Cap. 3


IL GIORNALISMO
di Luigi Mari

Nel 1964 direttore responsabile de IL CORALLARTE e de IL PERSEO editi dall’Istituto d’Arte, nel 1965 de L’INFINITO, nel 1970 de IL PENZATORE e de IL NUOVO PENZATORE, editi dalla Tipografia Mari, di SELEZIONE MEDICA (1985) e de LA NUOVA TRIBUNA D’ITALIA (1991) Università di Medicina e Chirurgia di Napoli, de LA VOCE AMBULANTE nel 1988, edita dall’UNVA Unione Nazionale Venditori Ambulanti, de L’ABC, edito da Ceci, (1984-87), LE DUE TORRI (1989).
Ha collaborato a RISVEGLIO SOCIALE, LA TORRE, IL VESUVIO, LA VOCE DELLA PROVINCIA, AVE MARIA, BOLLETTINO DELL’ORDINE DEI MEDICI con articoli di critica d’arte e di costume e di medicina.
Tocca a me. Adesso tocca a me parlare del mio amico Franco con il quale ho diviso gioie e dolori, quando inaugurai in via Purgatorio la mia Tipografia. Egli, giovane disoccupato, componeva a mano i pezzi del Pensatore - La passione del Giornalismo per Franco Penza è stata irrefrenabile e lo è fino ad oggi.
Se i giornalisti di grido, le cosiddette "firme" mettessero insieme al braccio la mente e il cuore, allora non si cadrebbe nelle lottizzazioni e nel degrado.
Franco Penza è un puro. Per questo credo che Antonio Fedele Cesi abbia scelto il titolo "Una vita sbagliata", poi modificato di comune accordo in "Una vita difficile" . Sbagliata? Perché non ha mai smesso di sognare, perché talvolta non ha tenuto i piedi ben fermi sul pavimento e ha levitato un po’?
Questi pezzi sono estratti dal libro "Da Magonza a Torre del Greco" di cui Franco mi aiutò a correggere le bozze.
Sono una parodia del giornalismo locale che tale non è mai stato perché negli anni settanta con i mezzi limitati del cartaceo, si facevano notiziari a josa, ma non giornalismo, quello che attacca, che polemizza, che dice il vero a costo di pagarne lo scotto.

IL SOGNO DEL GIORNALISMO
Le tipografie artigiane vesuviane che ancora realizzano nella maniera tradizionale le pubblicazioncelle locali pressate dalle ambizioni letterarie degli oscuri docenti di lettere, o dei cultori di sogni nel cassetto, o dei poeti del sabato sera di fama intercomunale, arrotondano il fatturato in un contesto lavorativo molto compromesso dall’offerta satura. Ebbene, io appartengo alla categoria di questi sciagurati sognatori, conscio, però, del carmina non dant panem, non solo, ma pure del nemo propheta in patria, poiché queste sporadiche mie esperienze scrittorie desuetamente autofabbricate in tomi, sono destinate, volutamente a non valicare il circondario urbano. Sono comunque solidale con tutti gli sventurati come me, e quasi mi rammarico del privilegio di poter prevalere, almeno quantitativa- mente, sugli altri, che la sorte non li ha voluti bottegai tipografi. Comprendo, anche se non giustifico, coloro che non sanno valutare i propri limiti, e continuano imperterriti in questo cammino spinoso, attribuendo il loro insuccesso solo a fattori egemonici da circolo chiuso. Oggi, più che mai, in tutti i settori umani, l’estetica prevale sul contenuto, questo tende a soffocare l’espressione popolare nell’arte scrittoria, ed è una discriminazione. Chiunque ha il diritto di esternare i propri sentimenti, anche al di fuori di virtuosismi dottrinari. L’impor-tante è riconoscere la propria posizione e non ostinarsi ad apparire quello che si vorrebbe essere e non si è. Non è la semplicità d’espressione che è nociva, quando c’è contenuto, ma l’elaborazione culturale della povertà estetica ad alimentare il desiderio di abbarbicarsi verso i fastigi di castelli di cui non si è provveduto, negli anni, a mettere su con tenacia e abnegazione, dietro un allenamento estenuante, mattone su mattone.
Luogo Mari

Paolo Fringuelli GIORNALISTA SUI GENERIS
Ma in Campania vi è pure chi stampa il suo bravo foglietto quotidiano. Non si tratta del solito scrittore da dopolavoro comunale o poeta della domenica. Egli e uno strano filosofo che tira quotidianamente col ciclostile una modesta pubblicazione in folio. Il contenuto della stampa di Paolo Fringuelli, perché di estetica non si parla proprio, può essere riassunto in poche parole. La teoria di Paolo Fringuelli, bruno, tarchiato, con gli occhi piccolissimi dietro occhiali enormi, consiste in un movimento starei per dire paracristiano o ideal-politico cristiano, come meglio viene, che postula la giustizia sociale attraverso le sole pacifiche (? ) armi: carta, penna e calamaio. Questa particolare forma di giustizia, però, pretende un riscatto dei brutti, dei poveri, degli oppressi, insomma di tutto il negativo storico. Si tratterebbe, in pratica, di ribaltare i valori materiali universalmente riconosciuti. Ghettizzare e sottomettere, ad esempio, i ricchi, i belli, i saccenti, i detentori del potere, i quali, tutto sommato, costituiscono delle minoranze. Stabilire, in parole diverse, un classismo alla rovescia. Creare un’ inversione di interessi, un modello sociale di valori pratici più vicino alla massa. Egli è convinto che ciò sia possibile poiché la massa è più numerosa, e, da che mondo e mondo, la maggioranza vince. Si dirà, ad esempio, alla vista di una bella ragazza: Pussa via, bella e oca che non sei altro, che hai la marmellata al posto del cervello? Oppure: Disgraziato di un possidente, non ti aovicinare, sa’, con la peste bubbonica della ricchezza, con la tua solitudine squallida! E ancora: Meschino di un potente, sparati la tua bomba atomica nel didietro perché, sappi, che essa manderà all’inferno te per primo, e via ciarlando. Paolo Fringuelli ripete i moduli rancidi della protesta qualunquistica sostenendo che i poteri si camuffano di democrazia; che il sapere e la diffusione della stampa hanno scosso i giovani dal torpore dei vaneggiamenti filosofici, dall’illusione degli ideali politici, eccetera, eccetera. «La cultura è 1’informazione, caro il mio tipografo confor- mista - mi disse - fraternizza il figlio del ricco con quello del povero ed entrambi vanno nei fondelli ai genitori». Paolo Fringuelli si desta puntualmente alle quattro del mattino, ciclostila in fretta tutto ciò che rimugina durante la notte. Alle dieci in punto esce la sua edizione quotidiana che distribuisce a mano personalmente, ogni giorno in un paesello della provincia. A Napoli non sarebbe mai più andato perché un paio di volte «Mi indofarono di mazzate, chilli chiaveche! Fai bene, va’!». Gli risposi che il prezzo che pagano i messia è caro. Ci sedemmo su di una panchina nella Villa Comunale di Torre del Greco, e gli chiesi perché ce l’avesse in particolar modo con i fondelli dei suoi nemici. Ed egli per tutta risposta mi accuso di essere certamente un tipografo venduto al sistema, una pedina della società capitalistica. Le sue spontanee reazioni non mi irritavano. Era sincero, in cuor suo, era solo un uomo mediocre affascinato dalla moda del giornalismo. Ma qualche idea originale non mancava, anche se astratta, fantasiosa ed utopistica. Non valeva la pena di compiere sforzi intellettivi per dire la mia, in fondo gli volevo bene, perché finisco col voler bene tutti, prima o poi, con la mia passionale tendenza all’analisi, ma compromessa, spesso, da un sentimentalismo che più partenopeo non si può.
Luigi Mari