Anno III
Aprile-maggio 2003 
n. 4-5

pag. 12 di 16

Guerra intelligente?
no grazie!

Riflessioni in libertà sull’etica della guerra

di Antonio Muzio

Mi sono più volte chiesto perché la guerra dovrebbe esonerare l’uomo dal sentirsi un assassino.
Procurare la morte, per giunta con un atto violento, può trovare l’assoluzione morale e legale solo perché avvenuta nel contesto di un evento bellico? E’ forse una deroga ai principi, alle leggi ed alle convenzioni sociali, agli stessi dettami religiosi, tanto che in alcuni casi si parla di guerra santa o di pulizia etnica per giustificare un eccidio?
Ultimamente sono rimasto esterrefatto dalla sfacciataggine e dall’ipocrisia di chi ha sostenuto, con un ineffabile ingegno, la necessità di una guerra preventiva e dell’utilizzo di armi intelligenti in Iraq. Non credo proprio che essere ammazzato preventivamente da un’arma intelligente conduca ad una morte diversa, solo perché scientificamente e tecnicamente corretta. Non solo. Si è talmente ribaltato il senso del gesto cruento da ridurlo a puro spettacolo mediatico, in barba al rispetto per il dolore di chi quella morte la vive sulla propria pelle di parente, congiunto, perché la morte fa "audience". Forse che in guerra come in amore tutto è concesso? Lo si dica a quelli
scorgerne morbosamente nella fissità dello sguardo e nella postura assunta, il terrore, lo sgomento, il dolore, la morte.
Spesso mi viene il dubbio che i morti in guerra siano solo una pratica scomoda ed ingombrante da archiviare in fretta nella memoria collettiva, liquidandola con medaglie al valore, lapidi e statue commemorative, come risarcimento all’iniquità perpetrata, per non averne più coscienza, per non interrogarsi più.
Troppe volte si è cercato di spiegare la guerra con

argomentazioni di matrice socio-culturale, politica,  economica; troppo spesso è stata giustificata da condottieri, capi di Stato, ministri di Culto con motivazioni patriottiche, religiose, colonialistiche, umanitarie. In realtà la guerra è il bisogno ancestrale di sopraffazione e di potere che induce l’uomo, unico esempio nel mondo animale, ad essere predatore di se stesso ("homo homini lupus". Hobbes); è e resta sempre e soltanto un orrore, la soluzione comoda ad un benessere elitario.Ed io, intanto, continuo ancora a chiedermi perché la guerra dovrebbe esonerare l’uomo dal sentirsi un assassino: non so darmi una risposta!
 che, rantolando nel proprio sangue, agonizzano davanti alla telecamera che spietatamente sottrae loro la dignità per scorgerne morbosamente nella fissità dello sguardo e nella postura assunta, il terrore, lo sgomento, il dolore, la morte.
Spesso mi viene il dubbio che i morti in guerra siano solo una pratica scomoda ed ingombrante da archiviare in fretta nella memoria collettiva, liquidandola con medaglie al valore, lapidi e statue commemorative, come risarcimento all’iniquità perpetrata, per non averne più coscienza, per non interrogarsi più.
Troppe volte si è cercato di spiegare la guerra con argomentazioni di matrice socio-culturale, politica, economica; troppo spesso è stata giustificata da condottieri, capi di Stato, ministri di Culto con motivazioni patriottiche, religiose, colonialistiche, umanitarie. In realtà la guerra è il bisogno ancestrale di sopraffazione e di potere che induce l’uomo, unico esempio nel mondo animale, ad essere predatore di se stesso ("homo homini lupus". Hobbes); è e resta sempre e soltanto un orrore, la soluzione comoda ad un benessere elitario.Ed io, intanto, continuo ancora a chiedermi perché la guerra dovrebbe esonerare l’uomo dal sentirsi un assassino: non so darmi una risposta!

Guerra   in TV

La forza mediatica della
comunicazione globale

di Sabatino Falanga

Il nostro mondo è stato definito dagli americani "villaggio globale". In esso, qualsiasi evento importante accada, in ogni angolo del mondo, ha quasi immediate e dirette ripercussioni dappertutto, grazie alle eccezionali applicazioni telematiche. Esse annullano le distanze, il tempo e lo spazio, unificando, omologando e comprimendo i contenuti stessi del conoscere in un "presente continuo", che affascina e nel frattempo impaurisce.
Nel villaggio globale noi possiamo tranquillamente restare seduti a tavola mentre sul nostro schermo

                    

televisivo si susseguono in tempo reale immagini di violenza o di guerra.
È proprio quello che abbiamo vissuto in quei giorni di guerra in Iraq, in cui eravamo bombardati da un’informazione continua, rapida e addirittura colpiti da notizie-spettacolo, elaborate nella frenetica ricerca dello "scoop" giornalistico, qualche volta anche a discapito della stessa verità dei fatti.
Ma, ci chiediamo, la gente ha realmente compreso la tragicità della guerra? Tutte queste informazioni sono servite almeno a sensibilizzare i cuori, affinché non si ripetano più altri eventi così devastanti?
Abbiamo assistito ad una guerra assolutamente nuova rispetto al passato perché fondata sull’uso di sofisticatissime tecnologie, che vedono come protagonisti satelliti per l’osservazione ottica del territorio, aerei bombardieri e supersonici, armati di "bombe intelligenti", veri e propri radar volanti e numerose altre armi che consentono di colpire "chirurgicamente" con incredibile precisione gli obbiettivi militari, osservando i bersagli anche di notte.
I mass-media, soprattutto la televisione, hanno trasformato la guerra in Iraq in un’esibizione "in diretta", in una sorta di "war game" funesto ed affascinante, in cui le notizie si susseguivano, si rincorrevano, si accavallavano, si smentivano a vicenda, con un ritmo frenetico e con sempre più tempestivi servizi dai punti più caldi del fronte.
Noi abbiamo osservato tutto questo da lontano, non fisicamente, infatti la TV riusciva a coinvolgerci emotivamente solo per un po’, e una volta spenta allontanavamo subito il nostro pensiero da quegli eventi così drammatici. Respingevamo dalla mente tutte le immagini che ci mostravano la gente sofferente, stravolta dalla macchina militare più potente del mondo, che con la sua violenza ha ottenuto sì, la disfatta di uno dei regimi dittatoriali più duri, ma ha anche portato devastazione e morte.
I mass-media hanno una fortissima risonanza sociale grazie all’abbondanza di informazioni che riescono a trasmetterci. Le violente vicende belliche trasmesse hanno certamente creato delle forti sollecitazioni psicologiche, che mi auguro possano servire a sensibilizzare la gente contro la guerra e meditare sul vero significato della parola "pace", che significa rispetto reciproco, scambievole solidarietà e serenità interiore.
I mass-media, la scuola e le famiglie, in un rapporto di costante collaborazione, possono e devono fare molto per una corretta educazione alla pace, una vera e propria pedagogia all’unione benevola, aiutando le nuove generazioni a recuperare i valori fondamentali della vita e gli ideali che sono comuni a tutti i popoli.