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Argomento presente: « 3 CONCHIGLIE C. Ad. Ciavolino SETTE »
ID: 8161  Discussione: 3 CONCHIGLIE C. Ad. Ciavolino SETTE

Autore: Ciro Adrian Ciavolino  - Email: ciroadrian@libero.it  - Scritto o aggiornato: sabato 12 dicembre 2015 Ore: 18:25


CONCHIGLIE
di Ciro Adrian Ciavolino

PASTORI

Longtemps, je me suis couchéde bonne heure.
MARCEL PROUST

Alla ricerca del tempo perduto. Il tempo è senza tempo, se il tempo esiste soltanto quando è trascorso. Non ha spazio se non nell’attimo che è, e poi già non è più. Qualcuno lo ha detto, un filosofo, che il tempo non esiste, se non conosciamo il tempo dell’attimo che lo racchiude. Natale non sai quando comincia, sai che c’è stato un Natale quando è finito, quando si chiude nella credenza il servizio buono, si calano gli addobbi, le luci smettono di baluginare con i loro ritmi nei nostri occhi e cadono come stelle nel buio della scatola di cartone, nel loro intestinale groviglio elettrico, e i pastori si allineano in posa orizzontale in un cassetto, dentro un privato parco di catalessi,un sonno lungo un anno, quando molte lune scriveranno un arco di luce sul golfo prima del loro risveglio.

Nella foto a lato S. Biagio dei Librai tanti anni fa

Natale non sai quando comincia. Un uomo cammina sottobraccio ai pensieri suoi per le strade della città, arpeggia dita nelle tasche, per provare la sua esistenza che lo divide da persone affaccendate a comprar di tutto, o per frugare nel suo passato, la sera comincia a vestirlo di solitudine in una vigilia di Natale che non lo vedrà rinascere, la scena del suo presepe ha un fondale blu cupo, le stelle argentate mostrano le pieghe della carta conservata un anno per ricordargli le rughe accumulate sulla sua faccia, i suoi pastori sono reduci da guerre infinite, da cadute continue come le sue, sa di tornare a casa con le mani prive di certezze, davanti a un presepe ingeneroso, pieno di figurine mutilate o risarcite di qualche arto con un tocco di colla, fugge una città ostile che nulla ha diviso con lui se non lo squarcio irritante di brutte luminarie elargite dall’alto del castello, un falò di benessere che non colma ingiustizie, egli trasmigra con tutta l’anima dentro i suoi pastori, ne sceglie uno e lo adotta, diventa pastore egli stesso, scopre muoversi come quella figurina di terracotta colorata di tinte già sbiadite, guarda negli occhi del suo pastore, quegli occhi comunque neri, dipinti a punta di pennello chiamato proprio pennello a cecauocchie; egli può essere il pescatore, il macellaio, il falegname, non importa, se il suo cuore è un impasto di argilla fremente,s’acquieterà con il sonno se il sonno verrà. Allora sceglie di essere Benino.

A Natale si corica presto la sera. I pastori più belli del tempo dei pastori miei furono quelli sommariamente modellati dal pastoraro sulle grariatelle della ciucciara, dove Antonio Abbagnano si sedette a scrivere, ritrovando insieme alla mia pittura le comete di carta colorata, erano pastori eleganti come carte napoletane da gioco, improbabili e fragili, io ero quasi certo che avessero un’anima, e che venivano da quelle scale con passo leggero fino alla mia casa, portavano messaggi, parlavano fra di loro, avevano quasi sempre le braccia aperte e mani palmate, sembrava volessero abbracciare ognuno il suo vicino. E me. Con il loro sguardo attonito, quei due punti neri sempre fissi nei miei mi hanno raccontato le storie che un giorno avrei cominciato a scrivere, e le ho scritte, su tutte le pagine che mi hanno messo sul tavolo,in questa città senza l’osteria, senza la lavandaia, senza la macelleria, senza la bottega del falegname, senza il fiume di carta stagnola, senza il pescatore, senza il cacciatore, senza la banda turca, senza re magi, senza Benino, senza angeli, senza stella cometa, senza grotta. Senza il Bambino Gesù.

Una città, graffiata, sporcata, violentata, imbrattata da segni senza senso, gonfia di nequizie, dove il morto ammazzato per terra sotto gli occhi dei nostri fanciulli è una normale giornaliera vicenda, dove molti hanno chiuso gli usci alle proprie spalle e li hanno serrati a chiave, una città senza meta, come un vagone marcio su un binario morto intorno al quale cresce la malerba, e non partirà mai più.
La stazione ha perduto i suoi ferrovieri, è una città senza destinazione, Paolo Conte aveva ragione di scrivere e cantare “…ma il treno dei desideri, dei miei pensieri all’incontrario va…”, aveva proprio ragione Gabriele D’Annunzio quando scrisse “ah, perché non son io co’ miei pastori”. Sono qui con i pastori miei. Per molto tempo mi sono coricato presto la sera.



Ciro Adrian Ciavolino


 
 

ID: 17069  Intervento da: la redazione  - Email: info@torreomnia.it  - Data: sabato 12 dicembre 2015 Ore: 18:25

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ID: 16649  Intervento da: la redazione  - Email: info@torreomnia.it  - Data: giovedì 13 novembre 2014 Ore: 02:00

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ID: 8163  Intervento da: Ciro Adrian Ciavolino  - Email: ciroadrianc@libero.it  - Data: domenica 3 febbraio 2008 Ore: 04:36

CONCHIGLIE di Ciro Adrian Ciavolino

CONCHIGLIE
di Ciro Adrian Ciavolino


ELOGIO ALLA POVERTA’

MATTINO
Sono davanti a una tomba di persona cara, pietra scura, semplice, quasi severa, fiori nella giusta misura. Alle mie spalle, posta da qualcuno che non ha potuto permettersi di più, v’è una lastra di marmo trovata da qualche parte, o donata da un marmista, senza rialzi, è poggiata sulla terra di defunto senza identità; sul marmo bucato da precedente uso e nome, fiori di plastica raccattati da qualche parte, salvati al bidone della spazzatura.
È il camposanto ’i vascio, il camposanto di chi non pretende i viali centrali, dove è prossimo il suono delle onde di libeccio che si frangono sulle scogliere della spiaggia del Cavaliere, qui è più facile che un gabbiano emetta un grido come di dolore o di saluto. Ha fatto del suo meglio chi ha badato a una copertura così, vuol dire che la mia persona cara può parlare con questa, sconosciuta, come in vita faceva, dialogando con tutti, facendosi voler bene.
Non farà di certo storie, come qualcuno che, a pochi metri da noi, riportando alla memoria mia la favola di Fedro, quella del lupo che pur trovandosi a monte del ruscello rimproverava all’agnello di sporcargli l’acqua, lamentava come un timido rivolo nostro lo turbasse passando davanti alla sua parata di marmi lucenti variamente modellati, cristalli e chin-caglierie varie. Poco più in alto, dietro l’abside della chiesa, e con più vista del mare, c’è l’ossario comunale, un cippo austero di pietra vesuviana. In quella fossa come viscere del Vesuvio, un magma di ossa. In quel paradiso dei deboli e dei poveri mia madre ha fatto cadere i resti di otto infanti che, nascendo io per ultimo, mai conobbi. Mani gentili di cuori ricchi e umili accendono ceri.

MEZZOGIORNO

L’odore del sole o della pioggia si accompagna a transiti di profumi di cucina, in un gioco di pianerottoli e di terrazzi s’intrecciano e bisticciano biglietti da visita dei pranzi di mezzogiorno, molti usci sono aperti e se non per le scale si presentano percorrendo logge e balconi. Una musica accompagna il passo della vicina che porta un assaggio, la spira leggera è come uno dei sette veli della danza di Salomè, ti avvolge in una sensuale mistica del gusto, è una condivisione di emozioni della bocca, un respiro collettivo dei doni della natura, fagioli o ragù, riso o zucchine, cappuccia o piselli, frittelle di mare o melanzane, un inno alle gioie intime, in una pietanza è tutta la cerimonia tra mura intonacate a calce, una santa messa o un cenacolo, prendete e mangiatene tutti, questo ho cucinato e questo vi offro, basterà anche per la sera.
S’ode il disco frusciare sul radiogrammofono dell’inquilina che se lo può permettere, apre finestre per darcene una fetta sonora, ci portano a certi pensieri gli stornelli dispettosi di Carlo Buti e Emilia Veldes, gira sul piatto il cane della Voce del Padrone, qualcuna anche se lontana ci fa sapere che conosce le parole a memoria e accompagna il duetto stonando ogni tanto o affrontando una scala di note irraggiungibili affogandole nelle strettoie del collo, si dà un tono riavviando una ciocca di capelli neri che trafigge la guancia, sbatte lo sportello di una dispensa per colmare la caduta di tono. Sta cucinando pasta e patate.

POMERIGGIO

Filo di comete, di aquiloni perduti nei cavi aerei delle lampade stradali, grovigli di cotone tricolore che ci rammentano la patria, palpati nelle nostre tasche, è tutto il patrimonio di un pomeriggio qualunque di una stagione calda che si allontana, con le nuvole intente a disegnare tramonti come quelli di El Greco. Transitano nell’aria voci di venditori di colori e illusioni, more, gelse, lupini, angurie, pullanghelle, siamo distratti da pugni di cotone stremato dall’aria e dalle annodature, ecco una voce come di cantilena araba, un miagolio di gatto innamorato, una voce stirata quanto tutta la strada, si stende come un lungo tappeto musicale, allora corriamo verso il trionfo fumante delle spighe di granturco, mentre passa il mendicante che sa di poter bussare alle porte una volta alla settimana, passa la connetta curva di molti anni che vende giornali decapitati della testata, anch’ella una voce familiare che s’annuncia da lontano.
Sulle pagine della Tribuna Illustrata, antica almeno di un mese, i miei vecchi quasi analfabeti perdevano i loro occhi e imparavano a conoscere il mondo. I miei nipotini fanno volare agili dita su certe tastiere.

SERA

Le mani nelle tasche di un cappotto che ci mostra le maniche ormai corte per le nostre braccia cercano castagne appena sollevate dalle fiamme del loro domestico inferno, c’inventiamo falò di rara carta o fuscelli, sulle nostre teste i pipistrelli non trovano pace e cercano sotto le lampade temerari insetti attratti dalla luce opaca di polvere e ragnatele. Rintronano voci tra palazzi con androni immensi pieni di archi, il vento entra ed esce, corre nei vicoli rispettando il suo calendario, si presenta livido di tramontana e sibila negli arabeschi delle inferriate.
All’opera dei pupi sono stato ancora una volta vittorioso, il mio guerriero ha vinto duellando con orde di mulignanelle, i torvi e scuri musulmani entravano dalle quinte del teatrino baldanzosi gridando incomprensibili motti di battaglia, ma l’aureo condottiero Orlando li ammucchiava sulle tavole dell’esiguo palcoscenico, scrivendo per i posteri le sue vittorie roteando la spada nell’aria della sera piena di fumo, di male parole, di passioni cavalleresche e di amor cortese.Giovani di notte duellano sui muri con bombolette di vernice.



Ciro Adrian Diavolino



ID: 8162  Intervento da: Ciro Adrian Ciavolino  - Email: ciroadrianc@libero.it  - Data: domenica 3 febbraio 2008 Ore: 03:03

CONCHIGLIE di Ciro Adrian Ciavolino


Pigia la freccia per l'ascolto di 'Lacreme napulitane" introdotta con “amarcore” cantata da Mario Merola. Regola il volume

CONCHIGLIE di Ciro Adrian Ciavolino


Mm’avite scritto ch’Assuntulella chiama
chi ll’ha lassata e sta luntana ancora…
Che v’aggi’’a dì? Si ‘e figlie vonno ‘a mamma,
facìtela turnà chella “signora”.
Io no, nun torno…mme ne resto fore
E resto a faticà pe’ tuttuquante.
I’, c’aggio perzo patria, casa e onore,
i’ so’ carne ‘e maciello: So’ emigrante!
E nce ne costa lacreme st’America a nuje Napulitane!...
Pe’ nuje ca ce chiagnimmo ‘o cielo ‘e Napule,
comm’è amaro stu ppane!
Bovio - Bongiovanni: Lacreme napulitane

CATENE

Qualcosa ci distingueva, al taschino della giacca non mettevamo il fazzoletto piegato a punta in giù fermato dalla penna stilografica, le nostre orecchie erano già lontane dalla struggente Amapola, incombeva Natalino Otto, qualcuno da tempo sgambettava ai ritmi di Glenn Miller, conquistammo il doppio petto blu, i tacchi divennero più alti, ci sedevamo sull’esausto velluto di certi troni di legno, il lustrascarpe batteva il palmo della mano sulla sua cassetta, era veramente domenica. I dischi erano pesanti, bastavano dieci dischi per tormentare le nostre esili braccia in tragitti infiniti, era la nostra quota di musica verso qualche compiacente sala da pranzo che potesse permettere asilo al tavolo centrale in un angolo, oppure in altra stanza se ve n’era.

Nella foto a lato etichetta dei primi enormi dischi in vinile a 78 giri

Il traballante radiogrammofono s’incantava talvolta su mezza frase, i solchi di quegli orribili fox trot si incrociavano come i binari della stazione centrale, la musica non ripartiva, qualcuno approfittava per respirare aria pulita fuori il balcone, qualche ragazza di miglior prestanza fisica era assediata da occhi lascivi per le nostre esigue prospettive di benessere carnale. A Natale era obbligatoria La Cantata dei Pastori, Belfagor irrompeva pieno di catene sulle tavole dell’Oratorio, “Spalancatevi abissi, or che ne sorge dal regno delle pene il Principe maggior ch’abbia l’inferno…S’alzi il mar, tremi il ciel, paventi il mondo…“ declamava con voce cavernosa, in un tremolìo di deboli luci nel fragore di lamiere per simulare fulmini e il battere di piedi per far tuoni, tutti in attesa di una apparizione, l’Arcangelo Gabriele, scelto tra le ragazze più belle, erano preferite le bionde, non scendeva dall’alto, fremeva dietro la quinta di carta, era appesantito da ali di cartone, bianche di ovatta e tulle, alzava al cielo una spada di legno dipinta d’argento, nel fulgore a piena ribalta di luci bianche che diradavano le tenebre, Disserratevi o Cieli, or che discende dalle sovrane sfere il para-ninfo delle eterne nozze…

Nella foto a lato la locandina estera di di "Catene"

Ma una luce più forte all’orizzonte doveva giungere a noi,una storia di isso, essa e ‘o malamente, ecco che all’angolo di via Gradoni e Cancelli veniva alzata una plancia trionfante, era il manifesto di Catene, con Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson.
La città si unì, come nessuna rivoluzione avrebbe potuto, in un unico generale abbraccio d’amore e di “lacreme napulitane”, le passioni di quei due calarono nei nostri cuori, le mura respiravano desiderio di giustizia, pareva una città pervasa da unanime sentimento, il riscatto dell’amore e della verità, sui baveri del nostro vestito buono calò una lacrima o molte lacrime dentro e fuori del Cinema Iris dal quale uscivamo ricchi di buoni pensieri e di sudore, accompagnati dal mutuo soccorso di pulci che venivano offerte a quelli che erano più prodighi di sangue dolce, si producevano in tripli salti mortali da uomo a uomo fino a quando non trovavano la giusta epidermide per un meritato riposo, e suggere tranquille, accompagnando fino a casa l’involontario donatore.

Ma prima di giungere alla porta del cinema non mancammo di volgere ancora uno sguardo al generoso anche se estenuato seno della cassiera che si ergeva come un busto del Canova dal suo banco, fresca di permanente e di aggressiva lavanda, fumava con voluttà Macedonia Extra offerte da più benestanti e audaci clienti, intuiva sospettabili pensieri nei nostri sguardi obliqui, seppure affranti dalla commozione che la vicenda aveva suscitato in giovani, mamme e criature, e innocenti vegliarde spettatrici che mancavano da una sala cinematografica dall’epoca di Francesca Bertini.
I protagonisti, travolti dal successo popolare, ancora interpretavano dolorose appassionate vicende sui nostri schermi. Noi continuammo a portare dischi pesanti da una casa all’altra, qualche parente tornava dall’America intontito di lavoro e di dollari, ci raccontava della televisione e del subway, il nostro vestito blu sbiadiva al sole di altre primavere, cominciammo a provare balli diversi. O forse non ballammo più



Ciro Adrian Ciavolino



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