GLI INETTI
Il dolore ritrova la poesia. Quella poesia tutta
napoletana: schietta, sincera passionale.
E’ facile vedere, osservare, riprodurre. Ma vivere in un ambiente
visto, osservato, riprodotto significa scendere nell’inferno.
E’ facile, con pennellate larghe e guizzi geniali, mettere su un’opera
di arte letteraria o figurativa. Ma viverci è impossibile.
Eppure viviamo!
Case, che sono stamberghe. Case, che mancano di servizi igienici: che
hanno un puzzo di muffa o di carogna. Case nelle quali ti infastidisce l’alitare,
il respirare altrui, ma sei costretto ad accettare quello stato di cose,
perché non hai né la forza, né il coraggio di sfuggire da quella
tragica realtà. Case, nelle quali è resa pesante dai volti tristi,
capaci solo di sognare per un’intera esistenza!
E’ facile, sin troppo facile discutere. Ma viverci è impossibile.
Eppure ci viviamo!
All’improvviso l’apparente tranquillità vien rotta da improperi,
invettive, grida di fame, di disperazione. E ti prende la malinconia,
mista alla speranza. La speranza di un domani migliore, che trovi solo
con la rassegnazione, che è la morte dell’uomo o il suicidio dello
spirito.
E’ facile affacciarsi, guardare ed esclamare: Povera gente! Triste
cosa la commiserazione di un altro essere umano.
La vecchietta piange sui gradini della chiesa la perduta verginità
della nipotina, un bimbo gioca con le sue feci, la sirena dell’autoambulanza
suona sinistra nell’aria, un uomo canticchia ‘O sole mio: è il
quadretto di sempre del popolo napoletano, che dopo la grande paura
(leggi: colera) comincia a rimangiare i frutti di mare, l’impepata, le
cozze con la spremuta di limone…
Franco Penza
Napoli, 1973 |