E i piccoli amuleti incisi,
ritrovati in quest’isola stanno proprio a testimoniare la pratica di
tale trasformazione. Non possono essere dimenticati i Celti, che ebbero un
tale culto per il corallo che, quando venne loro a mancare, perché
avviato su mercati più remunerativi, ne cercarono un sostituto nello
smalto rosso. Questa gente, tanto rude e guerriera quanto sensibile all’armonia
delle forme e dei colori vivaci, nomade e ingegnosa, che scorrazzo
indisturbata in tutta Europa dal 2’ millennio a.C. fino alla prima
sconfitta inflitta loro dai Romani (225 a.C.), lavoro i cormi secondo
quell’istinto artigiano che tanto la di- stinse dalle altre civilta.
I Celti prediligevano il colore rosso e anche per ciò impiegarono cosi
diffusamente il corallo quale ornamento sugli elmi, sugli scudi, sulle
fibule. Essi, pur trasformandolo, prevalentamente a forma di borchie, non
ne praticarono mai l’incisione. I Romani, poi, videro nel corallo una
materia bastante a sé stessa, che, costituendo nuda gia un ornamento
completo, non andava impiegata per adornare metalli o altre materie.
Raramente, perciò, ebbero oggetti personali o monili con castoni della
nostra materia anche se non mancarono di collane d’oro da cui pendevano
coralli. Per testimoniare l’importanza data dai Romani al solo corallo,
il Tescione fa riferimento ad un «girocollo» formato da tanti
cilindretti che, per la loro uniformità di colore e di dimensione,
conferiscono allo stesso 1’effetto di un cilindro unico.
L’incisione, benché non molto diffusa, fu praticata con vera maestria e
il corallo, per i Romani dall’indiscusso potere apotropaico, venne
trasformato in amuleti, tra i quali primeggiava, a volte stilizzata, la
rappresentazione fallica. Certamente non si fermo qui la bravura degli
incisori; esemplari di bellissimi lavori eseguiti in varie epoche sono
riportati dal Tescione: un grosso cammeo con Medusa del 1’-2’ secolo
d.C.; un Sileno (demone dei boschi) di perfetta esecuzione greco- romana
(4 cm.); un torso maschile (6 cm.), purtroppo mutilo di un braccio
risalente alla fine dell’Impero.
La più stupefacente opera in corallo che abbia finora visto è possibile
ammirarla nell’ufficio «riservato» del Direttore del British Museum di
Londra: un Giove Serapide di arte greco- romana, dallo sguardo
particolarmente dolce ed espressivo, parlante quasi, che puo essere nato
solo dalla bravura di un maestro sensibile e tecnicamente scaltrito. Ma di
questo Giove, oltre alle caratteristiche conferitegli dall’uomo, un’altra
mi ha notevolmente colpito: il colore rosso, tipico del «mediterraneo»,
rimasto del tutto inalterato, malgrado i millenni trascorsi. Sono molte le
opere del passato: e proprio per questo non concordiamo col prof.
Ferracciù, che nega 1’esistenza della lavorazione del corallo in epoca
antecedente a quella trapanese.
Nella monografia «La Regia Scuola d’incisione sul corallo e di arti
decorative affini di Torre del Greco» egli dice, infatti, di ritenerla
possibile per il passato solo «... se con ciò si intenda una maniera
superficiale ed un po’ rozza di spezzare il corallo ed arrotondarlo».
Ma quelli dei Romani non sono forse veri capolavori d’arte? Di tale
parere e il prof. Tescione, che afferma « ... nel mondo greco- romano
esso (cioè il corallo) assurge al grado di opera d’arte a sé stante,
sia che si presenti sotto l’aspetto di ben tornita collana, che non e
più rosario di materie diverse, sia che si volga a rappresentare con
evoluta plastica i simboli superstiziosi o i soggetti della mitologia e
della vita reale». |
L’EVOLUZIONE
DELLA LAVORAZIONE
La storia del corallo riferisce che fino al sec. XVI si parla
genericamente di «corallo lavorato», intendendosi con ciò quei grani
(detti «paternostri») che, indipendentemente dal loro pregio o
grandezza, si utilizzarono prima per i rosari, usati dai musulmani e dai
cristiani, poi per quello che e stato sempre il più diffuso ornamento
muliebre: la collana. Per lungo tempo, quindi, la lavorazione fu, salvo
eccezioni, limitata alle più semplici operazioni: il taglio dei rametti
alle dimensioni volute dall’uomo e consentite dal ramo, l’arrotondatura
e la pulitura (inizialmente molto grossolane) dei pezzi i quali, solo
verso il XVII secolo, assunsero anche forme diverse da quella sferica.
I primi popoli che si sono dedicati alla lavorazione del corallo sono
stati gli stessi che per primi ne hanno esercitata la pesca, i
mediterranei. E per questo, per centinaia e centinaia di anni, tutta l’attività
si è svolta nel nostro bacino. Purtroppo, di notizie circostanziate sulla
lavorazione nel medio evo ve ne sono poche; il Tescione dice che Genova e
la Sicilia dovevano aver gareggiato gia prima dell’XI secolo nella
produzione dei «paternostri».
Il dato più preciso ci viene da Genova ed è il Podestà a fornirlo;
egli, per smentire Pietro Balzano, che vuole essere stata Trapani la prima
città ad aver lavorato il corallo, accenna a documenti genovesi del 1154
in cui si parla già di coralli lavorati; del 1268 e un altro scritto che
fa cenno a «bottoni», mentre al 1284 risale il documento che riferisce
di fermagli di corallo spediti a Costantinopoli.
La Provenza è stata anch’essa tra le prime aree di produzione di
manufatti di corallo, e la cosa si spiega con l’attività di pesca
esercitata da quella gente. Per una logica distribuzione dei mercati,
conseguente alla dislocazione geografica dei centri di lavorazione, i
prodotti siciliani venivano avviati al vicino Oriente, mentre quelli
liguri e provenzali prendevano le vie dei Paesi dell’Europa occidentale.
Anche Amalfi produceva le rosse sferette, che permutava con spezie, allora
rare e costose, portate dai mercanti levantini. Nel XIV sec. la
lavorazione è attestata anche a Parigi, dove gli addetti erano così
numerosi da costituirsi in corporazione; nei secoli successivi 1’attività
si estese a Lione, Aix, St. Claude. Come citato, la prima destinazione
data ai «paternostri » fu la composizione dei rosari, sui quali avevano
una certa influenza la moda e il ruolo che ogni epoca assegnava alla
religione: nel Tescione si legge, ad esempio, che verso il XII e XIII
secolo quelli di pietre dure, tra cui il corallo, venivano usati in
Francia solo dai poveri; il contrario avveniva ad Orvieto, dove nel 1260,
i rosari di ambra e corallo erano ritenuti cosi preziosi da doversene
proibire 1’uso alla gente più umile e, in particolare, ai conversi dei
monasteri domenicani. Nel XII secolo Barcellona, centro di pesca molto
attivo, era anche tra le aree in cui più diffusamente si trasformava il
corallo.
Le varie egemonie che si sono avvicendate nell’Italia insulare e
peninsulare, dove la lavorazione si avvantaggiava dell’abbondanza di
corallo pescato lungo le proprie coste, hanno sempre tenuto in gran conto
tutta l’attività derivante dal piccolo alberello marino; gli Aragonesi,
pero, forse perché furono nel nostro Regno nel momento giusto
(1442-1495), le dettero notevole impulso e sostegno, sicché i manufatti
dell’epoca ebbero una chiara quanto incisiva impronta spagnola. A
Napoli, sede di una delle Corti più sfarzose del XV secolo, troviamo i
primi nuovi tagli dati al corallo: si parla di collane con elementi a
forma di «lenticchia» e di «fette di melone », vere originalità
emergenti dalla secolare tipologia di tale ornamento. Nel ’400 si trova
per la prima volta il corallo nell’arte figurativa; non si pensi pero
alle sculture o all’incisione del cespo perché l’impiego era limitato
a sostenere, quale albero o croce, preziose figure mitologiche,
allegoriche o sacre, o a fungere da zampe e corna di animali fatti con oro
e argento.
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