Torre e il corallo     pag. 3 di 17

Il suo scopo era di aiutare e di agevolare ogni attività direttamente o indirettamente connessa al corallo. Infatti, tra 1’altro doveva rifornire le barche di spago e di funi, di "biscotti" a prezzo di costo, oltre che di anticipare alle stesse ogni spesa occorrente durante la stagione di pesca.

       
  
Rapporto datato 15 settemre 1884 indirizzato
al Prefetto di Napoli: si espone 1’atteggiamento
tenuto dall’equipaggio della "corallina" "Cina",
   che rifiuta il divieto di attracco a Ventotene
       e 1’ingiunzione di quarantena a Gaeta

Le era fatto obbligo di aprire, con onere a proprio carico, una fabbrica per la produzione di funi occorrenti alla pesca e un’altra, naturalmente, per la lavorazione del grezzo.
La «Compagnia» aveva 1’esclusiva della compra- vendita del corallo e se ai pescatori era assoluta- mente proibito cederlo ad altri, essa era tenuta ad acquistarlo tutto ad un prezzo definito da dieci esperti.
La Società avrebbe poi provveduto a vendere sia il grezzo che il lavorato, agevolandosi di esenzioni fiscali su quello esportato. Purtroppo, pero, 1’impegno dei Borboni nel voler dare un certo sollievo alla pesca e 1’impulso iniziale alla lavorazione « in loco », non dettero il risultato auspicato. Come era fallita la regolamentazione della pesca prevista dal «Codice Corallino», promulgato nello stesso 1790, cosi falliva la possibilità di togliere Torre dallo stato di inferiorità rispetto a Genova e a Livorno.
Qui viene da chiedersi: fu un fallimento dei Borboni o dei torresi, i quali, come tutti i meridionali, mal sopportano leggi e regolamenti? Comunque da questi fallimenti i corallini si ritrovarono al punto di partenza, a quella condizione di sempre, denunciata già dal giurista Michele De Iorio nel 1788. 

Con ottimismo credeva nella validità di una « Compagnia del Corallo »: « ...noi che siamo i padroni di questo tesoro lo portiamo in tributo a Livorno piangendo, pregando, implorando misericordia da quei negozianti ebrei, in mezzo a mille spese e mille avarie ». In alcuni periodi, anche dell’800, cio che maggiormente opprimeva i pescatori era il pochissimo danaro di cui solo raramente disponevano, benché fossero «padroni» dei loro gozzi: per «armare a corallo», infatti, erano sempre costretti a ricorrere a prestiti al « cambio marittimo » che, se in teoria si aggirava sul 20-25%, in pratica arrivava anche al 50%. I debiti venivano saldati a chiusura di «stagione»; quando, pero, non si riusciva a vendere subito il raccolto, la situazione diveniva drammatica e le conseguenze si protraevano per anni. Cosi accadde ai Loffredo nel 1820:
« La pesca fu eseguita in Corsica; del ricavato non si poté conoscere la somma perché venne portato a Livorno e cola rimase invenduto per due anni. E perché occorreva pagare le somme e gli interessi maturati si dove pignorare su quella piazza ».
Erano episodi piuttosto frequenti, dovuti anche al disuso dell’ornamento di corallo verificatosi dopo la caduta di Napoleone. Per 1’incertezza di portare «il pane a casa», molti disertarono, in quell’epoca, l’attività di pesca e tra questi i Loffredo, che nel 1830 pensarono di sbarcare il lunario in tutt’altro modo:
«Pochi erano quelli che si davano di ciò premura (cioè di attrezzarsi per la pesca, n.d.a.); noi si pensò di trovare altro mezzo per vivere. Pensammo io e i fratelli di andare sulla spiaggia di Salerno a raccogliere la legna da fuoco per venderla. Venuto maggio, poi, os
servammo anche che due barche caricavano pomodori per portarli alle città di Roma e di Livorno e risolvemmo a fare l’istesso anche noi».

         
      
Libretto matricolare di Ferdinando D’Amato
 di Torre del Greco, imbarcato su una "corallina"
               all’età di 10 anni e 8 mesi (1876)