Rivista Marittima - Flavio Russo - L'oro rosso di Torre - Pag. 30

                Allorquando i disgraziati pescatori tabarchini rientrarono alle loro case, trovandole completamente vuote  e devastate, compresero immediatamente l'accaduto. In buona parte si recarono mestamente a Tunisi e chiesero al bey di voler condividere la schiavitù dei familiari pur di non esserne separati, in attesa magari di un riscatto. L'offerta ricevette accoglienza, e per molti fu così possibile, se non altro, ricostituire una parvenza di normalità, sempre però sottoposta alla discrezionalità del bey, o di quanti altri disponessero dei loro congiunti. I catturati ammontavano ad 840 individui, per lo più, come citato, donne e ragazzi, ai quali si andarono ad aggiungere in un rapporto anomalo equiparabile alla condizione classica dei liberti i capi famiglia.
                L'apparentemente umanitaria concessione elargita dal bey non scaturiva da una sua improbabile sensibilità, ma da un facile abietto calcolo.Trattandosi infatti di un grosso nucleo sociale, di cui sicuramente le nazioni occidentali si sarebbero fatte carico del riscatto, la rilevanza dell'onere economico e la complessità delle mediazioni lasciavano, per consumata esperienza, presumere tempi alquanto lunghi per la liberazione. In tale intervallo molti di quei disgraziati schiavi sarebbero certamente morti, e per i tradizionali maltrattamenti e per le ricorrenti epidemie, decurtando così vistosamente l'utile dell'impresa. La riunificazione dei nuclei fa-miliari avrebbe,pertanto,sopperito con nuove nasci­te alla perdita, consentendo in definitiva una sostanziale parità di bilancio!
             La notizia della efferata cattura produsse una immensa costernazione nell'intero contesto civile cristiano, ed in particolare presso Carlo Emanuele III, che si reputava ormai quasi il leggittimo sovrano di quei nuovi suoi potenziali sudditi.Come supposto dal bey i contatti per il riscatto globale vennero prontamente avviati,ma si rilevarono, altrettanto rapidamente, di improba difficoltà per le astronomiche pretese tunisine: la cifra richiesta ammontava a ben 50.000 zecchini! Dopo quasi otto anni al fine di imprimere una maggiore solerzia alla dolorosa vicenda il sovrano incaricò un suo comandante della Regia Marina, don Giovanni Porcile,di recarsi personalmente a Tunisi dove vantava solide ed influenti conoscenze onde risolvere nella migliore delle maniere il difficilissimo riscatto. Così relazionava intorno al 1750 l'accorto mediatore:

     "Eccellenza

          Il Conte Porcile di S.Antiochio umilmente rappresenta alla Ecc.v. come sino all'anno 1749 che ebbe l'onore di entrare a servizio di S.M. in qualità di Capitan Guardiacoste di questo Regno al comando di uno sciabecco e due galeotte, ebbe la sorte di passare in Torino, e dal Pio e benigno Sovrano Carlo Emanuele di sempre graziosa Maestà fu destinato a passare in Tunis per redimere il popolo di Tabarca, suoi parenti e compatrioti, affine di condurli ad abitare con loro nell'Isola di S.Pietro e ne fu appoggiata la trattativa al fu Marchese Fontana Ministro Giubilato molto caritatevole ebbe la sorte di combinare un trattato con questo Bey in cambio di tanti schiavi Maomettani a due per cristiano che si  degnò S.M. a tempo la Sua Grande Carità concedergliene N.192 che disarmò sue Galere,e per gli rimanenti fu spedito l'oratore a Genova, Firenze, Roma, Napoli e Malta  avendone ottenuto con fatica considerabile. 

     Affezionato il supplicante a tanta grande opera non ha mai mancato di impiegarsi per coadiuvare di tempo in tempo delle trattative per diversi poveri Cristiani, Schiavi sì regnicoli che forestieri avendo avuto da 18 anni a questa parte l'amicizia e corrispondenza  del Signor Agostino Maria Gorgoglione Genovese, medico di quel Bey, molto affetto e stimato dal suo padrone, al quale gli è stata appoggiata dai rispettivi Vicerè la trattativa del riscatto e con cambio dei nostri schaivi Sardi che con tutta bontà ed impegno ha sempre riuscito senza veruno interesse, come anche in altri affari del Governo." (92). 

            Grazie agli sforzi del Porcile un primo contingente di 133 tabarchini potè essere liberato. Avviate positivamente le trattative non mancarono successive ulteriori liberazioni, nel 1753 ed in particolare nel 1755, non sempre però di soli tabarchini, ma anche di schiavi provenienti da altri stati italiani. Ad interrompere la ormai proficua corrispondenza intervenne la guerra tra Algeri e Tunisi nel 1756, originata tra l'altro, dalla mancata corresponsione,nei trascorsi 14 anni,del tributo che Tabarca assicurava alla prima città,non indennizzata in nessun modo dal bey tunisino, artefice e beneficiario della conquista. Le sorti del conflitto si risolsero con una effimera vittoria di Algeri e l'umiliante esecuzione dello sconfitto bey:ma per i tabarchini ciò si trasformò in una immensa ennesima tragedia. Gli algerini,infatti,ritenendoli una sorta di bottino li deportarono in massa nella loro città, dopo una allucinante marcia forzata, distando le due città  oltre 500 km.Per cui: "...durante il tragitto, non per strade, ma per dirupi, sterpi e selve, molte donne partorirono ed altre abortirono,molti infermi e vecchi morirono senza arrivare ad Algeri, e per quelli che arrivarono più morti che vivi, cominciò un calvario più duro di quel­lo sofferto a Tunisi..." (93).
            Ad Algeri le condizioni di vita riservate agli schiavi erano da sempre, notevolmente peggiori di quelle vigenti a Tunisi, a cominciare dalla detenzione degli uomini nei famigerati bagni. Occorsero altri lunghissimi anni per venire a capo della trattativa e, finalmente, nel 1769, per l'attiva azione di Carlo III di Borbone, si riuscì ad ottenere la liberazione dei tabarchini sopravvissuti a ben 28 anni di schiavitù. Il bilancio complessivo della interminabile vicenda registrò la morte di oltre 100 tabarchini, 'abiura di 17 ragazze ovviamente 'maritate' con l'immaginabile libertà decisionalee di 5 giovani altrettanto spontaneamente convertitisi all'islam; imprecisato il numero delle nascite, ma senza dubbio cospicuo.
 
            Superate tante sofferenze alcuni redivivi riuscirono a riabbracciare i loro parenti a Carloforte, cercando di inserirsi a pieno titolo in quella diversa realtà sociale. Nel frattempo,nel 1761, il duca di S. Pietro aveva stipulato alquanti contratti con napoletani contemplanti il loro trasfe­rimento a Carloforte per insegnare agli ex tabarchini la lavorazione del corallo. L'acme dell'iniziativa fu attinto tra il 1761 ed il 1765, con la pianificazione di una colonia di corallari napoletani, da insediarsi fra capo Galera e S.Giovanni di Sinis ai quali venivano concessi oltre a svariati privilegi persino le abitazioni in franchigia per ottimizzare e modernizzare l'attività. L'iniziativa tuttavia fallì per le loro eccessive pretese, come del resto fallì pure il progetto di avviare la lavorazione del corallo. Non estranee a quegl'insuccessi le manovre del governo borbonicoe le contromanovre di quello sardo tese a disincentivare l'allontanamento di tanti provetti marinai.