Mi
sono più volte chiesto perché la guerra dovrebbe esonerare l’uomo dal
sentirsi un assassino.
Procurare la morte, per giunta con un atto violento, può trovare l’assoluzione
morale e legale solo perché avvenuta nel contesto di un evento bellico? E’
forse una deroga ai principi, alle leggi ed alle convenzioni sociali, agli
stessi dettami religiosi, tanto che in alcuni casi si parla di guerra
santa o di pulizia etnica per giustificare un eccidio?
Ultimamente sono rimasto esterrefatto dalla sfacciataggine e dall’ipocrisia
di chi ha sostenuto, con un ineffabile ingegno, la necessità di una
guerra preventiva e dell’utilizzo di armi intelligenti in Iraq. Non
credo proprio che essere ammazzato preventivamente da un’arma
intelligente conduca ad una morte diversa, solo perché scientificamente e
tecnicamente corretta. Non solo. Si è talmente ribaltato il senso del
gesto cruento da ridurlo a puro spettacolo mediatico, in barba al rispetto
per il dolore di chi quella morte la vive sulla propria pelle di parente,
congiunto, perché la morte fa "audience". Forse che in
guerra come in amore tutto è concesso? Lo si dica a quelli scorgerne
morbosamente nella fissità dello sguardo e nella postura assunta, il
terrore, lo sgomento, il dolore, la morte.
Spesso mi viene il dubbio che i morti in guerra siano solo una pratica
scomoda ed ingombrante da archiviare in fretta nella memoria collettiva,
liquidandola con medaglie al valore, lapidi e statue commemorative, come
risarcimento all’iniquità perpetrata, per non averne più coscienza,
per non interrogarsi più.
Troppe volte si è cercato di spiegare la guerra con
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argomentazioni di matrice
socio-culturale, politica, economica; troppo spesso è stata
giustificata da condottieri, capi di Stato, ministri di Culto con
motivazioni patriottiche, religiose, colonialistiche, umanitarie. In
realtà la guerra è il bisogno ancestrale di sopraffazione e di potere
che induce l’uomo, unico esempio nel mondo animale, ad essere predatore
di se stesso ("homo homini lupus". Hobbes); è e resta
sempre e soltanto un orrore, la soluzione comoda ad un benessere
elitario.Ed io, intanto, continuo ancora a chiedermi perché la guerra
dovrebbe esonerare l’uomo dal sentirsi un assassino: non so darmi una
risposta!
che, rantolando nel proprio sangue, agonizzano davanti alla
telecamera che spietatamente sottrae loro la dignità per scorgerne
morbosamente nella fissità dello sguardo e nella postura assunta, il
terrore, lo sgomento, il dolore, la morte.
Spesso mi viene il dubbio che i morti in guerra siano solo una pratica
scomoda ed ingombrante da archiviare in fretta nella memoria collettiva,
liquidandola con medaglie al valore, lapidi e statue commemorative, come
risarcimento all’iniquità perpetrata, per non averne più coscienza,
per non interrogarsi più.
Troppe volte si è cercato di spiegare la guerra con argomentazioni di
matrice socio-culturale, politica, economica; troppo spesso è stata
giustificata da condottieri, capi di Stato, ministri di Culto con
motivazioni patriottiche, religiose, colonialistiche, umanitarie. In
realtà la guerra è il bisogno ancestrale di sopraffazione e di potere
che induce l’uomo, unico esempio nel mondo animale, ad essere predatore
di se stesso ("homo homini lupus". Hobbes); è e resta
sempre e soltanto un orrore, la soluzione comoda ad un benessere
elitario.Ed io, intanto, continuo ancora a chiedermi perché la guerra
dovrebbe esonerare l’uomo dal sentirsi un assassino: non so darmi una
risposta! |
Guerra
in TV
La forza mediatica della
comunicazione globale
di Sabatino Falanga
Il
nostro mondo è stato definito dagli americani "villaggio
globale". In esso, qualsiasi evento importante accada, in ogni angolo
del mondo, ha quasi immediate e dirette
ripercussioni dappertutto, grazie alle eccezionali applicazioni
telematiche. Esse annullano le distanze, il tempo e lo spazio, unificando,
omologando e comprimendo i contenuti stessi del conoscere in un
"presente continuo", che affascina e nel frattempo impaurisce.
Nel villaggio globale noi possiamo tranquillamente restare seduti a tavola
mentre sul nostro schermo
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televisivo si susseguono in tempo reale immagini
di violenza o di guerra.
È proprio quello che abbiamo vissuto in quei giorni di guerra in Iraq, in
cui eravamo bombardati da un’informazione continua, rapida e addirittura
colpiti da notizie-spettacolo, elaborate nella frenetica ricerca dello
"scoop" giornalistico, qualche volta anche a discapito della
stessa verità dei fatti.
Ma, ci chiediamo, la gente ha realmente compreso la tragicità della guerra?
Tutte queste informazioni sono servite almeno a sensibilizzare i cuori, affinché non si ripetano più
altri eventi così devastanti?
Abbiamo assistito ad una guerra assolutamente nuova rispetto al passato
perché fondata sull’uso di sofisticatissime tecnologie, che vedono come
protagonisti satelliti per l’osservazione ottica del territorio, aerei
bombardieri e supersonici, armati di "bombe intelligenti", veri
e propri radar volanti e numerose altre armi che consentono di colpire
"chirurgicamente" con incredibile precisione gli obbiettivi
militari, osservando i bersagli anche di notte.
I mass-media, soprattutto la televisione, hanno trasformato la guerra in
Iraq in un’esibizione "in diretta", in una sorta di "war
game" funesto ed affascinante, in cui le notizie si susseguivano, si
rincorrevano, si accavallavano, si smentivano a vicenda, con un ritmo
frenetico e con sempre più tempestivi servizi dai punti più caldi del
fronte.
Noi abbiamo osservato tutto questo da lontano, non fisicamente, infatti la
TV riusciva a coinvolgerci emotivamente solo per un po’, e una volta
spenta allontanavamo subito il nostro pensiero da quegli eventi così
drammatici. Respingevamo dalla mente tutte le immagini che ci mostravano
la gente sofferente, stravolta dalla macchina militare più potente del
mondo, che con la sua violenza ha ottenuto sì, la disfatta di uno dei
regimi dittatoriali più duri, ma ha anche portato devastazione e morte.
I mass-media hanno una fortissima risonanza sociale grazie all’abbondanza
di informazioni che riescono a trasmetterci. Le violente vicende belliche
trasmesse hanno certamente creato delle forti sollecitazioni psicologiche,
che mi auguro possano servire a sensibilizzare la gente contro la guerra e
meditare sul vero significato della parola "pace", che significa
rispetto reciproco, scambievole solidarietà e serenità interiore.
I mass-media, la scuola e le famiglie, in un rapporto di costante
collaborazione, possono e devono fare molto per una corretta educazione
alla pace, una vera e propria pedagogia all’unione benevola, aiutando le
nuove generazioni a recuperare i valori fondamentali della vita e gli
ideali che sono comuni a tutti i popoli. |