Storia
di una donna, paziente del giovane Jung, che si innamora di lui ed è da
lui riamata. Storia di rottura del setting, di collusione ed
innamoramento, di transfert e controtransfert non controllato.
Storia non nuova. Il cinema ne ha raccontate tante di storie come questa.
Nuova l’idea che le energie, lo stato nascente, che si attivano con la
terapia possano essere sprone al cambiamento per la paziente e
destabilizzanti per il medico. Quando lei ottiene l’amore di lui e gli
chiede un figlio, lui sta male. E’ risucchiato dalla passione per la
donna come in un vortice che può travolgere tutto il suo mondo di
significato. La custode della sua anima, mentre nutre propositi di
vendetta, improvvisamente rinsavisce, forse proprio in virtù del suo
grande amore. Si rifà una vita: diventa anch’essa psicoterapeuta, si
sposa, ha una figlia, fonda un asilo. E’ come se trovasse il modo di
convogliare il suo amore per lui. Amore è la parola chiave nella vita di
questa donna. Sembra che questo amore preso a Jung, le sia servito per
amare lo studio, il marito, la figlia, i bambini dell’asilo bianco.
In questa prospettiva il giovane Jung non ha abusato della relazione
terapeutica, ma è lei che ha fatto il pieno di energie, di amore che le
serviva per vivere. Lui è la vittima, colui che affida l’anima a lei,
svuotandosi. Rimane il guscio delle apparenze: la famiglia, la
professione, il figlio. La sua anima è lontana, è nelle lettere che lei
gli invia, documento fedele della sua vita e dai fatti storici che
attraversa. Gli studi su Jung ci dicono che dopo questa relazione, ne
avrebbe intrecciata un’altra che lo avrebbe accompagnato per il resto
della sua vita. Ma questo il film non lo dice. Non importa quello che
farà lui della sua vita privata ( del resto la sua vita pubblica è fin
troppo nota). Importa quello che fa lei. Una donna, Sabina Spielrein, che
in tempi del tutto lontani inverte i ruoli maschile e femminile. Prende l’anima
a lui e vive, implementata da quell’amore, in prima persona, da
protagonista della sua vita. Questo film ci sembra un po’ un omaggio che
Roberto Faenza, avvalendosi della straordinaria Emilia Fox, rende a questa
donna.
Discutibile il modo in cui è rappresentato il disagio psichico: a scene
molto forti, introdotte da una diagnosi iniziale secondo cui la paziente
è definita come "più che isterica", segue la guarigione
pressoché totale della paziente. Poco interessanti le scene manicomiali,
già usate ed abusate dal cinema, tranne forse quella dell’applicazione
di elettricità in epoca antecedente l’elettrochoc. Poco sviluppati gli
spunti relativi alla novità del metodo analitico che in quegli anni si
andava elaborando, procedendo per tentativi ed errori e anche grazie alla
corrispondenza tra Freud e i suoi allievi. |

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