta irpina Sturno,

tromba e cornetta solisti

da Verdi a Mascagni

brividi dell’emozione

il primo amore per la musica.

 

Contro il muro della loggia

il lungo bancone di lavoro

di nonno Giacomo

già nostromo su velieri

che ci fa le sfardelle per l’estate

e gli zoccoli di legno per gli scogli

e mi porta sul cutter

lucido di bronzi e mogano,

ansia e preoccupazione di Mamma,

a salutare la loggia dal mare

alla flebile brezza della sera,

e sugli scogli a pesca

di vavose, sparaglioni e capatoste,

e all’ombra pomeridiana

del muraglione del porto

le vope dal fragile labbro

e nella fredda sciummarella

tra i sassi viscidi della banchina

anguille con l’ombrello,

con lunghi pereconi di canna

e corte cime di bambù

armeggiando lenze, piombi, pistilli

e vermi tremolicci su ammetelle

sapientemente annodate.

 

L’uomo dello zolfo

col serbatoio a zaino

pompa una nuvola azzurra

sulla prevola d’uva

che dal grande cufenaturo

copre il terrazzino ed il pozzo;

la curiosità ci avvicina troppo

e scappiamo quando improvviso

minaccioso come lanciafiamme

il cannello è puntato contro noi.

 

Con spaselle di freschezze di mare

argentea fragranza tra verdi alghe

sale sulla loggia il pisciavinnolo

alte modulando voci d’invito

a contrattare con le donne

spruzzando pesce e bimbi

con l’acqua di mare

raccolta e schiaffeggiata

dal cato di legno.

 

L’uvarola dai grossi sciucquagli d’oro

e collane tintinnanti

panieri di uova nelle braccia

come manici di giara

strati e strati a pacchiana

di ampie gonne fiorite

sostenute da natiche prominenti

come spalle di lottatore

minacciosa bisbiglia,

al piccirillo dalla bionda

femminea chioma,

per nasconderti e riportarti via,

tremante all’antica storia

suo lattante venduto a Mamma,

se non sarai buono.

 

*** 9 ***. 
Un’estate senza giochi.

 

Sugli astechi raccogliamo schegge

della contraerea notturna

e travasiamo acqua di mare

nei piatti in altri tempi

riservati alla rossa conserva,

a procurarci prezioso sale.

 

Caldi pomeriggi estivi

nell’angolo ombroso pergolato

di zia Raffaella

con le cresommole nel cato

di fresca acqua attinta dal pozzo

dal parapetto levigato di pepierno

e la tintinnante tarocciola alta

sul braccio di ferro serpeggiante.

A sera sulla loggia si spandono

flebili accordi di chitarra

di zio Raffaele, ufficiale di marina.

 

Giochi d’estate

tra i sali e scendi degli astechi

nascondigli angusti sottorampa

tra ragni e pisciazze di gatti

scivolo sulla lamia rampante della scala

e rincorsa di verdi lacerte

veloci in alto sui muri

tra scarde multicolori di vetro

murati a scoraggiare gatti

e malintenzionati

dalle logge confinanti.

 

L’asteco piccolo alto sul mare

invaso dal sole

da quando spunta

dai monti di Castellammare

fino al bagno serale nel mare di Ischia,

incroci di corde e di furcelle

labirinto di bianche lenzuola

per l’anguattarella

nel profumo di alghe e di bucato.

 

L’acqua di pioggia

scaricata dall’asteco

nella piscina in cantina

che l’arganello cigolante

sbracciandoci alla corda

ci riporta su

delicatamente gialla

per la convivenza con il tufo,

gelosamente conservata per la culata

con la pupatella di cenere

nel cufenaturo dai verdi smalti.

 

L’asteco grande sulla strada

quattro panze sobbalzanti

come seni materni,

seduti al caldo contatto

nei freschi tramonti,

nell’intrico di rughe nere di pece

con cura in autunno rinnovate.

A levante l’alta parete di tufo giallo

eroso dal libeccio e dal sale

mosaico verdeargenteo

di muschi e licheni

nidi di piccioni nei fori

lasciati alla fabbrica dai ponteggi,

oasi di frescura

nelle mattinate estive.

Nell’ombroso angolo raccogliamo

le pastocchie di muschio

per i verdi prati del presepe.

 

Amati campi di giochi,

nell’infinita fantasia

di tane e nascondigli,

di guerre a distanza

parapetti e panze come trincee

con proiettili d’intonaco

furtivamente sfrantummati

da muri di spugnosi scardoni,

abbaglianti lande deserte

sotto l’infocata calandrella

vietate nelle lunghe controre

quando draghi fiammeggianti

avidi di bimbi

ci tenevano in casa

alla fresca brezza di mare

costretti al riposo pomeridiano.

 

Assolate controre estive

solitarie voci

invitanti nenie antiche

di venditori alla stagione,

pullanchelle e perziane

e gelati allimone.

 

Alchimie con cera e piombo fuso

nel giorno di San Giovanni

a goccia versato nella bacinella,

come il sangue del Battista,

forme e presagi nell’acqua,

privati del mare nel timore

di rapimenti sacrificali.

 

 

*** 10 ***. 
Estive occupazioni.

La preoccupazione quotidiana

di sopravvivere

ha svilito il futuro

per l’immediato

tristemente privati

delle rituali occupazioni estive,

le provviste per l’inverno.

 

Piatti rossi di conserva

non decorano parapetti e pance

di astechi e logge.

 

Il parulano scalzo

cazunetto a zompafuosso

di fustagno a righe

arriva caracollando

inseguendo la carretta colma

di sammarzane e cruanelle

per bottiglie e conserva.

 

Il tavolo di lavoro all’ombra

sul pianerottolo della scala

aperto all’angolo pergolato

sotto la lamia a vela.

Pacche di sammarzane

infilate nelle bottiglie

dal culo forte rientrante

sbatacchiate su cuscini di sacchi

a ‘ncasare l’estiva fragranza,

adagiate tra stracci e giornali

a bollire nella caurara

sulla bocca grande del fuculare.

 

l rosso succo spremuto

dalla macchinetta a manovella,

a turno in tanti si gira,

raccolto nella lucida scafarea

lucida verde terracotta

è distribuito nei rotti piatti

conservati per la stagione

che l’acconciatiani ha cucito

con graffe di ferro dolce,

la ferita stuccata

ruvida bianca cicatrice

su lucidi azzurri decori,

destinati all’esposizione estiva

sui parapetti dell’asteco.

 

Tornano le menaide sotto al Fronte

passata la quiete della controra

voci e richiami in concorrenza

per l’abbondante pescata,

guagliunera come gabbiani

sguazzante tra le rezze

per la cruda merenda,

compriamo spaselle ricolme

di fresche alici

per la salagione sulla loggia,

nel profumo del ruoto

arrecanate per la cena,

allineate in alti e lucidi

bianchi vasetti smaltati,

il sasso levigato raccolto

nella grotta dello scarillo

sul disco di legno le stringe

a spremerne l’umore.

 

Le cresommole a pacche,

al raccolto abbondante

il prezzo è buono,

allineate sui caldi parapetti

dell’asteco grande

che il sole asciuga,

secche dolcezze invernali.