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Argomento presente: « 3 CONCHIGLIE di C. Ad. Ciavolino TRE »
ID: 7937  Discussione: 3 CONCHIGLIE di C. Ad. Ciavolino TRE

Autore: Ciro Adrian Ciavolino  - Email: ciroadrianc@libero.it  - Scritto o aggiornato: giovedì 13 novembre 2014 Ore: 01:58



Pigia la freccia e regola il volume per l'ascolto di "Piererotta" del 1940 del torrese Raimir

CONCHIGLIE
di Ciro Adrian Ciavolino


Mattiniero come me, un buon signore, uomo di lettere, di scuola, s’accosta con l’auto alla siepe del bar dove m’attardo per alcuni minuti sfogliando il quotidiano che leggo da una vita, mi
fa sporgere per avvicinarmi a lui e mi chiede cosa è il Rosso Quinacridone, o la Terra di Cassel, colori citati nell’ultimo scritto per Conchiglie, discorrendo delle comete. Gli rispondo che ho citato colori poco conosciuti proprio perché qualcuno potesse farmi, come egli stava facendo, tale domanda e che sarebbe stato facile dire, che so, ocra gialla, rosso porpora o verde smeraldo.
E sempre da maestro, ancorché direttore di scuola, suggerisce al piccolo alunno scrittore quale sono, che avrei potuto e dovuto citare le ricchielle. Poi va via perché deve andare via. Ci penso, e penso anche che avrei potuto scrivere un libro intero sull’argomento, ma appollaiati sulle mie spalle ci sono i padroni del vapore, quelli che hanno promosso questo giornale, mi ricordano che dovrei essere più breve, poi si pentono, si beano della mia scrittura e dicono scrivi quanto vuoi tu.
Ora devo parlare delle ricchielle, devo rispettare il richiamo del maestro.
Quelle comete che mandavo nel cielo dall’àstico, quel mio aereo hortus conclusus, erano spesso nervose, come le due vecchiette di Via Gradoni e Canali che le confezionavano, non erano equilibrate e spesso pendevano da una parte, se non facevano, proprio pazze, giravolte e capriole fino a frantumarsi su altri àstichi o nei giardini. La pendenza doveva essere corretta apponendo all’angolo opposto al lato, come dire, zoppo, una striscia di carta. Spesso il delicato peso non era adatto, si riportava indietro il velivolo e si provava molte volte fino a quando la cometa non trovava il giusto assetto di volo. Era la ricchiella, orecchio.
Ma altri orpelli corredavano la cometa al momento del suo completo trionfo, sul filo che l’aveva portata in alto si infilavano, quando il nostro gliuòmmero s’era assottigliato perché aveva ormai sciolto tutto il filo, dei pezzi di carta rotondi con un buco in mezzo e che andavano verso la nostra apoteosi.

Erano i telegrammi. Correvano verso la nostra stella colorata in volo, la nostra timida cometa pazzerella e malinconica al cospetto dei cometoni, i pachidermi dell’aria, con il loro incedere lento, costruiti con carta pesante, oleata, dei quali si sapeva per voce popolare chi ne fossero i proprietari, erano nel cielo con una identità araldica, severi come troni con un re assiso a legiferare sugli spazi celesti, agghindati di nastri colorati come Limousine alla Madonna di Montevergine o alla Festa della Madonna ‘a Neve, che Anna mi ha portato a vedere in una tiepida mattina di ottobre.
Ma se di queste cose io vado scrivendo, devo rendere omaggio alla pavida modesta cometella, la più piccola che avemmo, di un solo colore e senza il vezzo di una frangia e che impazziva appena incocciava in un alito di vento, aveva vita breve, nasceva e moriva quasi subito, una morte infantile, insieme a tante altre, una aerea strage degli innocenti sotto le daghe di un Erode eolico, la sua distanza dalla terra non consumava neanche una matassina di quel fragile cotone tricolore. La nostra cometella aveva anche una sorella povera, quella che costruimo con un foglio di quaderno, sottraendo alla cultura e alla storia una pagina che avrebbe meritato la nostra scrittura, le nostre mazzarelle e roccocò, una pagina di quaderno ridotta a quadrato avendo l’accortezza che il superfluo tagliato dal rettangolo divenisse, non reciso dalla pagina, la coda stessa di quella cometella che s’appendeva, senza fare le ciappe, ad un filo di cotone rubato dalla macchina per cucire Singer, sul cui pedale esercitammo le nostre esili gambe.
La lasciammo cadere verso la strada, dai ferri del balcone, tentammo una corsa nel vicolo, ma non andò mai in alto, accompagnava verso la terra i nostri occhi delusi, mentre planavano sulle nostre teste i cometoni, aquile multicolori che volteggiavano sfregiandoci con la loro austera presuntuosa presenza, fortezze volanti, macchine da guerra che terrorizzavano
i nostri cieli e le nostre notti, quando sognavamo di levitare come in un quadro di Marc Chagall, quello che fece volare Modugno nel blu vestito di blu.
Ma a quel tempo eravamo già cresciuti e non potevamo fare altro che volare con i nostri colori e con la nostra penna, come continuiamo a fare, in quest’angolo di cielo.
Chissà cosa ne pensa ora il buon Gioacchino



AQUILONI:




Ciro Adrian Ciavolino

 
 

ID: 16645  Intervento da: la redazione  - Email: info@torreomnia.it  - Data: giovedì 13 novembre 2014 Ore: 01:58

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ID: 7942  Intervento da: Ciro Adrian Ciavolino  - Email: ciroadrianc@libero.it  - Data: sabato 22 dicembre 2007 Ore: 20:37

CONCHIGLIE di Ciro Adrian Ciavolino
CONCHIGLIE di Ciro Adr. Ciavolino

Non so dove i gabbiani abbiano il nido,
ove trovino pace.
Io son come loro,
in perpetuo volo.
La vita la sfioro com’essi l’acqua ad acciuffare il cibo.
E come forse anch’essi amo la quiete,
la gran quiete marina,
ma il mio destino è vivere
balenando in burrasca.
Vincenzo Cardarelli : “Gabbiani”

Chi ha mai visto un nido di gabbiani. Trovarlo, forse su grandi scogliere, andare, che so, sulle bianche scogliere di Dover, lì di certo ve ne sono. O altrove. O meglio non andare da nessuna parte, non trovarlo, non vederlo mai, come Cardarelli, lasciarsi nel mistero di questi gabbiani tutti uguali, identico volo, quasi sempre bianchi con ali dalle punte nere, come bruciate al sole, le specie di quest’uccello sono tante e con bellissime denominazioni latine, non le diciamo, non le conosciamo, va bene così. Non facciamo niente.

Immagine a lato: I gabbiani “vesuviani”


Dei gabbiani conosciamo il volo, e quelle sottili grida, quello squittìo lacerante, improvviso, come di morte. Io e mio figlio provvediamo d’estate, al largo, quando usciamo con la barca per pescare, davanti alla città, nei grandi silenzi e nei larghi azzurri sfatti nella foschia del mattino, con la presenza imponente del Vesuvio inzuppato nel viola marcio, provvediamo, dicevo, a fornir di cibo questi inquieti volatili che ci guardano speranzosi e sospettosi, aspettando che qualche pesce ci sfugga; ma noi siamo generosi, la nostra pesca è una storia piena di cavalieri toscani. Per chi di pesca non s’intende, il cavaliere toscano non è commestibile, forse perché pieno di spine o di sapore inaccettabile, il cavaliere che ha
bocca larga fa festa con le nostre esche, non vuol salire a galla, s’attorciglia alla lenza rendendola spesso inservibile, e si gonfia come un rospo appena esce all’aria, abituato com’è a profonde pressioni, emette un sibilo rauco, lo lanciamo lontano dalla barca e i gabbiani si impegnano in una gara di velocità per afferrarlo a pelo d’acqua, vincono i prepotenti. Cavalieri toscani, bel nome d’avventura, d’amor cortese: perché li chiamano così, non so, forse per l’aspetto, che sembra un’armatura.
Immagine a lato: Gabbiani ed aquiloni sono poesia vivente

I gabbiani del porto si nutrirono per anni sul molo di ponente, saziandosi di grano, in quello spazio sul quale gli imponenti molini di Calastro muovevano congegni per divorare grano da grosse chiatte che stazionavano sotto un casotto di legno che forse conteneva motori per quel lavoro, un braccio lungo succhiava dalle stive il grano, arrivava al mulino che aveva, come ancora si può vedere, un sistema di cilindri, una specie di aereo tapis roulant, per portare al mare i sacchi di grano ch’era stato macinato. Quella macchina che succhiava il grano delle chiatte noi la chiamavamo la lopa, identificandola come lupa, per la sua voracità. Altre bocche di lope avrebbero poi divorato tutto il mulino, tranne le pietre, ma questa è un’altra storia.
Ora una colonia di gabbiani se ne è venuta da queste parti, sui terrazzi senza pettorale dei palazzi stile niente, sul bell’edificio della Scuola Giovanni Mazza, sul tetto a padiglione dell’ex Palestra Gil, Gioventù Italiana del Littorio, abbandonata al suo destino nel rigoroso ordine architettonico del tempo.


Volo di gabbiani: uno spettacolo della natura


Fui tra quelli che trent’anni fa tentavano di salvarla, chiedendo soccorso a quelli che possedevano le chiavi del Palazzo del Potere, superbo sulla sua rocca, poteva divenire un centro polivalente con cento milioni soltanto, di lire, restaurandola, quando si poteva ancora intervenire ma è a un passo dal crollo e vorrei vederla cadere per conservare in un’urna qualche pietra, a ricordo di quelli che dall’ottocento in poi fino al millenovecentoquaranta fecero bella questa città, nell’attesa che un’orda di palazzinari ingoiasse, gabbiani anch’essi, lope anch’essi, molte architetture di pregio che potevano, dovevano, essere salvate e custodite.
I gabbiani vivono ora sui tetti e le cimase qui intorno, un buon signore lanciava dal suo balcone tozzi di pane per evitare che assalissero colombi, divorandoli. Ma il gabbiano fa il gabbiano. Divora.
E questo non è bello da vedere. Non ci resta che andare di pomeriggio sulla banchina di levante, aspettare il rientro delle paranze, e vedere stormi di gabbiani festanti che le seguono, come una scia di cometa, come una scena di matrimonio, come un velo di sposa, libero nel vento.



Ciro Adrian Ciavolino



ID: 7939  Intervento da: Ciro Adrian Ciavolino  - Email: ciroadrianc@libero.it  - Data: sabato 22 dicembre 2007 Ore: 15:30

CONCHIGLIE di Ciro Adrian Ciavolino



CONCHIGLIE
di Ciro Adrian Ciavolino


Qualcuno un giro per lapidi pur fece, ricordando quelle che segnarono i tempi di certe persone importanti che qui vennero per trovarvi quiete, qualche uomo di lettere, qualche notabile
della politica o della giustizia. O del clero. Molte lapidi trovarono alloggio su pilastri o facciate di chiese. L’ultima, forse, fu quella dedicata a Papa Giovanni Paolo II°, sul lato di un palazzo di Via dei Comizi, che presto per intemperie s’arricchì di ruggine e di sporcizia, confondendosi anche con un aggressivo tabellone malamente scritto che elencava prezzi di materiale per edilizia e tubature per l’acqua.

Immagine a lato: Nicolò Zingarelli musicista che visse a Torre del Greco, da non confondersi con Nicolò Zingarelli filologo del vocabolario omonimo
pdf/ZingarelliAgonia


Le lapidi commemorative segnano il tempo, dicevo, si passa davanti a queste lastre con la più impavida indifferenza, lasciate soltanto alla buona penna di qualche attento osservatore di storia nostra, custodendone la memoria in libri che raccontano la città. Trovarono buona ospitalità, questi signori, per l’aria salubre e per la quiete che questo fortunato lembo di terra poteva offrire, il mare, le pinete, l’aria dolce, i silenzi, un Vesuvio protettivo dai gelidi venti del nord; luoghi ameni, come si dice, che ancora è possibile scoprire se si va oltre questo perimetro urbano e si corre per sperduti sentieri, che ora si propongono come contrade storiche che di storia nulla ebbero in passato e non ne avrebbero ovviamente nel futuro, celebrandone anche tenzoni che mai avvennero, ma che si inventano per motivi che qui non diciamo ma che è facile supporre, motivi di greppia, o per vanità di taluni che a forza vogliono apparire, vestendosi anche di improbabili costumi.
Sulla facciata del palazzo dove ragazzina mia moglie abitava, e dove ora trascorro la migliore e maggior parte del mio tempo, per il lavoro che occupa la mia vita, c’è una lapide: In questa casa il 5 maggio 1837 di anni 85 e giorni trenta morì Nicolò Zingarelli, principe della musica sacra e profana, il Municipio a ricordo, 5 maggio 1883. Se ne ricordarono quarantasei anni dopo. Non potremo mai sapere se proprio in queste stanze albergava, su questa loggia, arengario quasi; opino che egli con lo sguardo potesse andare tra ponente e settentrione, correndo verso declivi del Vesuvio e trovando pace sul violaverde di quelle balze, seguendo i disegni aerei del fumo, sempre variamente disposti per il vento che lassù vi spira, e immaginando note da lasciare su spartiti che avrei voluto trovare se tempi più vicini a
lui avessi vissuto.
Immagine a lato: uno spartito del grande musicista vesuviano vissuto a Torre del Greco


La lapide a Nicolò Zingarelli è a sinistra della austera nobile facciata del palazzo: uguale spazio ci sarebbe a destra, dove presuntuosamente vorrei che i posteri ne mettessero una per ricordarmi a quelli che verranno per queste strade, almeno se non per quello che ho dipinto, per i fiumi di parole fatti scorrere per quasi mezzo secolo sulle pagine di questo paese alla deriva, fiumi nei quali mai navigarono quelli che possedevano e continuano a possedere l’esercizio del potere, nel modo più becero possibile, ignorando anche ciò che da esperti, perdonate, abbiamo saputo dire. La lapide per me è una iperbole, diciamolo, un gioco:
chi potrà mai ricordare un povero artista che spese il suo tempo a difendere, invano, quello che altri non hanno saputo e voluto difendere, alterando vestigia, distruggendo dimore di alto
significato artistico, pensando soltanto ad affondare le mani nelle madie che il potere offriva ed offre ancora, nell’impasto molle come i loro cervelli e le loro coscienze, trascinandoci in una decadenza indecorosa, in un lerciume intellettuale che avrebbe fatto fuggire Nicolò Zingarelli altrove, per non avere sotto gli occhi questo mercato sottile che vende e compra la propria città, tenuto da mercanti della politica, contrabbandieri della cultura, da plagiari di arte.

Immagine a lato: L'uomo non vive altro tempo che il presente; il resto o lo ha già vissuto o non sa se lo vivrà. (A. Cellio)


La lapide per me è una iperbole, dicevo. E qualche artista vero lo conobbi, che la meriterebbe. Andava per le nostre marine e le nostre campagne e nessuno meglio di lui seppe coglierne le atmosfere, la luce, i silenzi, da artista vero viveva, e non come altri avventurieri di opere artificiose, senza emozioni. Era Salvatore D’Amato, intimista, a suo modo un vero poeta della pittura, sincero, accompagnato dai suoi oggetti semplici che divenivano sommesse nature morte, i suoi paesaggi un canto alto alla magìa dell’aria vesuviana. Nessuno se ne ricorda. Bene ha fatto Cuccurullo Elite disponendo fari sul negozio nel lato omologo a quello di Zingarelli, sulla facciata di questo palazzo in Via Roma numero quattro, in modo che io non corra alcun rischio di lapidi.
Se non quella orizzontale. Che poi tocca a tutti.



Ciro Adrian Ciavolino



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