Rivista Marittima - Flavio Russo - L'oro rosso di Torre - Pag. 38

           Il ricchissimo banco di eccezionale corallo e di incredibile facilità di prelievo fu denominato 'Summo', toponimo che non sottintende affatto un oscuro pescatore ma appunto la insignificante profondità dello stesso e quindi la sua inusitata convenienza (99). La Galita divenne perciò in breve volgere una vera base operativa dotata di semplici ricoveri dove numerosi torresi potevano rifugiarsi,di tanto in  tanto, durante la stagione della pesca. Il moltiplicarsi delle campagne negli anni successivi favorì l'organizzarsi, persino, funzioni sociali fino ad allora assolutamente inedite ed impraticabili. Iniziò ad esempio a seguire la flotta un sacerdote, designato con il titolo di 'Cappellano delle Barche', che celebrava sull'isolotto le prescritte fun­ioni religiose, favorendo inoltre il mantenimento dei contatti epistolari fra i corallari, per lo più analfabeti, e le loro famiglie a Torre. In particolare si prodigò per garantire quella assistenza spirituale il preposito curato don Vincenzo Romano, che in diverse circostanze si fece interprete presso il re di Napoli di suppliche per la liberazione dalla schiavitù di pescatori catturati nel corso della loro attività. Infatti, se i rischi connessi con l'intolleranza della Compagnia erano stati in qualche modo superati, non così poteva dirsi per quelli, di gran lunga  peggiori, derivanti dai corsari.
La temibilissima vicinanza delle principali basi barbaresche, purtroppo, non cessava di produrre funesti effetti ad onta di qualsiasi trattato od accordo. Non potendosi, per quanto accennato contare sulle navi da guerra napoletane, restava soltanto come estrema risorsa difensiva dei pescatori l'adozione di una scorta armata, ovvero di assoldare i rarissimi corsari regnicoli per fronteggiare quelli nordafricani. Per quanto ingenuo il dispositivo si dimostrò se non altro tranquillizzante, e non di rado, funzionante. I precedenti non mancavano, basti pensare al leggendario 'capitan Peppe', alias al capitano Giuseppe Martinez di origine spagnola (100), a cui si ascrissero temerarie incursioni ai danni delle Reggenze con catture di molti barbareschi,in terra ed in mare. Altra figura rimasta nella memoria storica fu quella di Gennero Accardo, che i torresi ingaggiarono per il lungo periodo che pescarono alla Galita insieme con un certo Agostino Dolce e con tal Francesco Gliuttieri di Lipari (101). La mancanza di riscontri significativi del loro operato sembra suggerire la modestia dellaprestazione. Comunque: "...Gennaro Accardo e Giuseppe suo figliuolo, corsari di professione, furono con galeotte a guardia di essi, per una pattuita mercede. Ma perciocchè essi con le picciole barche discorrevano il mare a lunghe distanze, e dispersi com'erano, alcune volte la protezione e guardia di quelli diveniva affatto infruttuosa e contuttocchè annualmente non pochi erano fatti schiavi e predati da barbareschi; tuttavolta rendendosi sempre più animosi, ed incuorati dal profitto che loro tornava per la vendita del corallo che da anno in anno cresceva, si vennero a mano a mano vien meglio ravvicinando sulla nimica costa di Barberia... cosicchè tutto il termine di mare che essi tentarono in que' sette anni,fu di un 60 miglia circa dal Ponente al Libeccio, e discosto dal lido di Algeri or dodici, or quindici or venti e per fino quarantatrè miglia italiane. Due anni dappoi si arrischiarono in lidi più lontani, passando in là da Caponegro,Caporosa e Capo di Bona, con più vicino pericolo di guerra e schiavitù..." (102.)
             Il progressivo accostarsi alla costa nordafricana, ed algerina in particolare, se da un lato può interpretarsi come sprezzo del pericolo e temerarietà dei pescatori torresi dall'altro è sensato ritenerlo la conseguenza dell'incessante incrementarsi del valore del corallo, capace di ottenebrare a tal punto la normale percezione dei rischi da annientare ogni elementare precauzione. Trovarsi, infatti, ad una distanza compresa fra una e tre ore dalla più aggressiva base corsara, per giunta a stagioni fisse e per periodi lunghi, immobili in mezzo al mare gravati pure dal valore del pescato significava sfidare la sorte, persino con un minimo di difesa. Prosegue infatti il Balzano, ricordando che: "...il risoluto pescatore corallaro, armato a guerra, e pronto com'era alla difesa contro i corsari barbareschi... usò quel diritto che il consenso delle nazioni aveva conceduto, essendo il mare della comunione degli uomini..." (103).

 
          La pesca del corallo nonostante i suoi innumerevoli drammi e suoi continui rischi si ritagliò in breve tempo nell'economia napoletana una rinomanza motivata e cospicua. Intorno alla metà del '700 la flotta corallina torrese oscillava ormai fra le 3-400 unità con inutuibili ricadute lavorative ed economiche.Non è affatto casuale che Ferdinando IV sentì, a quel punto, la necessità di regolamentarla tramite la promulgazione di un apposito codice, intitolato appunto 'Codice Corallino' ed emanato il 17 novembre 1789 da Caserta, per meglio dirimerne le procedure in ogni singola fase. Senza voler entrare nello specifico dei molti articoli è sufficiente, proprio per evidenziare la condizione di estremo pericolo in cui l'attività si svolgeva, citarne alcuni stralci: