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Dopo il sogno, 
la dura realtà.

Mercato nero

della ricchezza americana

e di vitali alimenti dalla campagne.

Treni stracolmi

corpi appiattiti

sul tetto delle carrozze

tornano dalle campagne del sud

anche i figli di zia Lena

con olio carne e farina.

Il lugubre acuto fischio

la frenata abusiva fuori stazione

tra lo stridio e lo scintillio sulle rotaie.

ad evitare le guardie

e la fuga tra i binari

scavalcando cancellate dalle punte aguzze

 

Centinaia di morti

soffocati dal fumo nero

della locomotiva

groviglio di corpi

calpestati dal panico

nel buio della galleria

di Battipaglia.

 

Salgono alla Piazza, ora mercato

di sigarette sciolte e di refurtiva,

in cerca di lavoro, avidi di notizie

uomini di mare a spasso

e scendono mesti, a capo chino,

rimuginando quale futuro.

 

Ancora treni pieni di militari

e in tanti dalla cancellata a gridare

alo’ biscuit, sigarett

per un raccolto sempre più gramo.

 

Si scava nelle cantine

e nei pozzi interrati

recuperando scarti ora preziosi

di madreperla e corallo di Sciacca

che il tracollo del prezzo

costrinse i nonni dei nonni

al necessario sacrificio.

Le discariche dei laboratori

pazientemente rivoltate

per colmare il barattolo

scambiato con l’ambita

scatoletta di corned beef.

 

La corrente elettrica ritorna

con annunci festosi dalla strada

‘a luce, ‘a luce,

mentre sfoglio contro la vetrata

all’ultimo barlume pomeridiano

la collezione di Topolino dei miei fratelli

con autarchici eroi

Ciuffettino di Vamba e Fulmine.

Finalmente ascoltiamo la radio.
 

Una mattina d’estate

quando il sole invade il corso

da levante alla discesa del Fronte

un uomo scalzo, alto e ossuto

il vastaso dalla coccia lucida

cerca la casa di don Peppino il rosso

una culunnetta di radica a spalla

è la nostra radio.   

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Autunno.

Autunno freddo

più dell’inverno

per tristezza

umiliazioni

e privazioni.
 

Le stagioni cadenzavano i giochi.
 

Come a segnali convenuti

in strada con gli strummoli

sapientemente levigati

da Giacchino il turniere

per gare infinite di azzeppate,

le barre, tifò e mazzepivuzo,

lungo il corso

sicuro campo di giochi,

dove solo di tanto in tanto

il camion sferragliante

la messa in moto a manovella

si annuncia con querula tromba

per la raccolta dei muntoni

alti di munnezza.

 

Le chiummarelle con le stagnole

dei lumini raccolte al Camposanto,

con le pigne dei cipressi

e colature e mozziconi di lumini

nelle visite di novembre

tempo di legnasante e allesse,

sostituivano le monete

per il gioco sottomuro

e ‘ntaccavreccia.

 

Battaglie di carrarmati

lenti mostri preistorici

i rocchetti del cotone

intagliati come ruote dentate

e cuscinetti di cera

plasmati a disco sciogliendo

colature e mozziconi

e anelli di camera d’aria

attorcigliati per la carica.   

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Mamma è disperata.

I risparmi di una vita

si dissolvono

giorno dopo giorno

sempre più celermente

inseguendo prezzi e amlire.

Gli uomini della famiglia

trovano lavoro a giornata

anche scaricanti di Liberty

al porto di Napoli.

 

Papà è trattenuto a Taranto

per la passata militanza politica

e Mamma disperatamente

vede svanire i risparmi

di anni di rinunce

e sacrifica beni di casa.

 

Anche i più giovani vanno a garzone

e Mamma percepisce con angoscia

l’inespresso rimprovero delle zie

per i suoi figli studenti

impreparati al lavoro.

Rivedo il suo viso pallido

gli occhi umidi e tristi

e le labbra strette a trattenere

tremolanti parole

la sera che le zie

fatte ardite dal suo silenzio

incalzano per la scelta.

Giacomino lascia le Medie

per il laboratorio di oreficeria

di un cugino di Mamma.

Ciccio al Ginnasio,

presto dedicherà le ore libere

allo stesso lavoro.

 

Aniello di zia Raffaella mi porta garzone

nel munazzero di Davidiello

all’ombra fredda, incombente

del muraglione nero della ferrovia

dietro al ponte di Cavino

che nasconde l’orizzonte e il mare

a costruire gozzi

per la mazzetta settimanale.

 

La V elementare appena iniziata

è presto abbandonata.

 

Nel munazzero sottocasa,

aperto al mare e al sole

che l’invade al tramonto,

favoloso antro, fucina di barche

profumo di pino, rovere e gelso

di fasciame, chiglie e madere,

porgo aiuti discreti,

accovacciato nel vuzzariello

silenzioso e seminascosto

a contrastare il rebbuzzo dei chiodi,

a spugnare tavole alla piegatura

sulla brace di pampuglie e segatura

e al pozzo per l’acqua fresca

zampillante dal giarro forato,

garzone volontario,

dalla loggia la voce di Mamma

mi cerca per il rientro,

avido di racconti e lazzi

che i carpentieri si rimandano

con improntitudine salace

contrappunto di voci

intenti all’opera

senza interrompere

il piallare segare martellare

attenti all’andirivieni vigile

e silenzioso di mastu Ciccio.

 

Assorto nella misteriosa opera

di tracciare costole di legno

a plasmare la forma del gozzo,

geloso custode di segreti

patrimonio della famiglia

tramandato in eredità,

mastu Tore il nonno dei sorrentini

interrompe l’armeggiare

con sagome e squadre

percependo sguardi curiosi.

 

Lo zingaro dai baffi spioventi

piccolo e misterioso

nera figura accosciata

appare di tanto in tanto

taciturno a zincare chiodi

che l’argenteo liquido

nella canalina sulla rossa brace

accoglie pigramente.

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Inverno di privazioni.

Inverno buio e freddo

di tanti ricordi

nessuno sereno

senza Domeniche

senza Natale

a macinare granurinio

 

per il pranzo e

per il pane con le patate

con i geloni del freddo

e per carenza alimentare.
 

Con Papà salivamo in piazza

per  la pizza nei piatti di latta

su tavoli di marmo in San Gaetano

al tepore del forno fiammeggiante

e poi la sfogliatella da Carbone

esitanti nella alternativa

pizza o sfogliatella?

quello che volete Voi,

scelta inespressa ad evitare

una spiacevole rinuncia.

 

La fragranza festiva del tiano di ragù

dal fuculare ci avvolge

nel crepitio dei maccheroni spezzati,

il ventaglio di penne

attizza la brace di carbonella

incalzando il bollore della caccavella

sul fuculare di decorate riggiole.

A tavola uniti per la festa

aroma di salsicce e friarielli

e zuppette e deliziose e sciù

e il rosso gragnano,

con la bottiglia andiamo,

non correre e non cadere,

alla cantina di Sciampagna

botti e tinozze nere di tannino

come l’alto bancone con zuppiere

di zuffritta e cequitta,

sotto il palazzo di fronte.

 

La nenia lamentosa di tre note

annunciava la semmulella mattutina

consumata calda con alici salate

e 'nzogna e pepe.
 

Nel tepore profumato del forno

la lunga attesa

della gialla e ammazzaruta pagnottella

di scagliuozzo

nostro pane quotidiano

avidamente consumata calda.
 

Portavamo casatielli per la Pasqua

ai forni del pane

profondi e bui come grotte

al largo San Giuseppe alle Paludi

dietro la Chiesa del Santo,

la cancellata lucida del sagrato,

ultimi rintocchi ai mesti cortei

sulla strada per il cimitero

aperta alle parule

al mare e al sole

rade case bianche

dal tetto a carosa

e botteghe di fiori e lumini.

 

Crepitio festoso di fascine

profumo resinoso di pini e abeti

rossa la bocca del forno fiammante.

Ruoti rigonfi di bianco impasto,

listarelle a croce coprono le uova

fantasia di segni a riconoscimento,

ora scomparsi nel caldo buio.

Partecipi concelebranti

indugiamo nell’incanto

dei gesti rituali, ieratici

che il pagano officiante

per antica usanza ripete.

La pesante lastra semitonda

chiude la bocca del forno

cementata con la nera argilla

che la mano distende e modella

come per una carezza al distacco

e viatico di buona cottura.

 

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Inverno dell’anima.

Nuvole nere

interminabile notte

rabbuiano il Corso

e l’animo

in balia di venti

gonfi d’acqua

salata come lacrime.
 

La libecciata porta il mare

nei munazzeri sotto casa;

bianchi cavalloni scavalcano il molo

e la rossa lanterna.

L’esplosione cupa dell’onda,

nella grotta dai sassi levigati

raccolti per i vasi di acciughe

produce alti soffioni bianchi

dalle crepe della nera scogliera.

Incessanti la notte i boati

e il tremito della casa

e il lugubre fischio del treno

e la paura esorcizzata nel buio

arrugnato sotto la coperta

tra umide lenzuola.

 

La rusca bagna i muri

grondanti come di pioggia,

penetra nei meandri della loggia

dove guardinghi si resta

capitani coraggiosi

leccando il sale dalle labbra

bravi a indovinare l’onda grande

per la fuga precipitosa.

 

Bianche efflorescenze di salemelicco

spunteranno sui muri,

delicatamente raccolto

per la miscela con la nera polvere

della muniglia per il braciere

per fiammate e scoppi d’artificio.
 

Il basolato grigio

di pietra vesuviana

avida di acqua

diventa nero

e viscido

come i nostri pensieri.

 

Procediamo lenti

a tentoni.
 

Montagne di sughero sul presepe

pastocchie dell’asteco per i prati

bianca vammacia la neve

sui monti e nel laghetto gelato

fondale azzurro e stelle d’argento.

Rapiti assistiamo alla costruzione

Papà tra un turno e l’altro al mulino

con  colla di farina

e ceralacca per azzeccare gambe,

maestosi Magi in sella a cammelli

alti più dei pastori

mentre dorme Benino,

sete e damaschi da antichi paramenti

per la Sacra Famiglia,

tra profumi di susamielli e pastiere

nel forno di campagna

intoccabili fino al cenone,

e struffoli e torrone di nocelline

bollente sul marmo del comò

e alchimia multicolore di rosoli.

Al dolce suono

di zampogna e ciaramella,

quotidiana Novena Natalizia,

corriamo sulla loggia

rapiti dall’otre rigonfio

e dalle vesti animalesche

come  i pastori del presepe. 

 

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La perduta fanciullezza.

A lunghi passi

impietosamente

troppo presto

si consumano i giorni

della fanciullezza.

 

Trovo lavoro anche io da orefice;

rame e ottone e saldatura di argento

per incastonare chionze in finimenti,

di rame e ottone,

di precaria doratura

per gli acquisti ricordi

dei liberatori.

 

Ci raccoglievamo dopo cena,

sui vetri la pioggia

complice del clima fantastico

ci teneva stretti al tepore

della calda brace

di muniglia e cernetura,

piedi scalzi irrequieti

cercano posto sul prevulillo,

per viaggi di fantasia

con il nonno, che ci cuntava

avventure di mare e dell’abate Faria

dalla lunga barba bianca

e antichi cunti  di orchi

e briganti e mammuni

che levano il grasso da sotto i piedi,

tra nuvole odorose della pipa

di bambù e terracotta

con la testa di Garibaldi,

e l’odore acre degli zolfanelli

accesi all’imboccatura

del lume a cisto,

ceramica levigata azzurra.

Tardi si scioglieva la compagnia

ognuno a casa sua

nel pauroso buio della loggia

avvolto dalla testa nella mantella

grigioverde militare.

 

Da zia Raffaella il cinematografo

la manovella velocemente ruotata

per le corse di Ridolini

e le passeggiate della cinese

nella pellicola ambrata.