Il ricchissimo banco di eccezionale corallo e di incredibile
facilità di prelievo fu denominato 'Summo', toponimo che non sottintende
affatto un oscuro pescatore ma appunto la insignificante profondità dello
stesso e quindi la sua inusitata convenienza (99).
La Galita divenne perciò in breve volgere una vera base operativa dotata
di semplici ricoveri dove numerosi torresi potevano rifugiarsi,di tanto in
tanto, durante la stagione della pesca. Il moltiplicarsi delle
campagne negli anni successivi favorì l'organizzarsi, persino, funzioni
sociali fino ad allora assolutamente inedite ed impraticabili. Iniziò ad
esempio a seguire la flotta un sacerdote, designato con il titolo di
'Cappellano delle Barche', che celebrava sull'isolotto le prescritte funioni
religiose, favorendo inoltre il mantenimento dei contatti epistolari fra i
corallari, per lo più analfabeti, e le loro famiglie a Torre. In
particolare si prodigò per garantire quella assistenza spirituale il
preposito curato don Vincenzo Romano, che in diverse circostanze si fece
interprete presso il re di Napoli di suppliche per la liberazione dalla
schiavitù di pescatori catturati nel corso della loro attività. Infatti,
se i rischi connessi con l'intolleranza della Compagnia erano stati in
qualche modo superati, non così poteva dirsi per quelli, di gran lunga
peggiori, derivanti dai corsari.
La temibilissima vicinanza delle principali basi barbaresche, purtroppo,
non cessava di produrre funesti effetti ad onta di qualsiasi trattato od
accordo. Non potendosi, per quanto accennato contare sulle navi da guerra
napoletane, restava soltanto come estrema risorsa difensiva dei pescatori
l'adozione di una scorta armata, ovvero di assoldare i rarissimi corsari
regnicoli per fronteggiare quelli nordafricani. Per quanto ingenuo il
dispositivo si dimostrò se non altro tranquillizzante, e non di rado,
funzionante. I precedenti non mancavano, basti pensare al leggendario
'capitan Peppe', alias al capitano Giuseppe Martinez di origine spagnola (100),
a cui si ascrissero temerarie incursioni ai danni delle Reggenze con
catture di molti barbareschi,in terra ed in mare. Altra figura rimasta
nella memoria storica fu quella di Gennero Accardo, che i torresi
ingaggiarono per il lungo periodo che pescarono alla Galita insieme con un
certo Agostino Dolce e con tal Francesco Gliuttieri di Lipari (101).
La mancanza di riscontri significativi del loro operato sembra suggerire
la modestia dellaprestazione. Comunque: "...Gennaro Accardo e
Giuseppe suo figliuolo, corsari di professione, furono con galeotte a
guardia di essi, per una pattuita mercede. Ma perciocchè essi con le
picciole barche discorrevano il mare a lunghe distanze, e dispersi
com'erano, alcune volte la protezione e guardia di quelli diveniva affatto
infruttuosa e contuttocchè annualmente non pochi erano fatti schiavi e
predati da barbareschi; tuttavolta rendendosi sempre più animosi, ed
incuorati dal profitto che loro tornava per la vendita del corallo che da
anno in anno cresceva, si vennero a mano a mano vien meglio ravvicinando
sulla nimica costa di Barberia... cosicchè tutto il termine di mare che
essi tentarono in que' sette anni,fu di un 60 miglia circa dal Ponente al
Libeccio, e discosto dal lido di Algeri or dodici, or quindici or venti e
per fino quarantatrè miglia italiane. Due anni dappoi si arrischiarono in
lidi più lontani, passando in là da Caponegro,Caporosa e Capo di Bona,
con più vicino pericolo di guerra e schiavitù..." (102.)
Il progressivo accostarsi alla costa nordafricana, ed algerina in
particolare, se da un lato può interpretarsi come sprezzo del pericolo e
temerarietà dei pescatori torresi dall'altro è sensato ritenerlo la
conseguenza dell'incessante incrementarsi del valore del corallo, capace
di ottenebrare a tal punto la normale percezione dei rischi da annientare
ogni elementare precauzione. Trovarsi, infatti, ad una distanza compresa
fra una e tre ore dalla più aggressiva base corsara, per giunta a
stagioni fisse e per periodi lunghi, immobili in mezzo al mare gravati
pure dal valore del pescato significava sfidare la sorte, persino con un
minimo di difesa. Prosegue infatti il Balzano, ricordando che: "...il
risoluto pescatore corallaro, armato a guerra, e pronto com'era alla
difesa contro i corsari barbareschi... usò quel diritto che il consenso
delle nazioni aveva conceduto, essendo il mare della comunione degli
uomini..." (103).
La pesca del corallo nonostante i suoi innumerevoli drammi e suoi
continui rischi si ritagliò in breve tempo nell'economia napoletana una
rinomanza motivata e cospicua. Intorno alla metà del '700 la flotta
corallina torrese oscillava ormai fra le 3-400 unità con inutuibili
ricadute lavorative ed economiche.Non è affatto casuale che Ferdinando IV
sentì, a quel punto, la necessità di regolamentarla tramite la
promulgazione di un apposito codice, intitolato appunto 'Codice Corallino'
ed emanato il 17 novembre 1789 da Caserta, per meglio dirimerne le
procedure in ogni singola fase. Senza voler entrare nello specifico dei
molti articoli è sufficiente, proprio per evidenziare la condizione di
estremo pericolo in cui l'attività si svolgeva, citarne alcuni stralci:
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