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Argomento presente: « FESTA DEL CENTRO ITALIANO »
ID: 8301  Discussione: FESTA DEL CENTRO ITALIANO

Autore: Vito d'Adamo  - Email: vda27@online.de  - Scritto o aggiornato: sabato 15 marzo 2008 Ore: 23:49


Pigia la freccia e regola il volume per l'ascolto di "Vagner - Prelude to Die Meistersinger von Nürnberg"














Angelo osservava accigliato il gruppo danzare, fisso lo sguardo su due ballerini: lui una specie di daiaco, cacciatore di teste del Borneo; lei, una tedeschina dal viso dolce, lunga di gambe e dai fianchi alti, che si dondolava al ritmo della tarantella. Il gruppo si presentava raccogliticcio e non affiatato. Un disastro: la fisarmonica non s’accordava con la chitarra, i registratori si bloccavano sul più bello, le cassette non si trovavano quando invece occorrevano d’urgenza. I ballerini si confondevano in quel solenne bailamme e quando non riuscivano ad operare in gruppo, ciascuno improvvisava.
Qualcuno, perplesso, addirittura si fermava: una cagnara, non riusciva a rassomigliare neppure ad una comica finale. Angelo, presidente del Centro Italiano organizzatore, si rammaricava d’avere scritturato un complesso così scadente, pentendosi per la scelta poco oculata e paventando le critiche, che gli sarebbero state immediatamente mosse in sede consiliare e poi, nel corso della prima assemblea.
Gli intervenuti si davano sotto, intanto, a vino nostrano e birra locale, degustando le lasagne al forno, preparate in casa parecchie ore prima e riscaldate sul posto, e su ogni porzione s’era formata una crosta croccante, ma pressoché immasticabile. Il pasticcio era molto pepato, seguito da salsicce non meno piccanti, reclamava vino a ritmo sostenuto. Gli italiani applaudivano alla messa in scena perché erano quasi tutti siciliani; i tedeschi applaudivano perché c’era in ballo la faccenda dei buoni rapporti e dell’integrazione; gli spettatori d’altra etnia applaudivano, perché così facevano tutti. E, poi, era corso già molto vino e parecchia birra; e, infine, c’erano radici e ricordi, tradizionali o d’occasione, che fossero; e la Sicilia era scaduta a quella povera cosa, di cui il nordico presentatore si pavoneggiava in due lingue approssimative.
Come Dio volle, canzoni, cori, danze pseudo sicule e presentazioni in bergamasco ebbero fine ed il gruppo venne giù dal palcoscenico e si sparpagliò tra i tavoli ed Angelo invitò a ballare la tedeschina, una ragazza trasognata e romantica, scarsa di seno anche se solidamente piantata su gambe svelte e fianchi pronunciati. Il daiaco, visto da vicino, era più cacciatore di teste che mai, basso ed agile sotto la capigliatura spessa, tagliata a fungo, il naso largo, spiaccicato in pieno viso.

Angelo affogava, intanto, nel Chianti tutte le apprensioni, procurategli dalla mal riuscita serata; ed in più per la pena che provava per le tedeschina smarrita, che poco prima si era esibita col gruppo nella tarantella. Dopo, aveva ballato con lui un paio di volte, senza profferire parola, perduta dietro ai sogni che faceva, irrimediabilmente distratta in un ratto d’integrazione totale con il suo bruno daiaco, con il quale conviveva e che seguiva e da cui s’era staccata solo per quei due balli, ché non si poteva dire di no al presidente dell’associazione pagante; e quando ad Angelo corsero a dire che un qualcuno aveva quasi fatto fuori un occhio a Magnapolenta, che fungeva da cassiere all’entrata, dovette prima correre a liberarsi del vino ingerito e della pena per la tedeschina, duratagli nel cuore fino a quel momento, e poi darsi da fare e non poco, onde evitare che la festa si tramutasse in una caccia all’uomo, a vista dei tedeschi, ormai al loro ennesimo Prosit!, che proclamavano con chi voleva od era in grado ancora di ascoltarli, un’astratta forma d’integrazione come panacea a tutte le crisi - xenofobia disoccupazione sottoccupazione - anche se in fondo si rendevano conto che la soluzione di tutto il rompicapo era oltre le loro possibilità di comprensione e d’intervento. Solo, cercavano di credere alle loro asserzioni per farsi salva la coscienza. Intervenire, poi, ad una festa italiana era la sola occasione che avessero d’un contatto prolungato con i “Gastarbeiter” e per trascinarvi i propri bambini e farli scatenare con quelli degli “altri”.
A Giovan Battista, Giobatta, dicevano Magnapolenta perché era veneto, faceva il muratore e d’estate, quando poteva, il venditore ambulante di gelati; e Giobatta, che di polenta tanta all’occorrenza ne mangiava da farsi venire meno il fiato, rispondeva tutto placido:
- Meglio che sempre pan, sempre polenta!
E l’affermava in vernacolo, ma poi lo ripeteva in italiano, poiché Giobatta era un brav’uomo, molto rispettoso e gran lavoratore. Tutti gli volevano bene, anche quei diavolacci neri di terroni, che gli avevano affibbiato il nomignolo. Da quando poi tutto il Friuli aveva preso ad ondeggiare, non potendo più difendersi con innalzare a ballerine le terre del Sud, ché ben più disposto a certe danze s’era dimostrato il Friaul nella Valle del Belice, s’intendevano meglio e i loro frizzi erano amichevoli, nella comprensione reciproca di chi s’è trovato con uno stesso guaio in casa, e pur riesce giocarci “un po’ per celia e un po’ per non morir”, come cantava Gianni, che ancor meglio e più volentieri intonava il “Brindisi” dalla “Traviata”, levando il calice.

Così Magnapolenta batteva la mano sulla spalla di un "sudicio" e lo salutava:
- Cio’, Santaninfa!
E l’altro, di rimando, gli occhi antracite che gli ridevano:
- Ciau, Gemona!
Così Giobatta finì per avere due nomignoli, non era poca cosa, ché fu conosciuto sia come “Magnapolenta”, che come “il Gemona”.
Era una pasta d’uomo, dunque, sempre disponibile e s’era messo alla cassa quella sera, rinunciando alle bevute con gli amici ed esponendosi al freddo, che spifferava dal vicino ingresso ad ogni entrata o uscita; nessuno meglio di lui, più fidato, più compagnone, più benvoluto, sì: ma la faccenda del pugno sull’occhio, sferratogli d’improvviso da quell'avvinazzato senza ragione alcuna o provocazione, proprio non riuscì a mandarla giù e gli rose dentro per un bel pezzo; e dovettero per il resto della notte forte tenerlo in parecchi e ubriacarlo di grappa, ché rimanesse cheto.
Angelo le vide arrivare, alte sui tacchi a spillo nelle costose pellicce, distanti e diffidenti, consce dell’effetto, provocato nella sala dal loro avvento. Si concedevano a quel pubblico, come un imberbe pensa debba darsi una dea; e lo si sapeva, lo s’intuiva, lo si leggeva sui loro volti dal maquillage sofisticato, sulle labbra atteggiate a sorriso. Angelo assaporò per qualche istante il gusto di snobbarle, di non andarle a salutare, pur facendo loro intendere di averne notato l’arrivo.
Emilio strizzò l’occhio ad Angelo per avvertirlo. Era tormentato, al solito, dall’emicrania e non aveva nessuna voglia di accentuarla. Tuttavia propose con una smorfia all’amico:
“Andiamo”.
Angelo cercò di resistere, pur sapendo ch’era inutile: egli presiedeva l’organismo, nel consiglio del quale una di quelle signore era stata, seppure a stento, eletta, l’altra era solo un’eminenza grigia, non era, quindi, possibile crogiolarsi nel proposito di ritardare il momento dell’incontro e d’un formale benvenuto: un dovere, che ammetteva al massimo un procedere lento, un indugiare tra i bimbi, con gli amici, che incontrava lungo il tortuoso tragitto: una stretta di mano a uno, una scherzosa schermaglia con altri, una raccomandazione ad un genitore. Ma eccolo sul posto. Accennò un inchino, mormorò una frase asettica, attese una risposta che tardò gli parve un secolo a venire.
Al tavolo la compagnia era al completo: tutta quella parte che al paese avrebbe rappresentato l’élite da farmacia. Ma s’era in emigrazione; conseguentemente il jet-set era formato da persone, che non lavoravano in fabbrica o non vi lavoravano più.
“Ora ci sono capitato dentro e vi sono immerso fino al collo e sarò il capro espiatorio di tutti i loro rancori accumulati nel tempo. Ma si sbagliano di grosso se pensano che io starò al loro gioco. Sono stato eletto alla presidenza del Cenro da lavoratori, sono io stesso un lavoratore e piedi sul collo non me ne mette nessuno”, pensò Angelo.
Il tentativo di snobbarlo, subito avanzato dalle due profumate superdonne, consce del ruolo che l’entourage attribuiva loro e al quale si confacevano, fu immediatamente stroncato da Angelo. I lunghi visi divennero più lunghi; all’attacco, iniziato nient’affatto in sordina, seguì uno scontro verbale tra le donne inviperite e Roberto; breve, ma intenso, al punto da fare ammutolire anche Emilio; ed una piantata in asso, memorabile negli annali della comunità italiana locale, che lasciò nella bocca dei presenti solo rimpianto, amarezza, sapore di fiele; e rinvigorì in diversi cuori la gramigna soffocante del volersi vendicare, del credere di essere dalla parte giusta e di volerci restare ad ogni costo, del ritenere l’altra parte quella perversa, la parte dei cattivi, assolutamente da respingere, da non accettare. Permaneva, in effetti, negli animi la divisione di sempre, la separazione, la convinzione di dovere in futuro respingere qualsiasi assetto alternativo. Mentre dai tavoli vicini partivano e nemmeno troppo soffocati, risa e sberleffi all’indirizzo dei "signori", costoro, come un sol uomo ad a segnale, si levarono, mento in su ed impettiti, e in tutta fretta raggiunsero l’uscita:
“ Questa gente non ci merita”.!
“Hanno avuto il fatto loro”, commentarono i più vicini.
“ Ann’appiso e panne a ‘nu mal chiuvo!- concluse un partenopeo, avallando la decisione del presidente. E la voce dell’accaduto si sparse per il circondario e corse oltre.
“Non c’è cemento che tenga; non esiste colla che possa unire questi benedetti connazionali”, lamentava Francesco. “Quante ne ho provate, quante ne ho inventate! Con quali risultati? Nessuno. Se viene in ufficio un gruppo, lo diserta un altro; se m’invita una famiglia, mi tengono il broncio una mezza dozzina di clan. Io mi domando perché e non riesco a dare risposta, che mi soddisfi”.
“Giusto: c’è sempre dietro tali rifiuti, dietro queste situazioni di margine un perché grosso quanto una montagna. Ma non sempre siamo disposti ad accettare la risposta, che acclarerebbe ogni cosa”, gli rispose don Vincenzo, il missionario.
“Io non capisco, proprio non capisco. Più bene fai loro, peggio è. Davanti ti lisciano, alle spalle t’accoltellano. E sempre ti tagliano i panni addosso. Ma pazienza: è il mestiere che ho scelto, il mio destino”.
“Forse la gente vorrebbe meno paternalismo e più spirito di servizio”.
“Come, come, come sarebbe a dire? Cosa intende dire?”.
“Ma lei m’intende. È inutile che le spieghi”.
“Mi spieghi, invece; mi spieghi come a uno che fa del bene gli si debba rivoltare contro proprio il beneficiato”.
“Ecco: lei fa del bene per professione. È, cioè, pagato per produrre assistenza. Ma la gente vorrebbe sentir parlare di diritti, non d’assistenza; vorrebbe che lei prestasse un servizio come corrispettivo dei loro diritti”.
“Ma... ma: il mondo alla rovescia!”.
“Il mondo per diritto, e mi scusi il gioco di parole. Alla rovescia è proprio il modo in cui si porta avanti quell’ufficio, che dovrebbe essere esplicato come servizio, non come concessione”.
“Non sono forse io servizievole? E paziente, molto; e serio e professionale nell’adempimento dei miei compiti?”.
“Lei è servizievole e tutto il resto, in ordine alle sue mansioni assistenziali. Ma il concetto di servizio fa a botte con il concetto di servizievole. Al primo sottostà il diritto; sotto l’altro si nasconde il servo, attenzione! “, concluse don Vincenzo.
(continua).



Vito D’Adamo torrese doc dalla Germania


 
 

ID: 8344  Intervento da: la redazione  - Email: info@torreomnia.it  - Data: sabato 15 marzo 2008 Ore: 23:49


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ID: 8316  Intervento da: Vito D'Adamo  - Email: Viad37@online.de  - Data: domenica 9 marzo 2008 Ore: 22:09


ITALIANI IN VISITA ALLA FORESTA NERA






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