Repertorio              Mmiez' Sangaitano
S. GAETANO DA THIENE
il suo soggiorno a Napoli

(tratto dal libro: "San Gaetano Thiene" di Michele Gianpietro)

Felice età edlle grandi promesse.

Il futuro gigante della fede nasce, nell’ottobre 1480, a Vicenza, città ove fiorivano i traffici lanieri e setaioli e che era soddisfatta di appartenere al dominio di Venezia.
I genitori di Gaetano erano il conte Gasparo Thiene e Maria Porto (o da Porto), appartenenti alle maggiori famiglie della città.
Il fanciullo, secondogenito, fu chiamato Gaetano, in onore di uno zio, uomo molto dotto, che a sua volta era stato chiamato così per essere nato a Gaeta.
Tutto spirava solidità e floridezza nella famiglia Thiene, allorquando il conte Gasparo morì in una delle tante guerre, che insanguinavano la penisola. Così tre bambini rimasero orfani; ma, per loro buona ventura, la madre, donna ammirevole, seppe degnamente sostituire il marito. Infatti il giudice competente, riconoscendo in Maria da Porto « integrità, pietà, religione, carità, prudenza, vigilanza e zelo », le concesse la tutela dei tre figli, che ben presto si ridussero a due, il terzo essendo morto bambino.
Le notizie sul fanciullo e sul giovinetto Gaetano sono estremamente scarse: studiava con i precettori in casa, secondo l’uso delle famiglie nobili ed era assiduo alla bella chiesa di Santa Corona, duecentesca, tuttora esistente. La pietà del fanciullo prima e del giovinetto dopo era esemplare, così come fuori dal comune era la generosità verso i poveri. Per sé, non osava chiedere la più piccola cosa; ma per i bisognosi, dopo aver dato tutto ciò che era suo, sollecitava parenti e amici a essere larghi di donativi di ogni specie. Il comportamento di Gaetano in casa e fuori era tale da non prestarsi al minimo rimprovero. Solo il suo slancio di carità fu giudicato eccessivo, per cui fu ammonito a mitigano.
E’ storica la risposta data a certi parenti che gli rimproveravano l’estrema modestia nel vestire e nei rapporti con l’umile gente: « vero che noi siamo cavalieri di nascita; ma siamo poi rinati cristiani per grazia. E’ pur vero che la nostra nascita ci obbliga alle pompe del mondo; ma l’esser stati rigenerati in Cristo esige che non dimentichiamo le umiliazioni del Calvario ».
Sapevamo che il giovane Gaetano Thiene era umile, obbediente e sottomesso; ma queste parole ci dicono che, al momento opportuno, sapeva anche essere fiero delle sue credenze e risoluto nell’affermarle. Tale si manterrà nelle mille traversie della sua vita.
Compiuti tutti gli studi che potevano farsi a Vicenza, per Gaetano viene il momento (d’obbligo per i componenti di una famiglia qual era la Thiene, non solo nobile e ricca, ma con alte tradizioni culturali) di portarsi a Padova, la cui Università, la più antica della penisola, era illustrata dalla presenza, in ogni campo dello scibile, di rinomati docenti.
Il passaggio dall’ambiente pio, raccolto e quasi familiare di Vicenza in quello assai più libero e vivace di Padova (con gli studenti, che vi affluivano da tutta Europa) avrebbe potuto rappresentare (come per tanti altri giovani) una svolta culturale, nonché un’inversione nelle abitudini e nel comportamento di Gaetano. Succedeva allora e succede oggi: nel repentino passaggio dal piccolo al grande centro, lontani dalla vigile famiglia, liberi di muoversi come e dove vogliono, padroni di se stessi, ricettivi per natura e non ancora tanto maturi da discernere il grano dal loglio, tanti giovani finiscono (per fortuna solo momentaneamente) con lo sbandarsi.
Non ci saremmo quindi meravigliati se la cosa fosse accaduta anche al Nostro. Invece la meraviglia è che Gaetano, mentre si sprofondò nello studio (più di quanto avesse fatto a Vicenza) rafforzò il costume religioso con preghiere e mortificazioni. In più, intensificò le opere di carità, prendendo a visitare negli ospedali gli ammalati più poveri e soli, portando loro doni e integrando (talvolta addirittura sostituendo) la deficitaria opera degl’infermieri.

 

 




Con la messa e comunione tutte le mattine, le lezioni da ascoltare all’Università, lo studio da fare a casa e le visite prolungate all’ospedale, la giornata era troppo breve per Gaetano. Eppure, trovava qualche ritaglio di tempo per entrare nei conventi, conversare con i monaci, unirsi alle loro preghiere e penitenze. Insomma, gli anni dello studentato di Padova, anziché affievolire il sentimento religioso, lo rafforzano, fino a cambiare in ferma determinazione di divenire sacerdote.
In verità, era questo un pensiero accarezzato fin dall’adolescenza, quando mostrava apertamente di non pregiare né l’avito casato, né il palazzo paterno, né gli agi propri delle persone del suo grado. Tutti quelli, che guardavano dall’esterno, dissentivano da tale atteggiamento. I più benevoli lo consideravano niente altro che una manifestazione dei propositi di ogni adolescente: santi, ingenui o addirittura eroici, ma passeggeri. Guardando invece a quello, che avvenne dopo, dobbiamo dedurne che erano tutti uomini dalla veduta corta, mentre il giovane guardava lontano e, quel che più conta, si fortificava nel progetto, che per lui significava mettersi in tutto e per tutto a servizio di Dio, diffondendone e praticandone i comandamenti in mezzo ai più poveri e perciò più bisognosi.
Padova dunque non intiepidisce, anzi rafforza il suo anelito al sacerdozio e lo fortifica. I compagni di Università, chi più chi meno, studiano di buona lena; ma, quanto a gioie mondane, non si rintanano certo in casa. Anche il Thiene, fra l’applicazione intensa all’Università e a casa e le visite ai poveri nei tuguri e negli ospedali, si concede attimi di gioia e li affida a un diario intimo. Eccone un brano:
« So bene che io non merito, o Signore, d’essere ammesso al consorzio di questi angeli terreni (sotto tale luce egli vedeva i sacerdoti); desidero, però, di meritarlo. Voi vedete le mie brame ardenti di legarmi indissolubilmente a Voi col vincolo dei santi voti. Perché dunque non mi consolate, o amato Bene? Ad ogni modo, il mio volere è di non volere il mio, ma il vostro volere. Accettate almeno questi desideri del mio cuore, che, appresso di Voi, vanno al pari con l’opera, quando non possono eseguirsi ».
Non mi si venga a dire che queste parole sono sì belle e alate, ammirevoli testimoni di slancio e afflato religioso; ma che, sgorgate da un cuore giovanile, rientreranno nell’ombra col passare degli anni, per cedere il posto a parole, pensieri e pratiche più conformi alla natura umana, ai tempi e alle necessità terrene. No, la differenza fra Gaetano Thiene e la miriade di suoi coetanei sta in questo: quelli promettono e, a modo loro, sono sinceri; poi, magari rammaricandosene, scendono a ogni sorta di transazioni. Il Nostro quel che promette in gioventù, manterrà negli anni maturi. Diverrà una roccia di fede, di ardore caritativo e a tale roccia, negli anni durissimi per la Chiesa, che stanno per scoccare, molti si aggrapperanno saldamente.

Operosa sosta
nel paesino di Ramazzo

Il soggiorno padovano è notevole per un’altra cosa: il distacco del Nostro dalla famiglia (non sul piano affettivo, sia ben chiaro, ma su quello degl’interessi). A Vicenza, i Thiene tenevano un palazzo, il che comportava una vita di agiatezza e di conformi relazioni sociali. Gaetano ha a noia le une e le altre, per sottrarsi alle quali non trova di meglio che non tornare, per tutti gli anni d’Università, se non per una volta sola e per soli tre giorni, in famiglia. Amava la madre, come vanno amate tutte le mamme e anche col maggior fratello Giambattista era in eccellenti rapporti affettivi. Tuttavia, fa forza al sentimento e resta sempre a Padova, perché ivi la maggior comunicazione con Dio (per il tramite dei poveri e degli ammalati degli ospedali) non è appannata dalle cure e dai traffici, che ogni famiglia (tanto più se è di alto rango) impone.
Anche quando, terminati brillantemente gli studi con la doppia laurea in diritto canonico e civile (per la quale gli fu conferita la « corona d’alloro », sogno di tutti i laureandi del tempo), il non ancora ventiquattrenne Gaetano deve rientrare in famiglia, preferisce alla ricca residenza vicentina quella più umile di Rampazzo, ove gli stessi Thiene avevano un castello.
L’ammirevole giovane nota, con rammaricato stupore, che i rampazzesi (allora in numero esiguo e tutti contadini) avevano un’istruzione religiosa assai deficitaria. Non mancava loro la chiesina di san Fermo; ma il parroco stava lontano e a Rampazzo compariva di rado.
Constatare l’incoltura religiosa di quella pur buona gente e proporsi di eliminarla, fu tutta una cosa per Gaetano, che, con animo lieto, si trasformò, da giurista quale ormai era, in catechista. I frutti dell’insegnamento non tardarono a palesarsi; ma sarebbero stati più copiosi se la cappellina di san Fermo fosse stata sostituita da una più ampia e decorosa chiesa.
Gaetano disponeva di qualche rendita; ma non dimentichiamo che, essendo figlio cadetto, il grosso del patrimonio Thiene, secondo l’uso del tempo, spettava al figlio maggiore. Questi, conosciuto l’intendimento di Gaetano di costruire una vera chiesa a Rampazzo, l’approvò e fu largo di donativi. Sorse così la chiesa dedicata a Dio ottimo e a Maria Maddalena, che, ingrandita nei secoli successivi, esiste ancora.

Un più grande teatro d’azione: Roma

In tutti i tempi, Roma ha esercitato un grande fascino sugli uomini, siano essi di cultura, di fede, di arte, di azione sociale ed economica, per non parlare degli avventurieri e degli arrampicatori.
Gaetano Thiene ha profonda cultura e radicata fede religiosa, ma soprattutto è giovane di venticinque anni e con l’animo ancor pieno di santi ideali: ce n’è abbastanza per capire la decisione di lasciar Rampazzo e Vicenza e di trasferirsi a Roma.
Il rigore di vita, attuato negli anni di Padova e nel più breve periodo di Rampazzo, continua a Roma: tra lo studio, la preghiera, le visite agli ospedali e ai ricoveri di mendicità, la giornata gli vola. Se ha un rammarico è per la brevità di tale giornata: se fosse più lunga, potrebbe servire meglio il Signore in altre opere di carità.
Non si cura di entrare in dimestichezza con i potenti: se rivelasse il suo casato, molte porte si aprirebbero. Ma lo attirano di più le porte dei tuguri, ove c’è tanta miseria fisica e morale: per la prima, il giovane ha sempre un pane; per la seconda il dono della parola, che allevia la desolazione e incita alla speranza.
Poiché il problema della sussistenza si presenta anche a Gaetano, egli lo risolve comperando (secondo il non mai abbastanza deprecato uso del tempo) la carica di prelato domestico di Sua Santità. Il denaro gli è giunto dalla famiglia, quasi come una liquidazione del poco che, quale cadetto, pur gli competeva.
In quel tempo era papa Giulio Il, che prese a ben volere il suo nuovo prelato domestico, venendone così a conoscere il nobilissimo animo. Quando, di lì a poco, si rese vacante un posto di protonotario apostolico (carica molto ambita), Giulio Il non tenne conto di vari aspiranti più anziani e nominò Gaetano Thiene.
La benevolenza di Giulio Il verso il « diletto figlio maestro Gaetano Thiene, scrittore e nostro (cioè del papa) familiare » si manifestò ancora con la concessione « gratis » della parrocchia di Malo (in provincia di Vicenza) e della promessa di altri tre « benefici », che gli sarebbero stati automaticamente conferiti, man mano e appena si fossero resi vacanti.
Ho messo fra virgolette la parola gratis, perché, normalmente, in quell’epoca, i benefici ecclesiastici, grossi o piccoli che fossero, si comperavano a suon di quattrini, pochi o molti a seconda di ciò che i benefici stessi, una volta in godimento; avrebbero reso al beneficiano. Duole di dover dire queste cose, tanto gravi che, oggi, sembrano impossibili. A voce, le si deplorava; ma erano tanto nell’uso che non si faceva più caso al male che arrecavano alla religione. Questo male diveniva ancor più grave per il fatto che chi aveva comperato una parrocchia, non era tenuto ad andarci: poteva restarne lontano per poco o per molto tempo, e anche per sempre, purché ci avesse destinato un sostituto. Tolta dalla rendita la poca paga del parroco supplente, tutto il grosso, che ne restava, andava al titolare. Quest’ultimo (ed è il caso di Gaetano Thiene) poteva non essere neppure prete; il che non gl’impediva d’occupare un posto così delicato e di alta responsabilità come quello di parroco.Il quadro è fosco, ma qualche luce pure lo rischiara. Non tutti questi preti (che, con parola entrata nell’uso, potremmo dire « assenteisti ») erano sempre e solo profittatori. C’erano anche quelli che, per farsi perdonare l’assenza dalla sede del beneficio (chiesa, parrocchia o vescovato) facevano allo stesso qualche dono importante.
Nei riguardi del Thiene, il triste quadro della decadenza del costume religioso si risolve a tutto vantaggio della di lui grandezza, perché se è vero che fece solo visite saltuarie a Malo, è altrettanto vero che non percepì mai un soldo della rendita della parrocchia: lasciava tutto al parroco sostituto e dava ancor del suo ai bisognosi. In conseguenza di tale comportamento, nel processo di canonizzazione, i parrocchiani di Malo, chiamati a testimoniare, non dicevano Gaetano Thiene, ma il pre’ santo.
C’è di più: il Nostro era sì un puro di cuore; era sì un generoso, pronto a scusare le debolezze altrui (ma non mai le proprie); credeva fermamente che la Chiesa, essendo un’istituzione divina, non poteva crollare per certe usanze peccaminose, che in essa allignavano; ma gli occhi li teneva ben aperti e il male (che alla comunione dei fedeli derivava dalle istituzioni sbagliate e dai ministri del culto, che di quelle approfittavano, per tralignare impunemente) lo vedeva e ne soffriva assai.
Da tale dolorosa constatazione e dal profondo dolore che gliene derivava, nasce il proposito, vago e incerto all’inizio, fermo, operoso (e perciò fruttifero in seguito) di riformare le usanze della Chiesa, e, in conseguenza, di ridare ai suoi ministri la dignità, che deriva dalla vita irreprensibile, non solo dentro, ma anche fuori le mura del tempio.
E’ ancora presto per parlare dell’Ordine, che egli fonderà (i Chierici Regolari); ma fin da questo momento si può definirlo una pietra fondamentale nell’edificio della Chiesa rinnovata.
Comunemente si dice « Riforma » quella iniziata da Lutero e « Controriforma » quella operata in seno alla Chiesa, per tornare all’osservanza degli antichi principi. Sarebbe più giusto dire Scisma Protestante e Riforma della Chiesa (che da allora si chiamò cattolica). In detta Riforma, Gaetano Thiene ha un suo posto: preciso, autorevole, nobilissimo. Per esso, dopo cinquecento anni, è degno di ricordo, di amore, di venerazione.

Inattesa, ma meritata ricompensa

E’ risaputo, da quando mondo è mondo, che il male fa notizia assai più del bene. Così i romani lingue lunghe, intenti a biasimare i preti dal comportamento disdicevole, ignoravano i tanti altri, che i dieci comandamenti, oltre che predicarli, li attuavano.
A Roma esisteva un ristretto cenacolo di sacerdoti e di laici impegnati alla messa e comunione frequente, alla preghiera in comune in certi giorni e all’esercizio della carità verso il prossimo. Si chiamava Confraternita del Divin Amore e accomunava nomi oscuri ad altri illustri, come Jacopo Sadoleto, segretario di Papi, Gian Piero Carafa, vescovo di Chieti e futuro papa Paolo IV.
La Confraternita del Divino Amore non era originaria di Roma, ma ricalcata su quella voluta a Genova dalla nobile Caterina Fieschi-Adorno, futura santa.
Gaetano Thiene comincia a frequentare il cenacolo e si appassiona alla sua attività (che del resto concordava in pieno con quella singola, da lui svolta sin da giovinetto) a tal punto da diventarne incessante propagatore. In appresso, egli dovrà viaggiare molto; ebbene, giunto in una città, s’informava dell’esistenza della « Divino Amore »; se c’era, andava a visitarla e a infervorarla ancor più nell’opera di carità; se mancava, si metteva all’opera per fondarla.
Era necessario ricordare l’ingresso di Gaetano al « Divino Amore» di Roma, perché da quel contatto nacque il proposito di realizzare l’antica aspirazione di farsi prete: di fronte ai laici, che conducevano vita esemplare per zelo religioso e per pratica della carità evangelica, lui era rimasto all’impiego di curia; di fronte allo sconquasso, che si preannunciava dal Nord Europa, bisognava armarsi al completo e assumersi tutte le responsabilità, connesse alla funzione di intermediario tra gli uomini e Dio.
Dal contatto con i sodali del « Divino Amore », Gaetano si convinse che l’umiltà, pregevole in ogni cristiano, risplende ancor più nel sacerdote, perché i fedeli (che doverosamente hanno di lui un alto concetto) lo ammirano di più, vedendolo, oltre che dotto, pio e caritatevole, anche umile.
Il novello sacerdote aveva allora trentasei anni e, come rinnovata manifestazione di umiltà, non celebrò la prima messa se non dopo tre mesi di continua preghiera. Però, dopo la prima, non passò giorno che non rinnovasse il divino sacrificio (il che non era nel costume di tanti preti).
Ora che è sacerdote di Cristo, don Gaetano sente che, sia per i fedeli in genere che per i poveri e gli ammalati in ispecie, ha nuovi doveri, allo svolgimento dei quali però è d’ostacolo il lungo impegno quotidiano all’ufficio di protonotario apostolico. Papa non è più Giulio Il, ma Leone X, tutto inteso a dare magnificenza (forse più esterna che interiore) alla Chiesa. Don Gaetano gli chiede di essere esonerato dalla carica e il papa (ma a malincuore, perché sapeva che la Curia avrebbe perduto un elemento prezioso) glielo concesse.
Sacerdote e non più tenuto agli impegni dell’ufficio in Vaticano, don Gaetano continua e anzi intensifica la sua azione caritativa. Come vivesse, ce lo dice un testimone oculare, certo don Enrico Danese:
« Era irreprensibile, casto, mansueto, misericordioso e pieno di ogni pietà verso gli infermi. Con le sue proprie mani li cibava e custodiva e serviva. In quanto alla sua camera era povera: c’era un povero saccone di paglia, dove riposava, con un cuscino, un tavolino con uno sgabello per sedere, con alcuni libretti e una figura di carta. Lo vestire suo era di panno grosso, con calzette di cordicella bianca, con calzoni alla veneziana ...
Don Gaetano svolgeva l’ammirevole azione di assistenza spirituale e materiale nell’ospedale di San Giacomo. Ma egli e i confratelli della « Divino Amore » sapevano e vedevano quanti ammalati, tanto gravi da essere ritenuti incurabili, vagavano, schivati da tutti, per la città.
Pungolati da don Gaetano, i confratelli, che, per le cariche civili e religiose occupate, avevano voce presso le autorità, riuscivano, superando mille ostacoli, largamente sovvenzionati dal ceto nobile, a trasformare il San Giacomo da ospedale generico in ospedale per gli incurabili. Il ricovero offerto ai derelitti, che, miseri, stracciati e ripudiati, avevano, fino allora, vagato per la città, fu una non reclamizzata, ma certo tanto apprezzata affermazione della confraternita del Divino Amore.
I limiti di questo scritto vietano di dire tutto quanto andrebbe pur detto sul « fuoco bruciante e illuminante », che caratterizzò il primo anno di sacerdozio di don Gaetano. Ma del premio che egli ricevette nella notte di Natale di tale anno (1516) non si può tacere.
Stava pregando in Santa Maria Maggiore, e precisamente nella cappella del Presepio (dove si conservano, inseriti in una magnifica culla di materiali preziosi, alcuni legni della culla di Gesù), allorquando mosse, con gesto apparentemente, illogico, le braccia verso l’immagine di Maria col Figlio. Successe allora l’incredibile: la Vergine Madre posò, sulle braccia tese di don Gaetano, « quel tenero fanciullo, carne e vestimento dell’eterno Verbo ».
Questo fatto straordinario lo apprendiamo da una lettera, che lo stesso protagonista scrisse, un mese dopo, alla suora bresciana Lauta Mignani, donna di altissimi meriti, tanto che don Gaetano e altri sacerdoti, senza conoscerla di persona, se ne erano fatti figli spirituali.
Raccontata la visione, don Gaetano la commenta così: « ... Duro era il cuor mio, ben lo crederete, perché certo non essendosi in quel punto liquefatto, segno è che è di diamante ». E sospirava: « Pazienza! ».
La visione, sempre su testimonianza del protagonista, si ripeté nelle due feste della Circoncisione e dell’Epifania. Don Gaetano ne fu tanto grato che si confermò e si corazzò nella « immortal guerra contro i tre pestiferi nemici: la carne, il mondo e il demonio, da superare con l’aiuto della croce ».

Un nullatenente dona a quattro città il prezioso ospedale per gl’incurabili

La mamma di don Gaetano, ammalata, chiese il dono di una visita al figlio. Questi non si sottrasse al dovere di tornare a Vicenza, dopo tredici anni da quando ne era partito. Già sappiamo che per tutti gli anni dello studentato a Padova, una sola volta e per soli tre giorni, era rientrato a casa.
Nel secondo ritorno a Vicenza, don Gaetano si prodigò nell’assistere la madre malata, finché gli morì fra le braccia a metà agosto 1518.
Di ripartire dopo le lacrimate esequie, non si poté parlare: lui era capo della famiglia e doveva sistemare mille cose, tanto più che, dopo la morte del fratello Giambattista, il patrimonio Thiene aveva subito un tracollo.
Ci volle del tempo, ma alla fine sistemò le cose per bene: pagati i debiti e assicurata una onorevole dote alla nipote giovinetta, donò quel che restava ai cugini. Per sé, don Gaetano tenne alcune briciole di terra, e vedremo presto cosa ne farà.
Credete che durante il soggiorno vicentino (che si protrasse per tre anni) egli abbia abitato nel palazzo Thiene? No. Poiché da tempo si era autoprecluso ogni agio, prese stanza nell’ospedale, onde essere a immediato contatto con gli infermi e soccorrerli così prontamente nelle necessità fisiche e spirituali.
C’era a Vicenza un’associazione assai simile a quella del « Divino Amore » ed era la compagnia di S. Girolamo della Carità. Composta solo di popolani (per la qual cosa pareva ancor più bella e meritoria a don Gaetano) si proponeva di soccorrere i poveri e gli ammalati sia a domicilio che all’ospedale.
Appena il Nostro seppe della sua esistenza, vi si ascrisse e le fece dono delle briciole terriere, delle quali ho or ora parlato. I sodali gradirono quei doni concreti; ma, pur essendo popolani, apprezzarono ancor più il dono dell’insegnamento religioso e del grande esempio di dedizione a tutti i sofferenti, che don Gaetano porgeva loro.
Lo slancio di carità del Nostro, in quel periodo e tra quei buoni popolani, è testimoniato dalla dichiarazione (fatta al capo della compagnia) « ... di non voler cessare di donare il suo ai bisognosi, fintantoché non si vedesse ridotto a tale povertà da non restargli neppure quattro palmi di terra dove essere sepolto, né un soldo con cui fargli le esequie ».
Il soggiorno vicentino fu interrotto dal viaggio e dalla permanenza (che durò qualche mese) a Verona, dove c’era la compagnia di San Siro, ricalcata su quella del « Divino Amore ». Ma mentre a Vicenza i sodali erano tutti popolani, qui erano persone di molto riguardo, sia ecclesiastiche che laiche. Eppure fece tanto onore al Thiene, del quale ascoltarono, deferentissimi, i suggerimenti, frutto della lunga esperienza romana e vicentina. L’umiltà di don Gaetano, sincera, naturale, spontanea, era la chiave che apriva tutte le porte, anche quelle ostili in partenza.
Accettato a braccia aperte fra i sodali della San Siro, sapete come firmò l’atto di ammissione? « Gaetano Thiene, indegnissimo sacerdote, accettato in minimo fratello di questi santi compagni ».

In particolare egli aveva suggerito ai veronesi di farsi promotori della nascita di un ospedale degli incurabili. Tanto seppe infervorare, consigliare e operare, che quando giunse il momento del rientro a Vicenza, l’ospedale suddetto a Verona era una realtà.
Ma era scritto che don Gaetano non potesse star fermo per troppo tempo anche in un luogo caro, come gli era Vicenza: cominciarono a giungergli inviti, da persone autorevoli, perché si portasse a Venezia, ove era giunta la fama delle sue virtù e della sua capacità aggregatrice e organizzativa. Egli daprima si schernì, ritenendosi inadatto a operare in una città cosmopolita e tutta presa dai traffici. Ma quando (si era nel marzo del 1521) gli si disse: « Cristo aspetta: niun si muove », superò dubbi, incertezze e timori e partì.
A Venezia don Gaetano starà solo due anni, bastevoli però a dar vita a due istituzioni: quella del « Divino Amore » e l’altra più grande (dichiarata dal governo della Repubblica di interesse pubblico) dell’Ospedale Nuovo degli Incurabili. L’opera fu subito apprezzata a tal punto che i nobili privati e quelli del governo fecero quasi a gara nell’aiutarla. Le fu accordato il permesso della questua in Città e nel dominio e fu ordinato a tutti gli ammalati incurabili o almeno gravi di entrare nell’ospedale. Ma poiché molti erano dubbiosi e preferivano sottrarsi all’ordine, don Gaetano, girando per calli e campielli, li individuava e poi, con la parola infiammata di carità e ispirante fiducia, li convinceva a seguirlo nell’ospedale.
In esso egli non aveva una carica definita: secondo l’occorrenza, era direttore, ma pure infermiere e uomo di fatica. In cambio, aveva la grande gioia di vedere che gli ammalati e le ammalate erano serviti da gentiluomini e gentildonne, che portavano i nomi più altisonanti della Repubblica: per tutti dirò la moglie e il figlio del Doge Grimani, nonché quello di Venier, procuratore della Repubblica. Potenza della virtù ed efficacia dell’esempio!
Anche Padova, cara al Nostro per il ricordo degli anni universitari, si sarebbe tanto avvantaggiata da un ospedale per gli incurabili. Se non che l’istituzione di Venezia era troppo giovane per poter essere lasciata. Ma don Gaetano, maestro ineguagliabile, pur senza il proposito di insegnare alcunché a chichessia, aveva fatto scuola, per cui lo spagnuolo Girolamo da Solana fu in grado di andare a Padova e fondarvi sia il « Divino Amore » che l’ospedale per gli incurabili. Coordinando e dirigendo la volontà, l’azione, e l’impegno anche economico di tanti generosi, riuscì a dotare quattro città dell’ospedale per gli ammalati incurabili.

Nascono i nuovi operai della vigna

Vicenza, Venezia, Padova, quale magnifico campo per quell’aratura in profondità, che era lo spirito caritativo e la capacità organizzatrice del Thiene. Ma presto si rivelò troppo piccolo per lui. Un campo più vasto lo aspettava, ed era di nuovo Roma, da dove giungevano notizie confortanti di risveglio religioso. Già di per se stessa, l’elezione di Adriano VI, straniero e conosciuto per la vita semplice e la rigidità dei costumi, faceva capire che era sentita in alto loco la necessità di cambiamenti e di riforme. Il fasto della corte; la grandiosità dei templi; le feste, nelle quali gli elementi profani finivano col mettere in second’ordine quelli religiosi; le musiche e i poemi, composti in onore della Chiesa trionfante; la stessa munificenza, che scorreva a rivoli dalla borsa del pontefice o dei cardinali, erano tutte cose che, senza dubbio, piacevano al popolo e lo facevano accorrere, festoso, nelle chiese. Era però assai dubbia la loro efficacia, nel rafforzamento del sentimento religioso dello stesso popolo.
Con Adriano VI tutto cominciò a cambiare e la sua azione (ahimé! troppo breve) si compendi ava in questo proposito: « dare un prete ad ogni beneficio (nel senso di parrocchia o altra istituzione religiosa provvista di rendita) e non un beneficio ad ogni prete ». Grandi e utilissime cose egli avrebbe operato nel raddrizzare regole, usanze e costumi claudicanti, se non fosse morto assai presto. Ma pochi lo avevano capito, tanto è vero che, invece di piangere la sua repentina dipartita, il popolo si abbandonò a indecorose manifestazioni di gioia. Esse dimostrano che il gregge era stato fuorviato dalle mollezze, dalle tolleranze e dalle indulgenze durate troppo a lungo.
Col cavallo di san Francesco don Gaetano sul finire del 1523, sacca in spalla e bastone da pellegrino fra le mani, lasciare la laguna e puntare a Roma. Giuntovi, riabbraccia i fratelli del « Divino Amore », nel frattempo cresciuti di numero. Fra i nuovi iscritti, il Nostro prese particolarmente in istima il giovane sacerdote Bonifacio de’ Colli, dottore in legge, di sentimenti elevati e di costumi esemplari.
Avendo don Gaetano ripreso, come se non ci fosse stata un’interruzione di cinque anni, a frequentare l’ospedale degl’incurabili, il de’ Colli lo imitò, gareggiando in zelo e generosità. Così i due ebbero modo di conoscersi meglio, scoprendo di avere le stesse idee circa la necessità di riportare il clero a vita più semplice e quindi conforme agli antichi insegnamènti evangelici. Da queste riflessioni all’idea di fondare un nuovo Ordine, basato sugli obblighi tradizionali della povertà, dell’obbedienza e della castità, da rispettare rigorosamente, il passo è breve.
Il Thiene e il de’ Colli non pensavano, data la loro umiltà, di avere la forza di contrapporsi alla predicazione protestante. Volevano essere solo un campanello d’allarme, un richiamo a chi ostentava di sconoscere il pericolo incombente, una pattuglia d’avanscoperta, insomma, per il grosso dell’esercito, che sarebbe venuto dopo. — Potremo dissodare lo spazio inaridito bastevole a un orticello (avranno pensato il maestro Thiene e l’allievo de’ Colli); ma facendovi attecchire e prosperare i tre alberi della povertà, dell’obbedienza e della carità, essi scacceranno le erbacce, che da troppo tempo inviliscono il terreno della Chiesa.
Il proposito dovett’essere palesato a qualcun’altro, se giunse agli orecchi di Gian Pietro Carafa, in quel momento vescovo di Chieti e arcivescovo di Brindisi, ma con incarico in Curia e quindi residente a Roma (conferma di una delle usanze deleterie, che affliggevano la Chiesa). Ma egli non abusava di questa situazione irregolare, anzi ne soffriva, ritenendola in netto contrasto con il bene delle anime.
Il Carafa, futuro cardinale e poi papa, sarà il braccio destro del Thiene e avrà tanta parte nello sviluppo dell’Ordine che nascerà (dei Chierici Regolari, che si chiamarono Teatini proprio perché lui era vescovo di Chieti, l’antica Theate). Napoletano esuberante e facondo, oratore appassionato e convincente, impetuoso e autorevole nei rapporti umani, racchiudeva nelle belle sembianze e nella robusta corporatura un’anima tutta slanci di carità e di ardore religioso. Obbedendo a un desiderio di perfezione religiosa, che covava nell’intimo da tempo, avrebbe rinunciato a ogni carica e anche al patrimonio avito, conformandosi in tutto e per tutto alla regola che don Gaetano avrebbe dettato.
Così i pionieri della compagnia dei Chierici Regolari sono tre: Thiene, de’ Colli e Carafa. Ad essi se ne aggiunse un

altro, il sacerdote Paolo Consiglieri, romano, anch’esso uscito dalla scuola del « Divino Amore » e quindi avvezzo alla vita semplice e all’esercizio della carità.
Fu stesa una Regola, a base della quale c’erano i tre voti ben conosciuti, con l’aggravante che la povertà doveva essere assoluta, nel senso che i chierici avrebbero accettato ciò che fosse stato dato loro per il sostentamento, ma che non avrebbero mai chiesto niente a nessuno. Il voto della povertà totale si basava sull’insegnamento evangelico degli uccelli dell’aria che non seminano, non mietono e non raccolgono nei granai, ma che il Padre Celeste nutre e dei gigli dei campi, che non lavorano e non filano e che tuttavia hanno una veste più bella di quella di Salomone.
Fu proprio questo concetto che incontrò le maggiori opposizioni nella Curia, cui fu sottoposta la Regola. Pareva, a quei dabbenuomini, che i nascenti chierici regolari volessero forzare la Provvidenza a rinnovare i miracoli. Alla fine, pur con molte modifiche, il « breve » d’approvazione della Regola giunse: consentiva ai quattro compagni di emettere i voti pubblicamente, di vivere in comune in abito clericale con la denominazione di Chierici Regolari, sotto la protezione apostolica, di eleggersi un superiore e di ammettere altri, di qualunque dignità, alla « professione », dopo il noviziato di un anno.
Con un altro breve dello stesso giorno, indirizzato al Carafa, il papa ne accettava la rinunzia alle due diocesi, stabiliva che continuasse a chiamarsi vescovo teatino (da Chieti, l’antica Theate) e ad esercitare le funzioni pontificali, mentre lo scioglieva dagli altri obblighi, non conformi al suo nuovo stato e al voto di povertà, che stava per fare.
Fatta rinunzia, innanzi al notaio, a tutti i beni posseduti e accettata una casa di Bonifacio de’ Colli, come loro residenza, i Chierici Regolari, un mattino, assai per tempo, si portarono in San Pietro, per fare la pubblica professione nelle mani del vescovo Bonciani, deputato dal papa a riceverla. Ma poiché detto vescovo giunse con molto ritardo, il tempio si era via via empito di gente, la quale, saputo di che si trattava, era ansiosa di vedere i quattro coraggiosi, che rinunciavano a una vita, che sarebbe potuta essere comodissima, per iniziarne un’altra piena di stenti.

I Teatini «lume e odore buono»

La minuscola comunità dei chierici regolari si stabilì a Via Leonina (nel rione Campo Marzio, centro di Roma) nella casa offerta dal de’ Colli (ma con impegno di venderla dopo tre anni, onde tener fede al principio che la congregazione non dovesse posseder nulla). Il sistema di vita messo in opera era duplice: contemplativo (studio e preghiera) e attivo (assistenza a tutti i bisognosi, a cominciare dagli incurabili accolti nell’ospedale di San Giacomo). Il Carafa, benché vescovo, si prodigava nel fare l’infermiere come e più degli altri tre.
Accanto alla casa c’era (ed esiste tuttora) la chiesetta di San Nicola in Campo Marzio, poco o niente ufficiata. Presala in cura, i teatini ne fecero un gioiello di ordine e di pulizia (ed era proprio don Gaetano che, più degli altri tre, impugnava scopa e strofinaccio). Sempre disponibili alla confessione e attentissimi allo svolgimento delle funzioni, ebbero la gioia di veder accorrere nella chiesetta (prima pressoché ignorata) molta gente, non solo del rione, ma di altre parti di Roma.
Come se non bastasse il lavoro dentro la propria chiesa, i teatini (ormai la gente li chiamava così) andavano a predicare in altre e più grandi chiese. Oltre tutto, era un esempio che davano ai curatori di chiese (parroci, cappellani, canonici, ecc.) presso i quali era invalso l’uso di lasciare la predicazione ai frati, quasi che disdicesse alla loro dignità. (Sincerità avrebbe voluto che si autaccusassero di incapacità e svogliatezza).
La predicazione alle masse fu un merito particolare dei teatini, specie quando crebbero di numero. Don Gaetano non negava il valore degli studi teologici fatti a tavolino; ma aggiungeva che essi non davano alcun impulso alla fede del popolo. Per portare lume e odore buono (era la sua espressione favorita) bisognava scendere in mezzo alle masse e, con linguaggio adeguato, renderle partecipi delle verità della fede. Perciò, a piedi in città e a cavallo nelle campagne (dove, normalmente, gli altri preti andavano ben poco, per non dire mai) i teatini, armati del Vangelo, portarono lume e odore buono.
Quanto alle necessità materiali della vita, le affrontarono così: tutti e quattro i chierici confondatori s’erano spogliati (e s’è già detto) d’ogni bene immobile posseduto. Ma le sommette, che si trovavano a possedere al momento della professione religiosa, le misero in comune e così fecero fronte alle prime spese. Fedeli al principio anzidetto, né allora, né poi, chiesero mai nulla; ma le elemosine cominciarono a giungere spontanee: trattenuto il necessario al bisogno giornaliero, tutto il restante veniva dato ai poveri.
Poiché la Roma di cinque secoli fa era come una cittadina di oggi, non è da stupire che il sistema di vita dei quattro chierici regolari si conoscesse da un suo capo all’altro. Non tutto il clero romano lo ammirò, è ovvio: esso frustava, in silenzio, troppi comodi, troppe incurie, troppi sepolcri imbiancati. Ma tanti altri preti, in alto e in basso, li guardarono con rispetto e presero a imitarli. Tutto, dunque, non era guasto: i buoni c’erano e aspettavano solo una chiamata per riprendere il retto cammino.
Un’altra prova della buona fama che aleggiava intorno ai teatini è offerta dalle nuove reclute affluenti in Via Leonina. Se è vero che molti, che chiedevano di entrare, poi, messi alla prova e trovatala troppo dura, se ne andavano, è altrettanto vero che altri restavano. E non erano persone dappoco. Bernardino Scotti (tanto per fare un nome) sacerdote di Magliano Sabina (Rieti), ricco di famiglia, avvocato concistoriale, dotto in latino, in greco e in ebraico, rinunciò ai beni aviti e visse in esemplare povertà sotto l’abito teatino. (In appresso, diventerà il primo cardinale della congregazione).
Dopo qualche tempo diventarono (tutti provenienti dall’esperienza del « Divino Amore ») dodici, e allora si presentò il problema della casa, giacché quella di Via Leonina era insufficiente. Il problema lo risolse il cardinale Giberti che, quand’era vescovo di Verona, aveva conosciuto don Gaetano e lo aveva tanto apprezzato. Ricopriva in Vaticano l’alta carica di datano ed era il consigliere privato del pontefice. Ma, uomo di costumi esemplari e anelante alla riforma interiore della Chiesa, avrebbe voluto lasciare tutto e farsi teatino, cosa che però il papa non gli permise. Sapendo che i chierici regolari si trovavano troppo stretti in via Leonina, comperò, con denaro personale, una vigna con casa colonica alle pendici del Pincio, e in essa casa, opportunamente adattata, si trasferirono i dodici teatini.
Il San Giacomo, con i suoi incurabili, essendo non lontano dalla nuova residenza, rimase la palestra dell’attività assistenziale e caritativa dei chierici regolari, ai quali, durante l’anno santo 1525, il lavoro raddoppiò, a causa di un’epidemia di peste. Ne furono colpiti in prevalenza i pellegrini, forse perché, indeboliti dagl’interminabili viaggi (la povera gente li faceva a piedi) erano più ricettivi al morbo. Quegl’infelici, essendo soli, senza parenti, senza conoscere la città, senza o con pochi denari, furono i prediletti di don Gaetano e dei suoi confratelli.
Dopo alcuni anni di esperienza di vita comunitaria, venne il momento, per i chierici regolari, di darsi una costituzione definitiva. Essa fu stilata, materialmente, dal Carafa, ma il pensiero animatore fu di don Gaetano, che parlava assai poco, ma vedeva sempre giusto.
Qui è il caso di confermare che l’Ordine Teatino ebbe tanta parte nell’azione di riforma dei costumi ecclesiastici (bisogno sentito già prima della bufera protestante). A tale scopo Clemente VII aveva costituito una commissione, con pieni poteri, presieduta dal cardinale Giberti e della quale, assieme a pochi altri, fece parte il Carafa che, come s’è detto, aveva serbato la dignità episcopale. Di detta commissione proprio il Carafa, sia per la naturale combattività, sia per l’esperienza acquisita nella vita comunitaria teatina, fu l’alfiere. Risaputolo fuori della Curia, fu oggetto di scherno e d’insulti da parte dei riottosi colpiti dallo stringimento di freni operato dalla suddetta commissione.
Non era da credere che la gramigna, che aveva infestato il campo della Chiesa, potesse essere sradicata da un giorno all’altro. Tuttavia qualche cosa di buono la commissione ottenne, per esempio che chi voleva essere ordinato sacerdote doveva dimostrare di aver fatto almeno il corso di « grammatica »; che chi aspirava a una carica superiore doveva sottoporsi a un esame di più solida cultura; che forestieri, dei quali non si sapeva nulla, ma che tentavano l’avventura di Roma, non sarebbero più stati ordinati sacerdoti, come prima avveniva, purché fossero disposti a largire una certa somma. Infine, non fu più tollerato il vestiario sciatto o troppo vistoso: tutti dovevano indossare la veste talare e radersi le barbacce, di cui fino allora avevano fatto sfoggio.
Ma la commissione puntò il mirino anche alle alte cariche, come le più responsabili del mancato adempimento dei doveri da parte del clero sottoposto. Già sappiamo del Carafa che era stato vescovo di Chieti e arcivescovo di Brindisi e residente a Roma. C’era di peggio. Tommaso Campeggio, legato del papa, da cinque anni era vescovo di Feltre, senza aver nessuno degli ordini sacri. Ma, ottemperando alle ingiunzioni della commissione, si preparò convenientemente agli esami, che sostenne innanzi al Carafa. A distanza di vari giorni l’uno dall’altro, durante i quali si mortificò con il digiuno, ricevette gli ordini minori e alla fine fu consacrato vescovo. C’è da credere che poi egli abbia usate, verso i preti sottoposti, la stessa onesta severità usata nei suoi riguardi.

Splendidi fiori d’un vecchio albero

Don Gaetano Thiene invecchia, non tanto per gli anni quanto per il lavoro, le penitenze, le ansie connesse alla guida della barca teatina. Sarebbe giunto il momento di concedersi un po’ di sosta, di passare ad altri la soma, anche perché una gamba spesso gli si gonfiava e doveva quasi trascinarla. Invece di diminuire, le responsabilità gli crebbero, perché il nuovo papa (Paolo III) volle a Roma il vescovo Carafa, che quindi non poté più occuparsi dell’Ordine.
Il Nostro avrebbe desiderato ritirarsi nell’ombra e invece i confratelli, ritenendolo insostituibile alla testa dell’Ordine, ve lo rieleggevano. Sentite con quale spirito di sottomissione egli accettava la carica: « Ne soffra l’età, ne patisca l’umiltà, ci scapiti pure il mio interesse spirituale (pensava di doversi preparare alla morte, che presentiva non lontana), ma trionfi l’obbedienza impostami, nella quale riconosco la voce e la volontà di Dio ».
La chiamata del Carafa a Roma (giustificata con la necessità di lavorare assiduamente agli atti preparatori del Concilio di Trento) faceva presagire la nomina a Cardinale.
Questa giunse all’improvviso, nel 1337, mentre l’interessato stava seriamente ammalato. Era ospite del convento dei domenicani, e quivi confluivano anche molti teatini, a cominciare da don Gaetano, perché era scaduto il triennio della prepositura e bisognava procedere alle nuove nomine.
Don Gaetano stava nella cella (proprio una cella conventuale), ove, su un lettuccio, giaceva l’ammalato, allorché giunse un messo del Vaticano recante la berretta cardinalizia, segno dell’avvenuta nomina. La procedura insolita si giustificava col fatto della malattia dell’insignito, che si diceva fosse addirittura in punto di morte.
Don Gaetano, vista la berretta, s’immalinconì, perché quella nomina contrastava con i principi di umiltà e di povertà posti a base dell’Ordine; perciò fece segno al Carafa di rifiutarla. Ma quello, pensando che il gesto avrebbe avuto il significato di disobbedienza e d’ingratitudine verso il papa, la trattenne. Ma dove posarla, se la cella era nuda al punto che non c’era non dico un mobile, ma neppure un tavolino? Gli occhi del nuovo cardinale si posarono su un chiodo della parete. Il messo capì e ci sospese quella berretta, che per tanti prelati era (e sicuramente è) il miraggio di tutta la vita.
Il fatto conferma che nel Carafa, il quale aveva conservato (pur non avendone l’ufficio) la dignità vescovile, la povertà teatina era stata sempre seguita.
Il neo cardinale si riebbe dalla malattia e s’impegnò a fondo nelle nuove funzioni. La riforma della Chiesa era il suo assillo: non siamo ancora alle conclusioni del Concilio di Trento, ma fra le varie norme severe, che Paolo III promulgò, ci fu quella che il vescovo dovesse avere un solo vescovato e risiederci. Per tale norma si batté proprio il Carafa, che ricordava l’impossibilità di far bene il dover suo, quand’era, contemporaneamente, vescovo di Chieti, arcivescovo di Brindisi e con incarichi nella Curia romana.
Sempre battagliero e sempre infervorato nel lavoro, il Carafa, qualunque fosse il campo d’azione riservatogli. Ma è ovvio che ora, da cardinale, pur restando amico e protettore dei teatini, non ne potrà portare più l’abito, né avere, nell’Ordine, alcuna carica. Il che significa aggravio di lavoro e responsabilità per don Gaetano, costretto ad alterni soggiorni fra Venezia e Napoli.
Poiché lo spazio limitato non consente di seguirlo di volta in volta in questi spostamenti, restringeremo la narrazione a episodi più significativi, che mettono il suggello a tutta una vita di silenzioso eroismo, di esaltante osservanza della povertà, di sublimazione dell’insegnamento evangelico.
La carità dei napoletani verso il convento teatino era costante, ma non legata certo ai giorni e alle ore. Poteva accadere che un giorno ne giungesse più del necessario (e ne godevano i poveri) e che qualche giorno i poveri in assoluto fossero gli stessi teatini. Ecco quel che successe proprio in uno di tali giorni.
L’addetto alla cucina, non avendo nulla da cucinare, si occupa di altre cose; ma l’orecchio è sempre vigile al campanello, perché attende con fiducia l’arrivo di una qualche elemosina.
Malauguratamente, la mattinata passa con il campanello alla porta d’ingresso che si è ammutolito. Ormai non poteva oltre attendere a comunicare l’incresciosa situazione al superiore, il quale, fattosi pensieroso, dopo un po’ disse: — Quand’è l’ora, suona la campana della mensa.
Fu suonata, i fratelli si riunirono intorno al tavolo, spoglio anche del consueto povero vasellame. Non ci sono pervenute le parole che, nella penosa circostanza, fiorirono sul labbro di don Gaetano, inneggianti alla benefica povertà e alla beneficienza del Signore, che sola sa quando dev’essere larga e quando ristretta. Ma gli uomini che, essendo miopi, vedono il dono e non la mano che lo largisce, si rallegrano nei momenti di abbondanza e si rabbuiano in quelli di ristrettezza.
Non sappiamo dunque le precise parole dette da don Gaetano, ma dovettero essere in tutto degne della sua radicata sincerità e umiltà, se furono subito premiate: trillò il campanello, il cuciniere corse ad aprire e si ritrovò sulle braccia (non si seppe mai da chi: lui disse che fuori della porta non c’era nessuno) una cesta di pane bianco, bianchissimo, soffice, profumato, saporito, come nessuno ne aveva mai mangiato, né ne mangiò mai in apresso.
Pane degli angeli, lo definirono; ma ciascun confratello, in cuor suo, disse che quell’angelo aveva un nome: san Gaetano Thiene.
Nel Nostro, l’umiltà, frutto di un continuo studio e di un rigoroso controllo, era profondissima; ma,
al momento opportuno, egli sapeva erigersi in dignità e autorità, che imponevano rispetto e sottomissione. Don Gaetano aveva sempre voluto (ed era uno dei segni palesi di differenziazione dai molti preti pigri, svogliati e mestieranti, che si servivano della Chiesa, anziché servirla) che il sacerdote celebrasse ogni giorno la messa. Aveva la radicata convinzione che il rinnovato sacrificio di Cristo sull’altare si sarebbe cambiato in grazia per lo spirito sia del celebrante che per quello di tutti i partecipanti. Educati a questa scuola, i teatini celebravano ogni giorno la messa, previa raccolta e meditata preparazione. Detta messa, per il raccoglimento, l’ordine, la precisione dell’orario e del linguaggio, era come un sacro spettacolo, che il popolo apprezzava e dal quale traeva profitto spirituale.
Un giorno don Gaetano seppe che il Carafa, preso dai gravi impegni del suo ufficio di cardinale, non avendo il tempo necessario a prepararsi degnamente alla messa, di tanto in tanto finiva col saltare la celebrazione. La notizia arrecò tanto dolore al Nostro, che decise di partire alla volta di Roma, per richiamare il Carafa al dovere di affermare e confermare ogni giorno la sacralità del suo ministero, celebrando il sacrificio della messa. Si badi che lui, don Gaetano, era soltanto un prete, che l’altro era cardinale, cioè un « cardine della Chiesa », e che in questa sua nuova posizione il legame con l’Ordine Teatino sopravviveva solo sul piano dell’affetto.
Giunto che fu dinanzi al cardinale, gli parlò pressappoco così: — Credete di essere umile, disertando l’altare, perché ad esso non vi siete degnamente preparato. Ma è un’umiltà fallace e colpevole, togliendo essa l’onore a Dio, la gloria ai santi, la forza alla Chiesa. Inoltre priva i vivi e i morti, e voi soprattutto, dei grandi tesori, che il sacrificio divino assicura.
— Se vi siete tanto adoperato con me, affinché i secolari si cibassero frequentemente del cibo eucaristico, come potete ora rimanerne digiuno voi?
— Tornate dunque al santo costume, prescritto nelle nostre leggi, di sacrificare ogni giorno l’agnello immacolato di Dio e di cibarsi delle Sue saporitissime carni.
Il Carafa, che anche da vecchio serbava il carattere fiero e impetuoso che gli abbiamo conosciuto, dinanzi a don Gaetano abbassò la testa e promise di trovare, a ogni costo, il tempo di prepararsi alla messa e di celebrarla quotidianamente, col raccoglimento, la compostezza e la consapevolezza appresi alla scuola del maestro.
Si abbracciarono e si lasciarono. Don Gaetano, dopo il riposo di una sola notte, si rimise in cammino alla volta di Napoli. Che gl’importava del viaggio massacrante Napoli-Roma-Napoli, se il suo diletto figlio, confratello e ora tanto superiore, gli aveva fatto la grande promessa di celebrare ogni giorno il divino sacrificio?
Per uno spostamento da Venezia a Napoli, don Gaetano aveva preso posto su una nave, che nei primi giorni filò liscia e tranquilla sotto il cielo sereno. Ma, a metà viaggio, la navigazione, da riposante che era, divenne tragica, perché, nel giro di pochi minuti, era scoppiata la tempesta.
Docili ai comandi del provetto capitano, i marinai fecero tutto quanto era umanamente possibile, senonché l’impeto degli elementi scatenati pareva ridersi dei loro sforzi, per cui, assai presto, equipaggio e passeggeri si videro preda delle onde gigantesche. Molti, con gli occhi sbarrati, si strinsero intorno all’unico prete, uno sconosciuto, chiedendogli l’assoluzione. No — disse don Gaetano — voi vivrete per servire Dio e per sostenere le vostre famiglie, perché questo agnello immacolato vi salverà.
Aveva tratto dal petto un disco di cera (allora molto diffuso) con impresso un Agnus Dei e, tenendolo in alto, continuò:
— Figli e fratelli, come io getterò in mare questo Agnus Dei, che toglie i peccati del mondo, gettate anche voi, sinceramente pentiti, i peccati, dei quali vi siete macchiati, e vi assicuro che la tempesta cesserà.
Quei visi, da terrorizzati che erano, si distesero nella fiducia del miracolo: pregarono, invocarono, confessarono, promisero, mentre don Gaetano, con la maestà con la quale di solito sollevava l’ostia consacrata, buttava in mare il dischetto dell’Agnus Dei.
Come per incanto, la tempesta si placò, il sole tornò a splendere e don Gaetano corse pericolo di essere soffocato dagli abbracci e dai ringraziamenti di quell’umanità, che tornava alla vita, dopo aver visto in faccia la morte. Quando poté parlare, don Gaetano disse: — Non ringraziate me; sono un peccatore come voi e più di voi, ringraziamo Dio, adoriamolo come merita, serviamolo nei pensieri e nelle opere.

Muore l’uomo, nasce il santo

Gaetano Thiene aveva vinto la sua battaglia in Napoli: un po’ per volta, le iniziali ostilità e prevenzioni avevano ceduto il posto all’aperto riconoscimento dei suoi alti meriti. Molti già io consideravano e lo chiamavano santo, la qual cosa, per uno come il Nostro, che faceva di tutto per passare inosservato, era un’autentica sofferenza. Così si spiega che considerò giornata di gioia grande quella in cui fu esonerato dalla carica di preposto dell’Ordine, che passò al degnissimo don Giovanni Marinoni.
Don Gaetano poté così dedicarsi maggiormente alle attività religiose nell’interno della chiesa, ma adempiva pure, con estrema naturalezza, a mansioni assai più umili, come lo spazzare la casa e fare il bucato. Caduto il veto a occuparsi dell’ospedale degl’incurabili, quello divenne il luogo dove, il più a lungo possibile, s’intratteneva. Per far che? tutto, anche i servizi più sgradevoli. Così, alla fine della vita, tornava alle origini: servire i bisognosi con estrema semplicità, quasi fosse un onore concessogli dal buon Dio.
L’ora del giusto riposo, a chi tanto bene aveva sparso in vita, non era lontana; ma prima di toccarla, il santo uomo dové bere un calice di amarezza. E quel che è più triste è che esso gli proveniva, sia pure in via indiretta, dalla riforma della Chiesa, tanto bramata e dal cardinale Carafa, dilettissimo fra tutti i suoi figli.
Con l’intento di difendere la religione cattolica dalle deviazioni eretiche, era stata istituita la Santa Inquisizione. Purtroppo, in Ispagna essa aveva preso subito una coloritura politica, nel senso che quel governo, sotto il mantello della difesa della fede, se ne serviva per perseguitare, e duramente, i propri avversari.
Don Pedro di Toledo, che governava a Napoli in nome dell’imperatore, chiese un tribunale dell’Inquisizione. Ce n’era bisogno dal punto di vista di una possibile deviazione religiosa? O voleva munirsi, con la scusa degli eretici, di un nuovo strumento di tirannide politica? Può esser vera l’una e l’altra cosa. Di certo sappiamo che chiese a Roma un tribunale inquisitorio e che il cardinale Carafa, che in quell’epoca ne stava a capo, glielo concesse.
A Napoli se ne risentirono tutti: gl’intellettuali vi videro un mezzo per soffocare quel poco di libertà di cui godevano; i nobili temettero per i loro privilegi; il clero vide in pericolo le troppe immunità di cui si pasceva, e il popolino, eccitato sotto sotto, gridò al sopruso, all’ingiustizia, all’affamamento e ad altre cose ancora. In una situazione così tesa, bastò una scintilla per dar fuoco alla sommossa.
Un delinquente comune, mentr’era condotto in carcere; vedendo un gruppo di giovani di civilissima condizione, ne invocò l’aiuto, gridando che era vittima innocente del tribunale inquisitorio. Quelli, generosi e impulsivi come è normale alla loro età, si buttarono sui carcerieri e fecero fuggire l’imprigionato. Il popolino acclamò il gesto, ma il viceré fu di tutt’altro avviso: i giovani liberatori furono rintracciati e tre di essi mandati al patibolo. Così cominciarono i tumulti, che di giorno in giorno e di ora in ora diventavano più frequenti e più sanguinosi. Il vicerè aveva le truppe armate; ma il popolo, animato da rabbia repressa, aveva una grande mobilità, l’astuzia delle fughe e dei ritorni improvvisi, le barricate e la solidarietà di altro popolo. Nessuno dei due contendenti scherzava e le strade s’empivano di morti.
Oh, il dolore di don Gaetano nel vedere insanguinate le strade della sua amata Napoli ed esacerbati i cuori del diletto popolo, già così mite e ben disposto alle pratiche religiose. Invecchiato innanzi tempo, malandato in salute, con la gamba dolorante, il santo uomo, mentre invocava l’intervento del Signore, si adoperava pure presso. i contendenti, agitando al di sopra delle mischie il crocifisso, e dicendo calde parole di pace, di tolleranza, di accettazione. Corse anche dal viceré, chiedendogli un gesto di clemenza per distendere gli animi sovreccitati. Ma tutto riusciva inutile: se la lotta perdeva d’ardore dov’egli compariva, si accendeva più furibonda in cento altri punti. Gli spagnoli sparavano; il popolo fuggiva, ma ricompariva poco appresso ora da questo, ora da quel rione o vicolo.
Straziato nell’animo, don Gaetano si senti venir meno le già debilitate forze fisiche. Si distese sul giaciglio, che era di nude tavole, e si sottomise di buon grado ai rimedi proposti dai medici, pur sorridendone, perché egli solo sapeva il giorno della morte (e lo disse agli intimi). Ad essa si preparava con ardenti preghiere, così come pregava perché la guerriglia fratricida cessasse.
Il primo medico accorso disse che era inumano lasciarlo sulle nude tavole. Subito fu procurato un materasso; ma, nel vederlo, l’eletto uomo, già avviato alla santità (tutto dolorante nelle membra, ma lucidissimo nello spirito) lo respinse con queste parole:
— A me, peccatore bisognoso di far tanta penitenza si vuol dare un letto morbido e agiato? Al mio vilissimo corpo si vogliono offrire carezze e delizie? Non sia mai vero: io devo e voglio morire in cenere e cilicio (che, in realtà, aveva ancora indosso).
— Le carezze e i buoni trattamenti siano riservati all’anima creata a immagine di Dio e non al corpo vile, impastato di polvere e di fango. Non può sperarsi il paradiso, senza penitenza.
Questi e altri consimili furono gli ultimi voleri e insegnamenti di Gaetano Thiene, che conchiuse l’inimitabile esistenza la sera del 7 agosto 1547.
Sin dagli anni giovanili, quando (specie alla sua epoca) nobiltà di casato e ricchezza di denaro si tenevano in alto pregio, egli le aveva disdegnate. Ma cinquant’anni di indefesso apostolato in tutti i campi (della cultura, della povertà, della carità, della difesa della verità della fede, del prestigio del sacerdozio) gli avevano conferito una nuova ricchezza (quella degli spregiatori del denaro) e un nuovo fasto nobiliare interiore, scaturito (ma gli uomini volgari non lo vedono) dall’essersi fatto volontario servo degli ammalati con piaghe ripugnanti. Questa ricchezza e questa nobiltà, raggiunte da Gaetano Thiene con un sacrificio cinquantennale (oscuro alle masse, ma duro e pur gioioso per lui) ha solo un nome: santità. La Chiesa, che in queste cose procede con meditata lentezza, gliela riconobbe molto più tardi (nel 1671); ma il popolo, che parlava di lui come d’un santo mentr’era ancora in vita, io venerò come tale appena spirato, perché esso popolo fu testimone e protagonista insieme di questo nuovo miracolo: sparsasi la voce per tutta Napoli che il benefattore dei più miseri, il consolatore di ogni afflitto, il difensore (con l’esempio e non col tribunale) della vera fede, era morto, cessarono, come per incanto, i combattimenti. Quegli stessi uomini, che fino allora avevano aggredito, inveito e ucciso, si prostrarono davanti la lacrimata salma e deposero ogni rancore. I napoletani, rendendo onore al loro nuovo grande santo, tornarono alla pace, al lavoro, alla fraternità; tornarono a credere nella verità immortale (che tutte le verità compendia) sempre ripetuta da san Gaetano: « Amatevi gli uni gli altri, come io, Cristo, ho amato voi ».