Con la messa e comunione tutte le mattine, le
lezioni da ascoltare all’Università, lo studio da fare a casa e
le visite prolungate all’ospedale, la giornata era troppo breve
per Gaetano. Eppure, trovava qualche ritaglio di tempo per entrare
nei conventi, conversare con i monaci, unirsi alle loro preghiere
e penitenze. Insomma, gli anni dello studentato di Padova,
anziché affievolire il sentimento religioso, lo rafforzano, fino
a cambiare in ferma determinazione di divenire sacerdote.
In verità, era questo un pensiero accarezzato fin dall’adolescenza,
quando mostrava apertamente di non pregiare né l’avito casato,
né il palazzo paterno, né gli agi propri delle persone del suo
grado. Tutti quelli, che guardavano dall’esterno, dissentivano
da tale atteggiamento. I più benevoli lo consideravano niente
altro che una manifestazione dei propositi di ogni adolescente:
santi, ingenui o addirittura eroici, ma passeggeri. Guardando
invece a quello, che avvenne dopo, dobbiamo dedurne che erano
tutti uomini dalla veduta corta, mentre il giovane guardava
lontano e, quel che più conta, si fortificava nel progetto, che
per lui significava mettersi in tutto e per tutto a servizio di
Dio, diffondendone e praticandone i comandamenti in mezzo ai più
poveri e perciò più bisognosi.
Padova dunque non intiepidisce, anzi rafforza il suo anelito al
sacerdozio e lo fortifica. I compagni di Università, chi più chi
meno, studiano di buona lena; ma, quanto a gioie mondane, non si
rintanano certo in casa. Anche il Thiene, fra l’applicazione
intensa all’Università e a casa e le visite ai poveri nei
tuguri e negli ospedali, si concede attimi di gioia e li affida a
un diario intimo. Eccone un brano:
« So bene che io non merito, o Signore, d’essere ammesso al
consorzio di questi angeli terreni (sotto tale luce egli vedeva i
sacerdoti); desidero, però, di meritarlo. Voi vedete le mie brame
ardenti di legarmi indissolubilmente a Voi col vincolo dei santi
voti. Perché dunque non mi consolate, o amato Bene? Ad ogni modo,
il mio volere è di non volere il mio, ma il vostro volere.
Accettate almeno questi desideri del mio cuore, che, appresso di
Voi, vanno al pari con l’opera, quando non possono eseguirsi ».
Non mi si venga a dire che queste parole sono sì belle e alate,
ammirevoli testimoni di slancio e afflato religioso; ma che,
sgorgate da un cuore giovanile, rientreranno nell’ombra col
passare degli anni, per cedere il posto a parole, pensieri e
pratiche più conformi alla natura umana, ai tempi e alle
necessità terrene. No, la differenza fra Gaetano Thiene e la
miriade di suoi coetanei sta in questo: quelli promettono e, a
modo loro, sono sinceri; poi, magari rammaricandosene, scendono a
ogni sorta di transazioni. Il Nostro quel che promette in
gioventù, manterrà negli anni maturi. Diverrà una roccia di
fede, di ardore caritativo e a tale roccia, negli anni durissimi
per la Chiesa, che stanno per scoccare, molti si aggrapperanno
saldamente.
Operosa sosta nel
paesino di Ramazzo
Il soggiorno padovano è notevole per un’altra
cosa: il distacco del Nostro dalla famiglia (non sul piano
affettivo, sia ben chiaro, ma su quello degl’interessi). A
Vicenza, i Thiene tenevano un palazzo, il che comportava una vita
di agiatezza e di conformi relazioni sociali. Gaetano ha a noia le
une e le altre, per sottrarsi alle quali non trova di meglio che
non tornare, per tutti gli anni d’Università, se non per una
volta sola e per soli tre giorni, in famiglia. Amava la madre,
come vanno amate tutte le mamme e anche col maggior fratello
Giambattista era in eccellenti rapporti affettivi. Tuttavia, fa
forza al sentimento e resta sempre a Padova, perché ivi la
maggior comunicazione con Dio (per il tramite dei poveri e degli
ammalati degli ospedali) non è appannata dalle cure e dai
traffici, che ogni famiglia (tanto più se è di alto rango)
impone.
Anche quando, terminati brillantemente gli studi con la doppia
laurea in diritto canonico e civile (per la quale gli fu conferita
la « corona d’alloro », sogno di tutti i laureandi del tempo),
il non ancora ventiquattrenne Gaetano deve rientrare in famiglia,
preferisce alla ricca residenza vicentina quella più umile di
Rampazzo, ove gli stessi Thiene avevano un castello.
L’ammirevole giovane nota, con rammaricato stupore, che i
rampazzesi (allora in numero esiguo e tutti contadini) avevano un’istruzione
religiosa assai deficitaria. Non mancava loro la chiesina di san
Fermo; ma il parroco stava lontano e a Rampazzo compariva di rado.
Constatare l’incoltura religiosa di quella pur buona gente e
proporsi di eliminarla, fu tutta una cosa per Gaetano, che, con
animo lieto, si trasformò, da giurista quale ormai era, in
catechista. I frutti dell’insegnamento non tardarono a
palesarsi; ma sarebbero stati più copiosi se la cappellina di san
Fermo fosse stata sostituita da una più ampia e decorosa chiesa.
Gaetano disponeva di qualche rendita; ma non dimentichiamo che,
essendo figlio cadetto, il grosso del patrimonio Thiene, secondo l’uso
del tempo, spettava al figlio maggiore. Questi, conosciuto l’intendimento
di Gaetano di costruire una vera chiesa a Rampazzo, l’approvò e
fu largo di donativi. Sorse così la chiesa dedicata a Dio ottimo
e a Maria Maddalena, che, ingrandita nei secoli successivi, esiste
ancora.
Un più grande teatro d’azione:
Roma
In tutti i tempi, Roma ha esercitato un grande
fascino sugli uomini, siano essi di cultura, di fede, di arte, di
azione sociale ed economica, per non parlare degli avventurieri e
degli arrampicatori.
Gaetano Thiene ha profonda cultura e radicata fede religiosa, ma
soprattutto è giovane di venticinque anni e con l’animo ancor
pieno di santi ideali: ce n’è abbastanza per capire la
decisione di lasciar Rampazzo e Vicenza e di trasferirsi a Roma.
Il rigore di vita, attuato negli anni di Padova e nel più breve
periodo di Rampazzo, continua a Roma: tra lo studio, la preghiera,
le visite agli ospedali e ai ricoveri di mendicità, la giornata
gli vola. Se ha un rammarico è per la brevità di tale giornata:
se fosse più lunga, potrebbe servire meglio il Signore in altre
opere di carità.
Non si cura di entrare in dimestichezza con i potenti: se
rivelasse il suo casato, molte porte si aprirebbero. Ma lo
attirano di più le porte dei tuguri, ove c’è tanta miseria
fisica e morale: per la prima, il giovane ha sempre un pane; per
la seconda il dono della parola, che allevia la desolazione e
incita alla speranza.
Poiché il problema della sussistenza si presenta anche a Gaetano,
egli lo risolve comperando (secondo il non mai abbastanza
deprecato uso del tempo) la carica di prelato domestico di Sua
Santità. Il denaro gli è giunto dalla famiglia, quasi come una
liquidazione del poco che, quale cadetto, pur gli competeva.
In quel tempo era papa Giulio Il, che prese a ben volere il suo
nuovo prelato domestico, venendone così a conoscere il
nobilissimo animo. Quando, di lì a poco, si rese vacante un posto
di protonotario apostolico (carica molto ambita), Giulio Il non
tenne conto di vari aspiranti più anziani e nominò Gaetano
Thiene.
La benevolenza di Giulio Il verso il « diletto figlio maestro
Gaetano Thiene, scrittore e nostro (cioè del papa) familiare »
si manifestò ancora con la concessione « gratis » della
parrocchia di Malo (in provincia di Vicenza) e della promessa di
altri tre « benefici », che gli sarebbero stati automaticamente
conferiti, man mano e appena si fossero resi vacanti.
Ho messo fra virgolette la parola gratis, perché, normalmente, in
quell’epoca, i benefici ecclesiastici, grossi o piccoli che
fossero, si comperavano a suon di quattrini, pochi o molti a
seconda di ciò che i benefici stessi, una volta in godimento;
avrebbero reso al beneficiano. Duole di dover dire queste cose,
tanto gravi che, oggi, sembrano impossibili. A voce, le si
deplorava; ma erano tanto nell’uso che non si faceva più caso
al male che arrecavano alla religione. Questo male diveniva ancor
più grave per il fatto che chi aveva comperato una parrocchia,
non era tenuto ad andarci: poteva restarne lontano per poco o per
molto tempo, e anche per sempre, purché ci avesse destinato un
sostituto. Tolta dalla rendita la poca paga del parroco supplente,
tutto il grosso, che ne restava, andava al titolare. Quest’ultimo
(ed è il caso di Gaetano Thiene) poteva non essere neppure prete;
il che non gl’impediva d’occupare un posto così delicato e di
alta responsabilità come quello di parroco.Il quadro è fosco, ma
qualche luce pure lo rischiara. Non tutti questi preti (che, con
parola entrata nell’uso, potremmo dire « assenteisti ») erano
sempre e solo profittatori. C’erano anche quelli che, per farsi
perdonare l’assenza dalla sede del beneficio (chiesa, parrocchia
o vescovato) facevano allo stesso qualche dono importante.
Nei riguardi del Thiene, il triste quadro della decadenza del
costume religioso si risolve a tutto vantaggio della di lui
grandezza, perché se è vero che fece solo visite saltuarie a
Malo, è altrettanto vero che non percepì mai un soldo della
rendita della parrocchia: lasciava tutto al parroco sostituto e
dava ancor del suo ai bisognosi. In conseguenza di tale
comportamento, nel processo di canonizzazione, i parrocchiani di
Malo, chiamati a testimoniare, non dicevano Gaetano Thiene, ma il
pre’ santo.
C’è di più: il Nostro era sì un puro di cuore; era sì un
generoso, pronto a scusare le debolezze altrui (ma non mai le
proprie); credeva fermamente che la Chiesa, essendo un’istituzione
divina, non poteva crollare per certe usanze peccaminose, che in
essa allignavano; ma gli occhi li teneva ben aperti e il male (che
alla comunione dei fedeli derivava dalle istituzioni sbagliate e
dai ministri del culto, che di quelle approfittavano, per
tralignare impunemente) lo vedeva e ne soffriva assai.
Da tale dolorosa constatazione e dal profondo dolore che gliene
derivava, nasce il proposito, vago e incerto all’inizio, fermo,
operoso (e perciò fruttifero in seguito) di riformare le usanze
della Chiesa, e, in conseguenza, di ridare ai suoi ministri la
dignità, che deriva dalla vita irreprensibile, non solo dentro,
ma anche fuori le mura del tempio.
E’ ancora presto per parlare dell’Ordine, che egli fonderà (i
Chierici Regolari); ma fin da questo momento si può definirlo una
pietra fondamentale nell’edificio della Chiesa rinnovata.
Comunemente si dice « Riforma » quella iniziata da Lutero e «
Controriforma » quella operata in seno alla Chiesa, per tornare
all’osservanza degli antichi principi. Sarebbe più giusto dire
Scisma Protestante e Riforma della Chiesa (che da allora si
chiamò cattolica). In detta Riforma, Gaetano Thiene ha un suo
posto: preciso, autorevole, nobilissimo. Per esso, dopo
cinquecento anni, è degno di ricordo, di amore, di venerazione.
Inattesa,
ma meritata
ricompensa
E’ risaputo, da quando mondo è mondo, che il
male fa notizia assai più del bene. Così i romani lingue lunghe,
intenti a biasimare i preti dal comportamento disdicevole,
ignoravano i tanti altri, che i dieci comandamenti, oltre che
predicarli, li attuavano.
A Roma esisteva un ristretto cenacolo di sacerdoti e di laici
impegnati alla messa e comunione frequente, alla preghiera in
comune in certi giorni e all’esercizio della carità verso il
prossimo. Si chiamava Confraternita del Divin Amore e accomunava
nomi oscuri ad altri illustri, come Jacopo Sadoleto, segretario di
Papi, Gian Piero Carafa, vescovo di Chieti e futuro papa Paolo IV.
La Confraternita del Divino Amore non era originaria di Roma, ma
ricalcata su quella voluta a Genova dalla nobile Caterina
Fieschi-Adorno, futura santa.
Gaetano Thiene comincia a frequentare il cenacolo e si appassiona
alla sua attività (che del resto concordava in pieno con quella
singola, da lui svolta sin da giovinetto) a tal punto da
diventarne incessante propagatore. In appresso, egli dovrà
viaggiare molto; ebbene, giunto in una città, s’informava dell’esistenza
della « Divino Amore »; se c’era, andava a visitarla e a
infervorarla ancor più nell’opera di carità; se mancava, si
metteva all’opera per fondarla.
Era necessario ricordare l’ingresso di Gaetano al « Divino
Amore» di Roma, perché da quel contatto nacque il proposito di
realizzare l’antica aspirazione di farsi prete: di fronte ai
laici, che conducevano vita esemplare per zelo religioso e per
pratica della carità evangelica, lui era rimasto all’impiego di
curia; di fronte allo sconquasso, che si preannunciava dal Nord
Europa, bisognava armarsi al completo e assumersi tutte le
responsabilità, connesse alla funzione di intermediario tra gli
uomini e Dio.
Dal contatto con i sodali del « Divino Amore », Gaetano si
convinse che l’umiltà, pregevole in ogni cristiano, risplende
ancor più nel sacerdote, perché i fedeli (che doverosamente
hanno di lui un alto concetto) lo ammirano di più, vedendolo,
oltre che dotto, pio e caritatevole, anche umile.
Il novello sacerdote aveva allora trentasei anni e, come rinnovata
manifestazione di umiltà, non celebrò la prima messa se non dopo
tre mesi di continua preghiera. Però, dopo la prima, non passò
giorno che non rinnovasse il divino sacrificio (il che non era nel
costume di tanti preti).
Ora che è sacerdote di Cristo, don Gaetano sente che, sia per i
fedeli in genere che per i poveri e gli ammalati in ispecie, ha
nuovi doveri, allo svolgimento dei quali però è d’ostacolo il
lungo impegno quotidiano all’ufficio di protonotario apostolico.
Papa non è più Giulio Il, ma Leone X, tutto inteso a dare
magnificenza (forse più esterna che interiore) alla Chiesa. Don
Gaetano gli chiede di essere esonerato dalla carica e il papa (ma
a malincuore, perché sapeva che la Curia avrebbe perduto un
elemento prezioso) glielo concesse.
Sacerdote e non più tenuto agli impegni dell’ufficio in
Vaticano, don Gaetano continua e anzi intensifica la sua azione
caritativa. Come vivesse, ce lo dice un testimone oculare, certo
don Enrico Danese:
« Era irreprensibile, casto, mansueto, misericordioso e pieno di
ogni pietà verso gli infermi. Con le sue proprie mani li cibava e
custodiva e serviva. In quanto alla sua camera era povera: c’era
un povero saccone di paglia, dove riposava, con un cuscino, un
tavolino con uno sgabello per sedere, con alcuni libretti e una
figura di carta. Lo vestire suo era di panno grosso, con calzette
di cordicella bianca, con calzoni alla veneziana ...
Don Gaetano svolgeva l’ammirevole azione di assistenza
spirituale e materiale nell’ospedale di San Giacomo. Ma egli e i
confratelli della « Divino Amore » sapevano e vedevano quanti
ammalati, tanto gravi da essere ritenuti incurabili, vagavano,
schivati da tutti, per la città.
Pungolati da don Gaetano, i confratelli, che, per le cariche
civili e religiose occupate, avevano voce presso le autorità,
riuscivano, superando mille ostacoli, largamente sovvenzionati dal
ceto nobile, a trasformare il San Giacomo da ospedale generico in
ospedale per gli incurabili. Il ricovero offerto ai derelitti,
che, miseri, stracciati e ripudiati, avevano, fino allora, vagato
per la città, fu una non reclamizzata, ma certo tanto apprezzata
affermazione della confraternita del Divino Amore.
I limiti di questo scritto vietano di dire tutto quanto andrebbe
pur detto sul « fuoco bruciante e illuminante », che
caratterizzò il primo anno di sacerdozio di don Gaetano. Ma del
premio che egli ricevette nella notte di Natale di tale anno
(1516) non si può tacere.
Stava pregando in Santa Maria Maggiore, e precisamente nella
cappella del Presepio (dove si conservano, inseriti in una
magnifica culla di materiali preziosi, alcuni legni della culla di
Gesù), allorquando mosse, con gesto apparentemente, illogico, le
braccia verso l’immagine di Maria col Figlio. Successe allora l’incredibile:
la Vergine Madre posò, sulle braccia tese di don Gaetano, « quel
tenero fanciullo, carne e vestimento dell’eterno Verbo ».
Questo fatto straordinario lo apprendiamo da una lettera, che lo
stesso protagonista scrisse, un mese dopo, alla suora bresciana
Lauta Mignani, donna di altissimi meriti, tanto che don Gaetano e
altri sacerdoti, senza conoscerla di persona, se ne erano fatti
figli spirituali.
Raccontata la visione, don Gaetano la commenta così: « ... Duro
era il cuor mio, ben lo crederete, perché certo non essendosi in
quel punto liquefatto, segno è che è di diamante ». E
sospirava: « Pazienza! ».
La visione, sempre su testimonianza del protagonista, si ripeté
nelle due feste della Circoncisione e dell’Epifania. Don Gaetano
ne fu tanto grato che si confermò e si corazzò nella « immortal
guerra contro i tre pestiferi nemici: la carne, il mondo e il
demonio, da superare con l’aiuto della croce ».
Un nullatenente dona a quattro città
il prezioso ospedale per gl’incurabili
La mamma di don Gaetano, ammalata, chiese il
dono di una visita al figlio. Questi non si sottrasse al dovere di
tornare a Vicenza, dopo tredici anni da quando ne era partito.
Già sappiamo che per tutti gli anni dello studentato a Padova,
una sola volta e per soli tre giorni, era rientrato a casa.
Nel secondo ritorno a Vicenza, don Gaetano si prodigò nell’assistere
la madre malata, finché gli morì fra le braccia a metà agosto
1518.
Di ripartire dopo le lacrimate esequie, non si poté parlare: lui
era capo della famiglia e doveva sistemare mille cose, tanto più
che, dopo la morte del fratello Giambattista, il patrimonio Thiene
aveva subito un tracollo.
Ci volle del tempo, ma alla fine sistemò le cose per bene: pagati
i debiti e assicurata una onorevole dote alla nipote giovinetta,
donò quel che restava ai cugini. Per sé, don Gaetano tenne
alcune briciole di terra, e vedremo presto cosa ne farà.
Credete che durante il soggiorno vicentino (che si protrasse per
tre anni) egli abbia abitato nel palazzo Thiene? No. Poiché da
tempo si era autoprecluso ogni agio, prese stanza nell’ospedale,
onde essere a immediato contatto con gli infermi e soccorrerli
così prontamente nelle necessità fisiche e spirituali.
C’era a Vicenza un’associazione assai simile a quella del «
Divino Amore » ed era la compagnia di S. Girolamo della Carità.
Composta solo di popolani (per la qual cosa pareva ancor più
bella e meritoria a don Gaetano) si proponeva di soccorrere i
poveri e gli ammalati sia a domicilio che all’ospedale.
Appena il Nostro seppe della sua esistenza, vi si ascrisse e le
fece dono delle briciole terriere, delle quali ho or ora parlato.
I sodali gradirono quei doni concreti; ma, pur essendo popolani,
apprezzarono ancor più il dono dell’insegnamento religioso e
del grande esempio di dedizione a tutti i sofferenti, che don
Gaetano porgeva loro.
Lo slancio di carità del Nostro, in quel periodo e tra quei buoni
popolani, è testimoniato dalla dichiarazione (fatta al capo della
compagnia) « ... di non voler cessare di donare il suo ai
bisognosi, fintantoché non si vedesse ridotto a tale povertà da
non restargli neppure quattro palmi di terra dove essere sepolto,
né un soldo con cui fargli le esequie ».
Il soggiorno vicentino fu interrotto dal viaggio e dalla
permanenza (che durò qualche mese) a Verona, dove c’era la
compagnia di San Siro, ricalcata su quella del « Divino Amore ».
Ma mentre a Vicenza i sodali erano tutti popolani, qui erano
persone di molto riguardo, sia ecclesiastiche che laiche. Eppure
fece tanto onore al Thiene, del quale ascoltarono, deferentissimi,
i suggerimenti, frutto della lunga esperienza romana e vicentina.
L’umiltà di don Gaetano, sincera, naturale, spontanea, era la
chiave che apriva tutte le porte, anche quelle ostili in partenza.
Accettato a braccia aperte fra i sodali della San Siro, sapete
come firmò l’atto di ammissione? « Gaetano Thiene,
indegnissimo sacerdote, accettato in minimo fratello di questi
santi compagni ».
In particolare egli aveva suggerito
ai veronesi di farsi promotori della nascita di un ospedale degli
incurabili. Tanto seppe infervorare, consigliare e operare, che
quando giunse il momento del rientro a Vicenza, l’ospedale
suddetto a Verona era una realtà.
Ma era scritto che don Gaetano non potesse star fermo per troppo
tempo anche in un luogo caro, come gli era Vicenza: cominciarono a
giungergli inviti, da persone autorevoli, perché si portasse a
Venezia, ove era giunta la fama delle sue virtù e della sua
capacità aggregatrice e organizzativa. Egli daprima si schernì,
ritenendosi inadatto a operare in una città cosmopolita e tutta
presa dai traffici. Ma quando (si era nel marzo del 1521) gli si
disse: « Cristo aspetta: niun si muove », superò dubbi,
incertezze e timori e partì.
A Venezia don Gaetano starà solo due anni, bastevoli però a dar
vita a due istituzioni: quella del « Divino Amore » e l’altra
più grande (dichiarata dal governo della Repubblica di interesse
pubblico) dell’Ospedale Nuovo degli Incurabili. L’opera fu
subito apprezzata a tal punto che i nobili privati e quelli del
governo fecero quasi a gara nell’aiutarla. Le fu accordato il
permesso della questua in Città e nel dominio e fu ordinato a
tutti gli ammalati incurabili o almeno gravi di entrare nell’ospedale.
Ma poiché molti erano dubbiosi e preferivano sottrarsi all’ordine,
don Gaetano, girando per calli e campielli, li individuava e poi,
con la parola infiammata di carità e ispirante fiducia, li
convinceva a seguirlo nell’ospedale.
In esso egli non aveva una carica definita: secondo l’occorrenza,
era direttore, ma pure infermiere e uomo di fatica. In cambio,
aveva la grande gioia di vedere che gli ammalati e le ammalate
erano serviti da gentiluomini e gentildonne, che portavano i nomi
più altisonanti della Repubblica: per tutti dirò la moglie e il
figlio del Doge Grimani, nonché quello di Venier, procuratore
della Repubblica. Potenza della virtù ed efficacia dell’esempio!
Anche Padova, cara al Nostro per il ricordo degli anni
universitari, si sarebbe tanto avvantaggiata da un ospedale per
gli incurabili. Se non che l’istituzione di Venezia era troppo
giovane per poter essere lasciata. Ma don Gaetano, maestro
ineguagliabile, pur senza il proposito di insegnare alcunché a
chichessia, aveva fatto scuola, per cui lo spagnuolo Girolamo da
Solana fu in grado di andare a Padova e fondarvi sia il « Divino
Amore » che l’ospedale per gli incurabili. Coordinando e
dirigendo la volontà, l’azione, e l’impegno anche economico
di tanti generosi, riuscì a dotare quattro città dell’ospedale
per gli ammalati incurabili.
Nascono
i nuovi operai
della vigna
Vicenza, Venezia, Padova, quale magnifico campo
per quell’aratura in profondità, che era lo spirito caritativo
e la capacità organizzatrice del Thiene. Ma presto si rivelò
troppo piccolo per lui. Un campo più vasto lo aspettava, ed era
di nuovo Roma, da dove giungevano notizie confortanti di risveglio
religioso. Già di per se stessa, l’elezione di Adriano VI,
straniero e conosciuto per la vita semplice e la rigidità dei
costumi, faceva capire che era sentita in alto loco la necessità
di cambiamenti e di riforme. Il fasto della corte; la grandiosità
dei templi; le feste, nelle quali gli elementi profani finivano
col mettere in second’ordine quelli religiosi; le musiche e i
poemi, composti in onore della Chiesa trionfante; la stessa
munificenza, che scorreva a rivoli dalla borsa del pontefice o dei
cardinali, erano tutte cose che, senza dubbio, piacevano al popolo
e lo facevano accorrere, festoso, nelle chiese. Era però assai
dubbia la loro efficacia, nel rafforzamento del sentimento
religioso dello stesso popolo.
Con Adriano VI tutto cominciò a cambiare e la sua azione (ahimé!
troppo breve) si compendi ava in questo proposito: « dare un
prete ad ogni beneficio (nel senso di parrocchia o altra
istituzione religiosa provvista di rendita) e non un beneficio ad
ogni prete ». Grandi e utilissime cose egli avrebbe operato nel
raddrizzare regole, usanze e costumi claudicanti, se non fosse
morto assai presto. Ma pochi lo avevano capito, tanto è vero che,
invece di piangere la sua repentina dipartita, il popolo si
abbandonò a indecorose manifestazioni di gioia. Esse dimostrano
che il gregge era stato fuorviato dalle mollezze, dalle tolleranze
e dalle indulgenze durate troppo a lungo.
Col cavallo di san Francesco don Gaetano sul finire del 1523,
sacca in spalla e bastone da pellegrino fra le mani, lasciare la
laguna e puntare a Roma. Giuntovi, riabbraccia i fratelli del «
Divino Amore », nel frattempo cresciuti di numero. Fra i nuovi
iscritti, il Nostro prese particolarmente in istima il giovane
sacerdote Bonifacio de’ Colli, dottore in legge, di sentimenti
elevati e di costumi esemplari.
Avendo don Gaetano ripreso, come se non ci fosse stata un’interruzione
di cinque anni, a frequentare l’ospedale degl’incurabili, il
de’ Colli lo imitò, gareggiando in zelo e generosità. Così i
due ebbero modo di conoscersi meglio, scoprendo di avere le stesse
idee circa la necessità di riportare il clero a vita più
semplice e quindi conforme agli antichi insegnamènti evangelici.
Da queste riflessioni all’idea di fondare un nuovo Ordine,
basato sugli obblighi tradizionali della povertà, dell’obbedienza
e della castità, da rispettare rigorosamente, il passo è breve.
Il Thiene e il de’ Colli non pensavano, data la loro umiltà, di
avere la forza di contrapporsi alla predicazione protestante.
Volevano essere solo un campanello d’allarme, un richiamo a chi
ostentava di sconoscere il pericolo incombente, una pattuglia d’avanscoperta,
insomma, per il grosso dell’esercito, che sarebbe venuto dopo.
— Potremo dissodare lo spazio inaridito bastevole a un orticello
(avranno pensato il maestro Thiene e l’allievo de’ Colli); ma
facendovi attecchire e prosperare i tre alberi della povertà,
dell’obbedienza e della carità, essi scacceranno le erbacce,
che da troppo tempo inviliscono il terreno della Chiesa.
Il proposito dovett’essere palesato a qualcun’altro, se giunse
agli orecchi di Gian Pietro Carafa, in quel momento vescovo di
Chieti e arcivescovo di Brindisi, ma con incarico in Curia e
quindi residente a Roma (conferma di una delle usanze deleterie,
che affliggevano la Chiesa). Ma egli non abusava di questa
situazione irregolare, anzi ne soffriva, ritenendola in netto
contrasto con il bene delle anime.
Il Carafa, futuro cardinale e poi papa, sarà il braccio destro
del Thiene e avrà tanta parte nello sviluppo dell’Ordine che
nascerà (dei Chierici Regolari, che si chiamarono Teatini proprio
perché lui era vescovo di Chieti, l’antica Theate). Napoletano
esuberante e facondo, oratore appassionato e convincente,
impetuoso e autorevole nei rapporti umani, racchiudeva nelle belle
sembianze e nella robusta corporatura un’anima tutta slanci di
carità e di ardore religioso. Obbedendo a un desiderio di
perfezione religiosa, che covava nell’intimo da tempo, avrebbe
rinunciato a ogni carica e anche al patrimonio avito,
conformandosi in tutto e per tutto alla regola che don Gaetano
avrebbe dettato.
Così i pionieri della compagnia dei Chierici Regolari sono tre:
Thiene, de’ Colli e Carafa. Ad essi se ne aggiunse un |
altro, il sacerdote Paolo Consiglieri, romano,
anch’esso uscito dalla scuola del « Divino Amore » e quindi
avvezzo alla vita semplice e all’esercizio della carità.
Fu stesa una Regola, a base della quale c’erano i tre voti ben
conosciuti, con l’aggravante che la povertà doveva essere
assoluta, nel senso che i chierici avrebbero accettato ciò che
fosse stato dato loro per il sostentamento, ma che non avrebbero
mai chiesto niente a nessuno. Il voto della povertà totale si
basava sull’insegnamento evangelico degli uccelli dell’aria
che non seminano, non mietono e non raccolgono nei granai, ma che
il Padre Celeste nutre e dei gigli dei campi, che non lavorano e
non filano e che tuttavia hanno una veste più bella di quella di
Salomone.
Fu proprio questo concetto che incontrò le maggiori opposizioni
nella Curia, cui fu sottoposta la Regola. Pareva, a quei
dabbenuomini, che i nascenti chierici regolari volessero forzare
la Provvidenza a rinnovare i miracoli. Alla fine, pur con molte
modifiche, il « breve » d’approvazione della Regola giunse:
consentiva ai quattro compagni di emettere i voti pubblicamente,
di vivere in comune in abito clericale con la denominazione di
Chierici Regolari, sotto la protezione apostolica, di eleggersi un
superiore e di ammettere altri, di qualunque dignità, alla «
professione », dopo il noviziato di un anno.
Con un altro breve dello stesso giorno, indirizzato al Carafa, il
papa ne accettava la rinunzia alle due diocesi, stabiliva che
continuasse a chiamarsi vescovo teatino (da Chieti, l’antica
Theate) e ad esercitare le funzioni pontificali, mentre lo
scioglieva dagli altri obblighi, non conformi al suo nuovo stato e
al voto di povertà, che stava per fare.
Fatta rinunzia, innanzi al notaio, a tutti i beni posseduti e
accettata una casa di Bonifacio de’ Colli, come loro residenza,
i Chierici Regolari, un mattino, assai per tempo, si portarono in
San Pietro, per fare la pubblica professione nelle mani del
vescovo Bonciani, deputato dal papa a riceverla. Ma poiché detto
vescovo giunse con molto ritardo, il tempio si era via via empito
di gente, la quale, saputo di che si trattava, era ansiosa di
vedere i quattro coraggiosi, che rinunciavano a una vita, che
sarebbe potuta essere comodissima, per iniziarne un’altra piena
di stenti.
I Teatini «lume e odore buono»
La minuscola comunità dei chierici regolari si
stabilì a Via Leonina (nel rione Campo Marzio, centro di Roma)
nella casa offerta dal de’ Colli (ma con impegno di venderla
dopo tre anni, onde tener fede al principio che la congregazione
non dovesse posseder nulla). Il sistema di vita messo in opera era
duplice: contemplativo (studio e preghiera) e attivo (assistenza a
tutti i bisognosi, a cominciare dagli incurabili accolti nell’ospedale
di San Giacomo). Il Carafa, benché vescovo, si prodigava nel fare
l’infermiere come e più degli altri tre.
Accanto alla casa c’era (ed esiste tuttora) la chiesetta di San
Nicola in Campo Marzio, poco o niente ufficiata. Presala in cura,
i teatini ne fecero un gioiello di ordine e di pulizia (ed era
proprio don Gaetano che, più degli altri tre, impugnava scopa e
strofinaccio). Sempre disponibili alla confessione e attentissimi
allo svolgimento delle funzioni, ebbero la gioia di veder
accorrere nella chiesetta (prima pressoché ignorata) molta gente,
non solo del rione, ma di altre parti di Roma.
Come se non bastasse il lavoro dentro la propria chiesa, i teatini
(ormai la gente li chiamava così) andavano a predicare in altre e
più grandi chiese. Oltre tutto, era un esempio che davano ai
curatori di chiese (parroci, cappellani, canonici, ecc.) presso i
quali era invalso l’uso di lasciare la predicazione ai frati,
quasi che disdicesse alla loro dignità. (Sincerità avrebbe
voluto che si autaccusassero di incapacità e svogliatezza).
La predicazione alle masse fu un merito particolare dei teatini,
specie quando crebbero di numero. Don Gaetano non negava il valore
degli studi teologici fatti a tavolino; ma aggiungeva che essi non
davano alcun impulso alla fede del popolo. Per portare lume e
odore buono (era la sua espressione favorita) bisognava scendere
in mezzo alle masse e, con linguaggio adeguato, renderle partecipi
delle verità della fede. Perciò, a piedi in città e a cavallo
nelle campagne (dove, normalmente, gli altri preti andavano ben
poco, per non dire mai) i teatini, armati del Vangelo, portarono
lume e odore buono.
Quanto alle necessità materiali della vita, le affrontarono
così: tutti e quattro i chierici confondatori s’erano spogliati
(e s’è già detto) d’ogni bene immobile posseduto. Ma le
sommette, che si trovavano a possedere al momento della
professione religiosa, le misero in comune e così fecero fronte
alle prime spese. Fedeli al principio anzidetto, né allora, né
poi, chiesero mai nulla; ma le elemosine cominciarono a giungere
spontanee: trattenuto il necessario al bisogno giornaliero, tutto
il restante veniva dato ai poveri.
Poiché la Roma di cinque secoli fa era come una cittadina di
oggi, non è da stupire che il sistema di vita dei quattro
chierici regolari si conoscesse da un suo capo all’altro. Non
tutto il clero romano lo ammirò, è ovvio: esso frustava, in
silenzio, troppi comodi, troppe incurie, troppi sepolcri
imbiancati. Ma tanti altri preti, in alto e in basso, li
guardarono con rispetto e presero a imitarli. Tutto, dunque, non
era guasto: i buoni c’erano e aspettavano solo una chiamata per
riprendere il retto cammino.
Un’altra prova della buona fama che aleggiava intorno ai teatini
è offerta dalle nuove reclute affluenti in Via Leonina. Se è
vero che molti, che chiedevano di entrare, poi, messi alla prova e
trovatala troppo dura, se ne andavano, è altrettanto vero che
altri restavano. E non erano persone dappoco. Bernardino Scotti
(tanto per fare un nome) sacerdote di Magliano Sabina (Rieti),
ricco di famiglia, avvocato concistoriale, dotto in latino, in
greco e in ebraico, rinunciò ai beni aviti e visse in esemplare
povertà sotto l’abito teatino. (In appresso, diventerà il
primo cardinale della congregazione).
Dopo qualche tempo diventarono (tutti provenienti dall’esperienza
del « Divino Amore ») dodici, e allora si presentò il problema
della casa, giacché quella di Via Leonina era insufficiente. Il
problema lo risolse il cardinale Giberti che, quand’era vescovo
di Verona, aveva conosciuto don Gaetano e lo aveva tanto
apprezzato. Ricopriva in Vaticano l’alta carica di datano ed era
il consigliere privato del pontefice. Ma, uomo di costumi
esemplari e anelante alla riforma interiore della Chiesa, avrebbe
voluto lasciare tutto e farsi teatino, cosa che però il papa non
gli permise. Sapendo che i chierici regolari si trovavano troppo
stretti in via Leonina, comperò, con denaro personale, una vigna
con casa colonica alle pendici del Pincio, e in essa casa,
opportunamente adattata, si trasferirono i dodici teatini.
Il San Giacomo, con i suoi incurabili, essendo non lontano dalla
nuova residenza, rimase la palestra dell’attività assistenziale
e caritativa dei chierici regolari, ai quali, durante l’anno
santo 1525, il lavoro raddoppiò, a causa di un’epidemia di
peste. Ne furono colpiti in prevalenza i pellegrini, forse
perché, indeboliti dagl’interminabili viaggi (la povera gente
li faceva a piedi) erano più ricettivi al morbo. Quegl’infelici,
essendo soli, senza parenti, senza conoscere la città, senza o
con pochi denari, furono i prediletti di don Gaetano e dei suoi
confratelli.
Dopo alcuni anni di esperienza di vita comunitaria, venne il
momento, per i chierici regolari, di darsi una costituzione
definitiva. Essa fu stilata, materialmente, dal Carafa, ma il
pensiero animatore fu di don Gaetano, che parlava assai poco, ma
vedeva sempre giusto.
Qui è il caso di confermare che l’Ordine Teatino ebbe tanta
parte nell’azione di riforma dei costumi ecclesiastici (bisogno
sentito già prima della bufera protestante). A tale scopo
Clemente VII aveva costituito una commissione, con pieni poteri,
presieduta dal cardinale Giberti e della quale, assieme a pochi
altri, fece parte il Carafa che, come s’è detto, aveva serbato
la dignità episcopale. Di detta commissione proprio il Carafa,
sia per la naturale combattività, sia per l’esperienza
acquisita nella vita comunitaria teatina, fu l’alfiere.
Risaputolo fuori della Curia, fu oggetto di scherno e d’insulti
da parte dei riottosi colpiti dallo stringimento di freni operato
dalla suddetta commissione.
Non era da credere che la gramigna, che aveva infestato il campo
della Chiesa, potesse essere sradicata da un giorno all’altro.
Tuttavia qualche cosa di buono la commissione ottenne, per esempio
che chi voleva essere ordinato sacerdote doveva dimostrare di aver
fatto almeno il corso di « grammatica »; che chi aspirava a una
carica superiore doveva sottoporsi a un esame di più solida
cultura; che forestieri, dei quali non si sapeva nulla, ma che
tentavano l’avventura di Roma, non sarebbero più stati ordinati
sacerdoti, come prima avveniva, purché fossero disposti a largire
una certa somma. Infine, non fu più tollerato il vestiario
sciatto o troppo vistoso: tutti dovevano indossare la veste talare
e radersi le barbacce, di cui fino allora avevano fatto sfoggio.
Ma la commissione puntò il mirino anche alle alte cariche, come
le più responsabili del mancato adempimento dei doveri da parte
del clero sottoposto. Già sappiamo del Carafa che era stato
vescovo di Chieti e arcivescovo di Brindisi e residente a Roma. C’era
di peggio. Tommaso Campeggio, legato del papa, da cinque anni era
vescovo di Feltre, senza aver nessuno degli ordini sacri. Ma,
ottemperando alle ingiunzioni della commissione, si preparò
convenientemente agli esami, che sostenne innanzi al Carafa. A
distanza di vari giorni l’uno dall’altro, durante i quali si
mortificò con il digiuno, ricevette gli ordini minori e alla fine
fu consacrato vescovo. C’è da credere che poi egli abbia usate,
verso i preti sottoposti, la stessa onesta severità usata nei
suoi riguardi.
Splendidi fiori d’un vecchio albero
Don Gaetano Thiene invecchia, non tanto per gli
anni quanto per il lavoro, le penitenze, le ansie connesse alla
guida della barca teatina. Sarebbe giunto il momento di concedersi
un po’ di sosta, di passare ad altri la soma, anche perché una
gamba spesso gli si gonfiava e doveva quasi trascinarla. Invece di
diminuire, le responsabilità gli crebbero, perché il nuovo papa
(Paolo III) volle a Roma il vescovo Carafa, che quindi non poté
più occuparsi dell’Ordine.
Il Nostro avrebbe desiderato ritirarsi nell’ombra e invece i
confratelli, ritenendolo insostituibile alla testa dell’Ordine,
ve lo rieleggevano. Sentite con quale spirito di sottomissione
egli accettava la carica: « Ne soffra l’età, ne patisca l’umiltà,
ci scapiti pure il mio interesse spirituale (pensava di doversi
preparare alla morte, che presentiva non lontana), ma trionfi l’obbedienza
impostami, nella quale riconosco la voce e la volontà di Dio ».
La chiamata del Carafa a Roma (giustificata con la necessità di
lavorare assiduamente agli atti preparatori del Concilio di
Trento) faceva presagire la nomina a Cardinale.
Questa giunse all’improvviso, nel 1337, mentre l’interessato
stava seriamente ammalato. Era ospite del convento dei domenicani,
e quivi confluivano anche molti teatini, a cominciare da don
Gaetano, perché era scaduto il triennio della prepositura e
bisognava procedere alle nuove nomine.
Don Gaetano stava nella cella (proprio una cella conventuale),
ove, su un lettuccio, giaceva l’ammalato, allorché giunse un
messo del Vaticano recante la berretta cardinalizia, segno dell’avvenuta
nomina. La procedura insolita si giustificava col fatto della
malattia dell’insignito, che si diceva fosse addirittura in
punto di morte.
Don Gaetano, vista la berretta, s’immalinconì, perché quella
nomina contrastava con i principi di umiltà e di povertà posti a
base dell’Ordine; perciò fece segno al Carafa di rifiutarla. Ma
quello, pensando che il gesto avrebbe avuto il significato di
disobbedienza e d’ingratitudine verso il papa, la trattenne. Ma
dove posarla, se la cella era nuda al punto che non c’era non
dico un mobile, ma neppure un tavolino? Gli occhi del nuovo
cardinale si posarono su un chiodo della parete. Il messo capì e
ci sospese quella berretta, che per tanti prelati era (e
sicuramente è) il miraggio di tutta la vita.
Il fatto conferma che nel Carafa, il quale aveva conservato (pur
non avendone l’ufficio) la dignità vescovile, la povertà
teatina era stata sempre seguita.
Il neo cardinale si riebbe dalla malattia e s’impegnò a fondo
nelle nuove funzioni. La riforma della Chiesa era il suo assillo:
non siamo ancora alle conclusioni del Concilio di Trento, ma fra
le varie norme severe, che Paolo III promulgò, ci fu quella che
il vescovo dovesse avere un solo vescovato e risiederci. Per tale
norma si batté proprio il Carafa, che ricordava l’impossibilità
di far bene il dover suo, quand’era, contemporaneamente, vescovo
di Chieti, arcivescovo di Brindisi e con incarichi nella Curia
romana.
Sempre battagliero e sempre infervorato nel lavoro, il Carafa,
qualunque fosse il campo d’azione riservatogli. Ma è ovvio che
ora, da cardinale, pur restando amico e protettore dei teatini,
non ne potrà portare più l’abito, né avere, nell’Ordine,
alcuna carica. Il che significa aggravio di lavoro e
responsabilità per don Gaetano, costretto ad alterni soggiorni
fra Venezia e Napoli.
Poiché lo spazio limitato non consente di seguirlo di volta in
volta in questi spostamenti, restringeremo la narrazione a episodi
più significativi, che mettono il suggello a tutta una vita di
silenzioso eroismo, di esaltante osservanza della povertà, di
sublimazione dell’insegnamento evangelico.
La carità dei napoletani verso il convento teatino era costante,
ma non legata certo ai giorni e alle ore. Poteva accadere che un
giorno ne giungesse più del necessario (e ne godevano i poveri) e
che qualche giorno i poveri in assoluto fossero gli stessi
teatini. Ecco quel che successe proprio in uno di tali giorni.
L’addetto alla cucina, non avendo nulla da cucinare, si occupa
di altre cose; ma l’orecchio è sempre vigile al campanello,
perché attende con fiducia l’arrivo di una qualche elemosina.
Malauguratamente, la mattinata passa con il campanello alla porta
d’ingresso che si è ammutolito. Ormai non poteva oltre
attendere a comunicare l’incresciosa situazione al superiore, il
quale, fattosi pensieroso, dopo un po’ disse: — Quand’è l’ora,
suona la campana della mensa.
Fu suonata, i fratelli si riunirono intorno al tavolo, spoglio
anche del consueto povero vasellame. Non ci sono pervenute le
parole che, nella penosa circostanza, fiorirono sul labbro di don
Gaetano, inneggianti alla benefica povertà e alla beneficienza
del Signore, che sola sa quando dev’essere larga e quando
ristretta. Ma gli uomini che, essendo miopi, vedono il dono e non
la mano che lo largisce, si rallegrano nei momenti di abbondanza e
si rabbuiano in quelli di ristrettezza.
Non sappiamo dunque le precise parole dette da don Gaetano, ma
dovettero essere in tutto degne della sua radicata sincerità e
umiltà, se furono subito premiate: trillò il campanello, il
cuciniere corse ad aprire e si ritrovò sulle braccia (non si
seppe mai da chi: lui disse che fuori della porta non c’era
nessuno) una cesta di pane bianco, bianchissimo, soffice,
profumato, saporito, come nessuno ne aveva mai mangiato, né ne
mangiò mai in apresso.
Pane degli angeli, lo definirono; ma ciascun confratello, in cuor
suo, disse che quell’angelo aveva un nome: san Gaetano Thiene.
Nel Nostro, l’umiltà, frutto di un continuo studio e di un
rigoroso controllo, era profondissima; ma, al
momento opportuno, egli sapeva erigersi in dignità e autorità,
che imponevano rispetto e sottomissione. Don Gaetano aveva sempre
voluto (ed era uno dei segni palesi di differenziazione dai molti
preti pigri, svogliati e mestieranti, che si servivano della
Chiesa, anziché servirla) che il sacerdote celebrasse ogni giorno
la messa. Aveva la radicata convinzione che il rinnovato
sacrificio di Cristo sull’altare si sarebbe cambiato in grazia
per lo spirito sia del celebrante che per quello di tutti i
partecipanti. Educati a questa scuola, i teatini celebravano ogni
giorno la messa, previa raccolta e meditata preparazione. Detta
messa, per il raccoglimento, l’ordine, la precisione dell’orario
e del linguaggio, era come un sacro spettacolo, che il popolo
apprezzava e dal quale traeva profitto spirituale.
Un giorno don Gaetano seppe che il Carafa, preso dai gravi impegni
del suo ufficio di cardinale, non avendo il tempo necessario a
prepararsi degnamente alla messa, di tanto in tanto finiva col
saltare la celebrazione. La notizia arrecò tanto dolore al
Nostro, che decise di partire alla volta di Roma, per richiamare
il Carafa al dovere di affermare e confermare ogni giorno la
sacralità del suo ministero, celebrando il sacrificio della
messa. Si badi che lui, don Gaetano, era soltanto un prete, che l’altro
era cardinale, cioè un « cardine della Chiesa », e che in
questa sua nuova posizione il legame con l’Ordine Teatino
sopravviveva solo sul piano dell’affetto.
Giunto che fu dinanzi al cardinale, gli parlò pressappoco così:
— Credete di essere umile, disertando l’altare, perché ad
esso non vi siete degnamente preparato. Ma è un’umiltà fallace
e colpevole, togliendo essa l’onore a Dio, la gloria ai santi,
la forza alla Chiesa. Inoltre priva i vivi e i morti, e voi
soprattutto, dei grandi tesori, che il sacrificio divino assicura.
— Se vi siete tanto adoperato con me, affinché i secolari si
cibassero frequentemente del cibo eucaristico, come potete ora
rimanerne digiuno voi?
— Tornate dunque al santo costume, prescritto nelle nostre
leggi, di sacrificare ogni giorno l’agnello immacolato di Dio e
di cibarsi delle Sue saporitissime carni.
Il Carafa, che anche da vecchio serbava il carattere fiero e
impetuoso che gli abbiamo conosciuto, dinanzi a don Gaetano
abbassò la testa e promise di trovare, a ogni costo, il tempo di
prepararsi alla messa e di celebrarla quotidianamente, col
raccoglimento, la compostezza e la consapevolezza appresi alla
scuola del maestro.
Si abbracciarono e si lasciarono. Don Gaetano, dopo il riposo di
una sola notte, si rimise in cammino alla volta di Napoli. Che gl’importava
del viaggio massacrante Napoli-Roma-Napoli, se il suo diletto
figlio, confratello e ora tanto superiore, gli aveva fatto la
grande promessa di celebrare ogni giorno il divino sacrificio?
Per uno spostamento da Venezia a Napoli, don Gaetano aveva preso
posto su una nave, che nei primi giorni filò liscia e tranquilla
sotto il cielo sereno. Ma, a metà viaggio, la navigazione, da
riposante che era, divenne tragica, perché, nel giro di pochi
minuti, era scoppiata la tempesta.
Docili ai comandi del provetto capitano, i marinai fecero tutto
quanto era umanamente possibile, senonché l’impeto degli
elementi scatenati pareva ridersi dei loro sforzi, per cui, assai
presto, equipaggio e passeggeri si videro preda delle onde
gigantesche. Molti, con gli occhi sbarrati, si strinsero intorno
all’unico prete, uno sconosciuto, chiedendogli l’assoluzione.
No — disse don Gaetano — voi vivrete per servire Dio e per
sostenere le vostre famiglie, perché questo agnello immacolato vi
salverà.
Aveva tratto dal petto un disco di cera (allora molto diffuso) con
impresso un Agnus Dei e, tenendolo in alto, continuò:
— Figli e fratelli, come io getterò in mare questo Agnus Dei,
che toglie i peccati del mondo, gettate anche voi, sinceramente
pentiti, i peccati, dei quali vi siete macchiati, e vi assicuro
che la tempesta cesserà.
Quei visi, da terrorizzati che erano, si distesero nella fiducia
del miracolo: pregarono, invocarono, confessarono, promisero,
mentre don Gaetano, con la maestà con la quale di solito
sollevava l’ostia consacrata, buttava in mare il dischetto dell’Agnus
Dei.
Come per incanto, la tempesta si placò, il sole tornò a
splendere e don Gaetano corse pericolo di essere soffocato dagli
abbracci e dai ringraziamenti di quell’umanità, che tornava
alla vita, dopo aver visto in faccia la morte. Quando poté
parlare, don Gaetano disse: — Non ringraziate me; sono un
peccatore come voi e più di voi, ringraziamo Dio, adoriamolo come
merita, serviamolo nei pensieri e nelle opere.
Muore l’uomo, nasce il santo
Gaetano Thiene aveva vinto la sua battaglia in
Napoli: un po’ per volta, le iniziali ostilità e prevenzioni
avevano ceduto il posto all’aperto riconoscimento dei suoi alti
meriti. Molti già io consideravano e lo chiamavano santo, la qual
cosa, per uno come il Nostro, che faceva di tutto per passare
inosservato, era un’autentica sofferenza. Così si spiega che
considerò giornata di gioia grande quella in cui fu esonerato
dalla carica di preposto dell’Ordine, che passò al degnissimo
don Giovanni Marinoni.
Don Gaetano poté così dedicarsi maggiormente alle attività
religiose nell’interno della chiesa, ma adempiva pure, con
estrema naturalezza, a mansioni assai più umili, come lo spazzare
la casa e fare il bucato. Caduto il veto a occuparsi dell’ospedale
degl’incurabili, quello divenne il luogo dove, il più a lungo
possibile, s’intratteneva. Per far che? tutto, anche i servizi
più sgradevoli. Così, alla fine della vita, tornava alle
origini: servire i bisognosi con estrema semplicità, quasi fosse
un onore concessogli dal buon Dio.
L’ora del giusto riposo, a chi tanto bene aveva sparso in vita,
non era lontana; ma prima di toccarla, il santo uomo dové bere un
calice di amarezza. E quel che è più triste è che esso gli
proveniva, sia pure in via indiretta, dalla riforma della Chiesa,
tanto bramata e dal cardinale Carafa, dilettissimo fra tutti i
suoi figli.
Con l’intento di difendere la religione cattolica dalle
deviazioni eretiche, era stata istituita la Santa Inquisizione.
Purtroppo, in Ispagna essa aveva preso subito una coloritura
politica, nel senso che quel governo, sotto il mantello della
difesa della fede, se ne serviva per perseguitare, e duramente, i
propri avversari.
Don Pedro di Toledo, che governava a Napoli in nome dell’imperatore,
chiese un tribunale dell’Inquisizione. Ce n’era bisogno dal
punto di vista di una possibile deviazione religiosa? O voleva
munirsi, con la scusa degli eretici, di un nuovo strumento di
tirannide politica? Può esser vera l’una e l’altra cosa. Di
certo sappiamo che chiese a Roma un tribunale inquisitorio e che
il cardinale Carafa, che in quell’epoca ne stava a capo, glielo
concesse.
A Napoli se ne risentirono tutti: gl’intellettuali vi videro un
mezzo per soffocare quel poco di libertà di cui godevano; i
nobili temettero per i loro privilegi; il clero vide in pericolo
le troppe immunità di cui si pasceva, e il popolino, eccitato
sotto sotto, gridò al sopruso, all’ingiustizia, all’affamamento
e ad altre cose ancora. In una situazione così tesa, bastò una
scintilla per dar fuoco alla sommossa.
Un delinquente comune, mentr’era condotto in carcere; vedendo un
gruppo di giovani di civilissima condizione, ne invocò l’aiuto,
gridando che era vittima innocente del tribunale inquisitorio.
Quelli, generosi e impulsivi come è normale alla loro età, si
buttarono sui carcerieri e fecero fuggire l’imprigionato. Il
popolino acclamò il gesto, ma il viceré fu di tutt’altro
avviso: i giovani liberatori furono rintracciati e tre di essi
mandati al patibolo. Così cominciarono i tumulti, che di giorno
in giorno e di ora in ora diventavano più frequenti e più
sanguinosi. Il vicerè aveva le truppe armate; ma il popolo,
animato da rabbia repressa, aveva una grande mobilità, l’astuzia
delle fughe e dei ritorni improvvisi, le barricate e la
solidarietà di altro popolo. Nessuno dei due contendenti
scherzava e le strade s’empivano di morti.
Oh, il dolore di don Gaetano nel vedere insanguinate le strade
della sua amata Napoli ed esacerbati i cuori del diletto popolo,
già così mite e ben disposto alle pratiche religiose.
Invecchiato innanzi tempo, malandato in salute, con la gamba
dolorante, il santo uomo, mentre invocava l’intervento del
Signore, si adoperava pure presso. i contendenti, agitando al di
sopra delle mischie il crocifisso, e dicendo calde parole di pace,
di tolleranza, di accettazione. Corse anche dal viceré,
chiedendogli un gesto di clemenza per distendere gli animi
sovreccitati. Ma tutto riusciva inutile: se la lotta perdeva d’ardore
dov’egli compariva, si accendeva più furibonda in cento altri
punti. Gli spagnoli sparavano; il popolo fuggiva, ma ricompariva
poco appresso ora da questo, ora da quel rione o vicolo.
Straziato nell’animo, don Gaetano si senti venir meno le già
debilitate forze fisiche. Si distese sul giaciglio, che era di
nude tavole, e si sottomise di buon grado ai rimedi proposti dai
medici, pur sorridendone, perché egli solo sapeva il giorno della
morte (e lo disse agli intimi). Ad essa si preparava con ardenti
preghiere, così come pregava perché la guerriglia fratricida
cessasse.
Il primo medico accorso disse che era inumano lasciarlo sulle nude
tavole. Subito fu procurato un materasso; ma, nel vederlo, l’eletto
uomo, già avviato alla santità (tutto dolorante nelle membra, ma
lucidissimo nello spirito) lo respinse con queste parole:
— A me, peccatore bisognoso di far tanta penitenza si vuol dare
un letto morbido e agiato? Al mio vilissimo corpo si vogliono
offrire carezze e delizie? Non sia mai vero: io devo e voglio
morire in cenere e cilicio (che, in realtà, aveva ancora
indosso).
— Le carezze e i buoni trattamenti siano riservati all’anima
creata a immagine di Dio e non al corpo vile, impastato di polvere
e di fango. Non può sperarsi il paradiso, senza penitenza.
Questi e altri consimili furono gli ultimi voleri e insegnamenti
di Gaetano Thiene, che conchiuse l’inimitabile esistenza la sera
del 7 agosto 1547.
Sin dagli anni giovanili, quando (specie alla sua epoca) nobiltà
di casato e ricchezza di denaro si tenevano in alto pregio, egli
le aveva disdegnate. Ma cinquant’anni di indefesso apostolato in
tutti i campi (della cultura, della povertà, della carità, della
difesa della verità della fede, del prestigio del sacerdozio) gli
avevano conferito una nuova ricchezza (quella degli spregiatori
del denaro) e un nuovo fasto nobiliare interiore, scaturito (ma
gli uomini volgari non lo vedono) dall’essersi fatto volontario
servo degli ammalati con piaghe ripugnanti. Questa ricchezza e
questa nobiltà, raggiunte da Gaetano Thiene con un sacrificio
cinquantennale (oscuro alle masse, ma duro e pur gioioso per lui)
ha solo un nome: santità. La Chiesa, che in queste cose procede
con meditata lentezza, gliela riconobbe molto più tardi (nel
1671); ma il popolo, che parlava di lui come d’un santo mentr’era
ancora in vita, io venerò come tale appena spirato, perché esso
popolo fu testimone e protagonista insieme di questo nuovo
miracolo: sparsasi la voce per tutta Napoli che il benefattore dei
più miseri, il consolatore di ogni afflitto, il difensore (con l’esempio
e non col tribunale) della vera fede, era morto, cessarono, come
per incanto, i combattimenti. Quegli stessi uomini, che fino
allora avevano aggredito, inveito e ucciso, si prostrarono davanti
la lacrimata salma e deposero ogni rancore. I napoletani, rendendo
onore al loro nuovo grande santo, tornarono alla pace, al lavoro,
alla fraternità; tornarono a credere nella verità immortale (che
tutte le verità compendia) sempre ripetuta da san Gaetano: «
Amatevi gli uni gli altri, come io, Cristo, ho amato voi ». |