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Brani di Luigi Mari  pag. 2: di 11- 50 messaggi  Successiva

ALCUNI STRAORDINARI MESSAGGI  DI LUIGI MARI: DAL FORUM TORREOMNIA  

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Id. 1679
L'ARCADIA TORRESE
Signori,
stamane un gruppo di componenti la "galassia Torreomnia" si è riunita occasionalmente in un salotto letterario di fortuna presso il "Gambrinus torrese", l'"Olimpiade, ex Casolaro prospiciente le Poste centrali a Via Vittorio Veneto.  Vedi foto: http://www.torreomnia.it/forum/bacheca/gruppo.htm
I componenti il "Convivio" sono stati Antonio Abbagnano, Peppe D'Urzo, Paolo Di Luca, Carlo Boccia, Enzo Palomba e il sottoscritto e la platea circostante che hanno finalmente "auscultato" argomenti diversi dal calcio e dal Consiglio comunale.
Ed io ho subito ricordato il famoso Caffè Gambrinus del secolo scorso. Il bar di antica origine. Molti sanno che dalla Turchia si estese a Napoli per la particolare abitudine della consumazione del caffè diffusosi col regime spagnolo. Il primo bar fu proprio il "Caffè", dove persone di cultura amavano raccogliersi per degustare tale bevanda e intrattenersi in argomenti letterari.
Mentre discutevo con i cari torresi "letterati" ciascuno con monodialoghi, (è tipico torrese), presso il "caffè" Olimpiade rivedevo la Napoli, del 7-800, dove videro la luce più di cento "Caffè" tra i quali segnalo per la loro importanza: il Diodati, il Fortuna, il S. Apostoli, il Caffè dei Tribunali (ovviamente sempre pieno di avvocati e "pagliette"), il Bar Starace (meta di Antonio Petito), il Caffè Vacca (in Villa comunale), il Caffè d'Italia (in via Toledo, che annoverava tra i suoi clienti Francesco Mastriani, autore di 100 lunghi romanzi).
Per un po' la posta centrale di Torre si è dissolta, i nostri abiti sono tornati di fattura ottocentesca Abbagnano con marsina, Boccia con parrucca incipriata; carrozzelle e non automobili nella Via Veneto torrese. Sarò folle, ma ero seduto innanzi al caffè culturale per antonomasia, il Gambrinus all'angolo di via Chiaia, stamane ed è stato il 1850 e non 2005. Mi sono trovato per incanto tra la nuova e la vecchia Napoli: la poetica e l'industriale.
Altro che bar Olimpiade di Torre, ho goduto della magnifica struttura del famoso salotto letterario all'aperto Gambrinus, affrescato per la maggior parte da Caprile, intorno a me gli amici torresi si sono trasformati in personaggi politici come Crispi, Nicotera, Bonchi, ecc. e l'élite napoletana dei Filangieri, Colonna, Caracciolo, Pignatelli e Del Balzo, nonché artisti e poeti da Di Giacomo a Serao, Dalbono, Gemito, Murolo, Bovio, Michetti, Russo, Bracco, D'Annunzio.
Stamane, innanzi a me nei locali del Gambrinus-Olimpiade. a pochi passi della scuola intitolata al gracolatinista Giovanni Mazza, sono nate le celebri canzoni napoletane. E' accaduto stamane che "A Vucchella" di Gabriele D'Annunzio e Paolo Tosti e sorta dai precordi di un mio collaboratore di Torreomnia, il Dannunzio-Boccia.
A proposito di letterature e premi letterari. Quello istituito attualmente a Torre del Greco è di buono spessore, ma è bene non ignorare che in Italia si consumano ben 30.000 eventi culturali non meno nelle altre nazioni europee, con la cosiddetta “semicultura” e con il “sottopensiero” oggi abbastanza diffusi favoriti dal consumismo e dalla globalizzazione.
Come se fosse la desolante prefigurazione di un mondo ormai “postculturale”, dove persone e libri sono diventati merci fungibili, dove la letteratura stessa è continuamente scambiata con qualcos’altro: un gadget, un soprammobile, un oggetto da status simbol.
Scorrendo le pagine di Internet l’elenco degli eventi in programma appare fittissimo: festival letterari, giardini letterari, parchi letterari, maratone letterarie, e poi cene filosofiche, colazioni con l’autore, recital di poesia (in un caso perfino letture pubbliche di reportage narrativi. Senza parlare delle tonnellate di zavorra scrittoria trita retorica, tracimante dalle pagine web, dove ciascun pseudo-autore produce nella dimensione di una netta sottocultura, sotto il vessillo di arte e di contenuti surrogati e insignificanti.
Insomma, siamo in presenza di una pervasiva "culturalizzazione" della vita quotidiana, e anzi di una sua estetizzazione.
E i moderni pub e caffé alla moda sembrano delle gallerie d'arte! Non sarà che questa culturalizzazione sia l'ennesima versione dell'attacco all'"individuo", alla sua autonomia critica, alla sua capacità di formarsi da sé i propri giudizi, sferrato con più o meno consapevolezza dal "Grande Animale", ovvero dal "sistema".?
Il futurologo Alvin Toffler osservava che il capitalismo del futuro sarà "culturale", dato che le multinazionali hanno scoperto proprio la cultura (non solo l'informazione) come business illimitato e capace di generare alti profitti. Ma quale cultura? I temi di terza elementare lunghi chiamati romanzi, le tiritere ametriche chiamate poesia?
Qual è l’alternativa? Il ritorno alla cultura d’élite, cioè non massificata, quella dei salotti Europei del passato? No, la contrapposizione non è tra élite e massa, ma semplicemente tra individuo e uomo-massa. E soltanto l’individuo può davvero “fare cultura”, ricreando un itinerario conoscitivo personale e trasformando incessantemente la propria esperienza in qualcosa di significativo e di comunicabile agli altri, tutto ciò in modo lento, accidentato, e comunque non garantito.
Quindi il salotto letterario è anticultura perché anti-individuale?.
Poi ho pensato agli anatemi e alle scomumiche di qualche dissidente di Torreomnia ed il timore, per esorcismo, mi ha portato ancora più indietro a Publio Ovidio Nasone, che per altro mi somiglia fisicamente, che fu il più famoso poeta erotico dell’antica Roma. Nato a Sulmona nel 43 a.C.
Egli preferì la vita mondana e superficiale delle classi abbienti e la compagnia dei poeti nei circoli letterari alla carriera politica. Divenne famoso per i suoi componimenti erotici quali gli Amores, le Heroides, e soprattutto l’Ars amatoria, l’Arte d’amare, composta tra l’1 a.C. e l’1 d.C. Glie lo suggerirò di sicuro a Monica,
Ma predicare Libertà e Amore spinsero l’imperatore Augusto a a mandare l’amato Ovidio in esilio a Tomi, sul Mar Nero.
Il poema ”L’arte di amare” venne immediatamente bandito dalle biblioteche pubbliche come qualcuno vorrebbe bandire Torreomnia dalla rete con la scusa del trasgressivo e della presunta dissidenza. Forse Ovidio fu il proverbiale capro espiatorio punito da Augusto come istigatore della decadenza e del libertinaggio. La prima ipocrisia perbenista della storia che si è perpetuata in Oscar Wilde, Andre Gide, Anais Nan, Pasolini, Busi, ecc.
Il tempo però portò ad Ovidio la ben meritata rivincita post mortem. Il poeta di Sulmona godette di una fortuna immensa soprattutto durante il medioevo, quando i suoi componimenti erotici vennero presi come esempi d’amore dai poeti europei. Infatti Ovidio influenzò moltissimo tutta la produzione poetica del tempo, dai romanzi di Chretien de Troyes, al Romanzo della rosa e agli scritti d’Abelardo; dal “dolce stil nuovo” di Dante al Canzoniere di Petrarca, dai Carmina Burana agli scritti di Milton.
Si può dire senza paura d’esagerare che è soprattutto grazie a lui che la poesia amorosa europea si è pienamente sviluppata.
Non mi sottopongo al "Nemo propheta in Patria". E' oggi che una stretta di mano, un sorriso mi farebbe bene. La gloria a morte avvenuta è una grande defecata solida.
A Via Vittorio Veneto di Torre del Greco, dopo sorbito il "caffè letterario" con gli amici di Torreomnia ho sentito il filo della mannaia solleticarmi il collo, mi son trovato a cavalcare il porco, mi hanno legato alla berlina, infine.
Fortuna che Carlo Boccia mi scuote per la falda della giacca. Rinsavisco e ci incamminiamo verso casa.
Peppe D’Urzo strada facendo ci ragguaglia sui "pomi bussanti", i bassorilievi in legno dei portoni, i semi archi in ferro battuto dove gli abitanti, spiega, scrostavano il fango dalle scarpe. E si duole perché sono solo due le ville vesuviane da S. Giovanni a Teduccio a Castellammare che non ha scandagliato con notizie di prima mano.
Ad un certo punto mi sono ritrovato circondato dai "covoni bancari". A sinistra avevo la “banca dati” della Turris: Paolo Di Luca a destra la “banca dati” dei fatti e personaggi torresi: Peppe d’Urzo, dietro di me la “banca dati” storico-anagrafica torrese: Antonio Abbagnano e, innanzi, a me, la Banca di Credito popolare di Palazzo Vallelonga. Eccolo il sincretismo, ma nella quarta dimensione della mia postura ci sarebbe voluta una chiesa, per un accomodamento totale. Ma c'era Dio dall'alto, stamattina, come sempre, che sicuramente sorrideva sornione alla vista delle nostre sceneggiate umane dove tremendi mass-media planetari trascinano masse anche in nome Suo.
Ecco formato una nuova Arcadia torrese, anche se all'acqua di rose o all’aroma di caffé olimpidiano o casolariano, come vi pare; ma un Arcadia emendara disidealizzata, fatta di danaro e di menti, un sincretismo da Dio e mammona. Arcadia nuova maniera rispetto a quella fondata nel 1690 a Roma, da parte di un gruppo di letterati Gravina, Crescimbeni, ecc, dove Guerra e imperialismi sono assenti dall'Arcadia: l'avidità dell'avere è un disvalore, così come la violenza d'ogni tipo, simboleggiata dalla figura del satiro libidinoso. Sono quindi assenti, nella costruzione della sua utopica società anarchica, il commercio e l'industria, ma anche l'agricoltura.
L'Arcadia infatti, essendo un movimento di intellettuali, affidava alle astrazioni dell'amore platonico e dell'arte poetica e musicale il compito di riconciliare l'uomo con la natura. L'Arcadia si era sempre sentita come assediata da un mondo proteso verso il profitto e, dando per scontata la propria sconfitta, preferiva rifugiarsi nel profondo delle foreste o fra montagne inaccessibili o in isolette solitarie. Rispetto alla Nuova Atlantide baconiana e alla Città del Sole di Campanella è meno filosofica e più "ambientalista" (le idee-guida sono poche ma precise: l'albero, l'animale, l'uomo, il corso d'acqua sono membri paritetici dello stesso ecosistema).
Ma l'Arcadia torrese in seno a Torreomnia va ancora statutizata e si rivolge innanzitutto alla carenza principe letteraria locale: la narrativa che non ha mai trovato sbocco valido nella nostra città, quella dell'aneddotica e del fatto domestico, delle famiglie, dove in fondo si forgiano gli uomini di domani. La narrativa e rivealzione, confessione, sventramento, può conciliarsi col perbenismo, col provincialismo, col salvare la faccie e filare sempre sul filo della bravura e della perferzione?

E concludo con Peppe d'Urzo che ho appena lasciato, stamane, nella sua mole turrita.

Peppe D'Urzo è un autore prolifico e singolare. Le sue ricerche sono incredibilmente analitiche, di introvabile valore didattico. I lavori che vengon fuori sono "ritratti" dove non sfugge nemmeno il particolare più minuto. Non solo. Mentre una foto ritrae tutto ciò che è visibile, presente, Peppe allarga ad estuario il suo pensiero ora sulla località, adesso sul personaggio, sempre nel tepore della memoria, in maniera tale da rendere inevitabile quel sapore poetico presente in tutte le reminiscenze. La Torre del Greco di Peppe è Durzo stesso! Come diceva di se Marotta: "la Napoli che racconto sono io, perché solo di me so qualcosa, se lo so".
Gli scritti di Peppe D'Urzo non ostentano analisi scelta, egli non adopera schiccherature mestieranti, dialettiche accattivanti per soggiogare e intimidire il lettore, sacrificando la notizia, il contenuto. Il testo, di primo acchito, va appena oltre la dimensione dell'annotazione, della cronaca, della storiografia lineare, ma la prosa è certamente straordinariamente ancorata al tessuto connettivo dei precordi, delle intense emozioni di un umanistico, fidente, franco passato, quello dei nostri nonni, lontani dai covoni bancari, dal pragmatismo e dall'asetticità.
I suoi racconti, dunque, i suoi "graffiti", le sue interviste celate e mimetizzate nel componimento aperto e spontaneo fuggono a tutti i costi l'artificiosità, ma scatenano l'emozione come le vecchie lettere degli emigranti intrise di quintessenze.
Un secondo aspetto, non meno prezioso, che quasi passa inosservato perché scontato persino per l'autore, è quello mimetico dei dialoghi, apparentemente inesistenti; ma soprattutto emerge la certosina fatica glottologica che spesso si estende sino alla filologia, poiché la terminologia torrese antica vastissima e spesso sconosciuta, perché vetusta, è ricercata minuziosamente non solo nell'etimologia, ma nella storicità della coniatura. Quasi un richiamo alla sperimentazione gaddo-pasoliniana del dopoguerra. Testi, quelli del D'Urzo, che, apparentemente lineari e illetterati nel senso artistico, (comunque privi di artificiosità di mestiere, con buona pace di Croce o di Flora) , si rivelano uno studio storico-aneddotico introvabile in tutti i suoi predecessori torresi.
Se si affonda nel substrato, intanto, si raccoglie, comunque, anche una prosa dove contenuti e forma sfiorano, sforano e ritornano in un candore narrativo, per così dire lirico, ispirato, ideale, fantasioso, anche se a tratti tremendamente crudo di realtà materiale e biologica, con eventi anche tragici: lutti, angosce, fusi immediatamente prima e dopo con esultanze, letizie, atti d'amore. Ma come in ogni assimilazione letteraria molto dipende anche dalla soggettività del lettore, dal suo gusto, dalla sua preparazione culturale, dalla sua condizione emotiva, sociale, anagrafica infine.
E sono, senza dubbio, proprio atti d'amore dedicati alla sua cara Torre del Greco che Peppe d'Urzo compie, quasi religiosamente, nell'emozione più intensa e recondita, ogni volta che mette penna su carta. Ed egli ama Torre ogni ora, ogni giorno, da sempre; da quando, pargolo, d'estate, sentiva il tepore del nostro sole generoso sotto i plantari sullo scoglio francese, con le nari narcotizzate dagli aromi delle pietanze materne traboccanti d'amore e di benevolenza.
Solo un grande amore per le proprie mura, per la propria gente, giustifica la fatica immane che compie da anni, instancabile, insaziabile di storie e di fatti, di eventi e tradizioni.
Grazie, Peppe D'Urzo, grazie di amare così tanto la nostra città. Ti voglio bene. Spesso, quando ti leggo, mi fai quasi "ridere sotto gli occhi...".

Luigi Mari

Id. 1802
A PROPOSITO DI EDUARDO

Buona notte a tutti, ORA DICO LA MIA
Desidero trasmettere un profilo del Grande Eduardo un po’ fuori le righe, allineandomi allo spirito di questo forum. E’ una chiave di lettura nettamente personale. La conflittualità tra l'essere e l'apparire è stata la vera fortuna di Eduardo De Filippo. Da questa sorta di “predicare bene e razzolare male” non per ipocrisia, beninteso, ma grazie alla prerogativa e alla natura del commediante autentico, è sorto l’attore che è grande, appunto, quando l’apparire non somiglia all’essere. Un grande attore non piangerà mai davvero sulla scena, ad esempio. Se “buono” interpreta bene il “cattivo” e viceversa. Recitare se stessi lo sa fare chiunque.
Negli anni 60 il grande Eduardo venne a Torre per assistere ad una rappresentazione di "Natale in casa Cupiello" messa in iscena da una Compagnia torrese, al Teatro Metropolitan, se non sbaglio: la “Loreto Starace”. Correggetemi. Schivo e riservato, in sala, assunse un atteggiamento freddo e distaccato che non lo dimenticherò mai, dove si leggeva chiara la disapprovazione non già solo per giustificabili errori dilettantistici ma come per una sorta di senso di profanazione da parte dei ragazzi.
Eduardo non era fondamentalmente cattivo, ma tormentato, Il suo carattere spigoloso e complesso si impernia sulla consapevolezza di essere stato concepito da un rapporto "irregolare". Questo tormento si sprigiona in lui quando prende questa consapevolezza nell'età evolutiva sapendo di essere nato da Luisa De Filippo e Eduardo Scarpetta, mai sposati, con il quale iniziò a lavorare da piccolissimo, nel 1904, quando debuttò come giapponesino nella ‘Geisha’. Conosceva bene il dolore umano e aveva in se, tuttavia, una profonda umanità.
Molti torresi professionisti hanno lavorato con Eduardo, attori, tecnici, elettricisti. Ho raccolto una serie nutrita di aneddoti. Ai suoi plateali gesti di generosità e di comprensione per i deboli a volte contrapponeva atteggiamenti molto rudi e poco socievoli. Mortificava gli attori in scena fermando la recitazione. Non veniva evitata qualche varbalità blasfema o qualche calcio. Mi fermo qui per non guastarne la memoria, in rispetto della sua persona umana, inoltre defunta, sottolineando, per contro, la sua indubbia genialità nata, appunto, da questo particolare “pathos creativo”, pur non avendo seguito studi regolari e non detenendo, infondo, una grande cultura, se non una forte erudizione settoriale. Uno dei pochi casi al mondo nel dare tanta importanza al suo personaggio da farsi chiamare solo col nome attribuendone antonomasia nel mondo intero ad un nome comune di persona.
Tranne che per il Dott. D’Agostino che lo chiama carinamente, simpaticamente e sicilianamente: “Edoardo”.
Quello, comunque, che risalta dall'opera complessiva del Nostro è una grande esempio di morale e di giustizia. Quasi un trionfo della logica comune più che del più caduco e fragile immaginario collettivo.

Ma il concetto, un po' astratto, sarà più esplicito dalle parole di Eduardo stesso:

>“Sono nato a Napoli il 24 maggio 1900, dall'unione del più grandi perché attore-autore-regista e capocomico napoletano di quell'epoca, Eduardo Scarpetta, con Luisa De Filippo, nubile. Mi ci volle del tempo per capire le circostanze della mia nascita perché a quei tempi i bambini non avevano 1a sveltezza e la strafottenza di quelli d'oggi e quando a undici anni seppi che ero "figlio di padre ignoto" per me fu un grosso choc.
>La curiosità morbosa della gente intorno a me non mi aiutò certo a raggiungere un equilibrio emotivo e mentale. Così, se da una parte ero orgoglioso di mio padre, della cui compagnia ero entrato a far parte, sia pure saltuariamente, come comparsa e poi come attore, fin dall'età di quattro anni [...], d’altra parte la fitta rete di pettegolezzi, chiacchiere e malignità mi opprimeva dolorosamente.
Mi sentivo respinto, oppure tollerato, e messo in ridicolo solo perché "diverso". Da molto tempo, ormai, ho capito che il talento si fa strada comunque e niente lo può fermare, ma è anche vero che esso cresce e si sviluppa più rigoglioso quando la persona che lo possiede viene considerata "diversa" dalla società.
>Infatti, la persona finisce per desiderare di esserlo davvero, diversa, e le sue forze si moltiplicano, il suo pensiero è in continua ebollizione, il fisico non conosce più stanchezza pur di raggiungere la meta che s'è prefissata. Tutto questo però allora non lo sapevo e la mia "diversità" mi pesava a tal punto che finii per lasciare la casa materna e la scuola e me ne andai in giro per il mondo da solo, con pochissimi soldi in tasca ma col fermo proposito di trovare la mia strada.
>Dovrei dire: di trovare la mia strada nella strada che avevo già scelto da sempre, il teatro, che è stato ed è tutto per me”.
(Nota autobiografica risalente ai primi anni Settanta).

Il merito di De Filippo, come autore, è quello di avere saputo elevare il teatro napoletano a un livello di dignità e di risonanza nazionale, anche al di fuori delle sue straordinarie capacità di interprete. Una mimica eccezionale, scoperta e sottolineata dai primi piani del cinema, prima, e dalla televisione, poi. Nonché di una fonìa vocale personalissima, accattivante. Eduardo ha saputo a un certo punto innestare, inoltre, la tradizione ottocentesca sulle istanze della poetica neorealista, sia per quanto riguarda l' uso del dialetto, sia per la vivace rappresentazione della vita popolare, con gli ambienti di una dolorosa miseria e i problemi di una
precaria sopravvivenza. Forse senza volerlo l'imbroccò sull' “identificazione emotiva proletaria”, un immaginario collettivo planetario concorde, che fa perno sulle emozioni domestiche, per così dire: il successo è stato capillare e totale. L’influenza di Pirandello ha fatto il resto perché ha “culturalizzato” la sua opera rendendola appetibile pure per la critica europea fino a quella internazionale.
Per concludere, mai nella letteratura, prima di Eduardo, era stato imbroccato un tema di carattere universale come quello di “Filumena”, tra l’antitesi emotiva figli-prostituzione, entrambi concetti antichi come il mondo, (quasi un dualismo), sempre trattati separatamente, ma questa volta uniti dal concetto planetario di amore, dando un senso umano e solidale a tutta la vicenda, temi assimilabili e condivisibili da buoni e cattivi insieme, appannaggio della vittoria della "logica comune", il più grande sinonimo della parola "giustizia".

Luigi Mari

Id. 2353
NARRATORI CAMPANI

Ribadisco! La letteratura vesuviana intesa come narrativa langue, anche perché il veicolo della scrittura basisce sempre di più per fare posto al multimediale e all'interattività.
Nel mio libro "Da Magonza a Torre del Greco" cartaceo autoprodotto e distribuito gratuitamente nel 1998; scaricabile oggi in rete, in Torreomnia, si trova questo testo.
"Sono ormai lontani i tempi della priorità teofilosofica culturale che caratterizzava il periodo della nascita delle Università in tutta Europa. La cultura napoletana in seno all’Università di Napoli vede, alla fine del secolo scorso, sotto il Ministro della Pubblica Istruzione Francesco De Sanctis, personaggi come Settembrini, De Blasiis, Spaventa, ecc. Ma, a far ruotare a tutto spiano le piano- cilindriche tipografiche vesuviane furono personaggi come lo scrittore popolare Francesco Mastriani, con i suoi 115 romanzi, Vittorio Imbriani, che si distinsero nel periodo letterario della fine del secolo scorso.
Più in luce la giornalista scrittrice Matilde Serao, coi suoi famosi Ventre di Napoli e Paese di Cuccagna. Redattrice a Roma del Capitan Fracassa, seguì, poi le orme del marito Edoardo Scarfoglio col suo Corriere di Napoli e Corriere di Roma. Autrice dei noti Mosconi sul Mattino di Napoli, fondò infine Il Giorno. Il tarantino Scarfoglio fondò Il Mattino e scrisse saggi e varie prose. Tartarin influì positivamente il suo allievo Roberto Bracco, valido critico e giornalista, sprovvisto persino di licenza elementare. Esempio emblematico di autodidatta, fu deputato e persino candidato al Premio Nobel.
Soprassedendo su Croce e Flora, Pasquale Villari, alla fine del secolo scorso compose diverse opere di critica e di storia, altrettanto Ruggiero Bonghi che fondò, tra l’altro, La Stampa di Torino. Studi di Storia Letteraria Napoletana e Manuale della Letteratura Napoletana, furono, invece, valide opere di Francesco Torraca".Nel Libro Magonza qui vengono citati i narratori, i poeti, i parolieri vesuvuani:
"Una specie di lazzarone letterato fu invece Ferdinando Russo, poeta dialettale di vivace realismo, come pure, anche se in maniera più pacata, Raffaele Viviani col suo teatro. Quindi Rocco Galdieri, che espresse nelle sue opere quel suo triste umorismo nel Monsignor Perrelli, pubblicato a cavallo fra i due secoli. Ernesto Murolo, invece, scrisse molte poesie in vernacolo, diverse delle quali furono musicate. Ancora Libero Bovio ed il crepuscolare Eduardo Nicolardi, nonchè il famoso poeta Giovanni Gaeta, altrimenti detto E. A. Mario, che scrisse La Leggenda del Piave e la canzone Balocchi e Profumi. Dopo la Serao ritornarono a Napoli i tentativi ben riusciti di narrativa. Negli anni trenta Carlo Bernari pubblica I tre operai. Di Bernari sono Guerra e pace, Vesuvio e pane, fino al Foro nel parabrezza degli anni 70"."Nel periodo tra le due guerre si distingue Anna Maria Ortese con Città involontaria, i racconti Angelici dolori, fino a Il mare non bagna Napoli, degli anni 50. Intorno al secondo conflitto mondiale il narratore napoletano di spicco è Giuseppe Marotta col suo famoso L’oro di Napoli, quindi Gli alunni del sole, San Gennaro non dice mai no, ecc. 

Dopo la guerra esordisce Domenico Rea di Nocera Inferiore, con Spaccanapoli, Una vampata di rossore, ecc. Quindi Michele Prisco, di Torre Annunziata, coi famosi racconti dell’esordio La provincia addormentata, poi Figli difficili, ecc".
"Altro romanziere del secondo dopoguerra sarà Luigi Compagnone che esordì con La Festa, poi La vita nuova di Pinocchio, L’onorata morte, ecc. Infine Mario Pomilio con Il testimone e Il cimitero cinese, L’uccello nella cupola, ecc. Vi sono molti altri intellettuali napoletani di rilievo nel campo della filosofia, della critica, del giornalismo, della filologia che, secondo me, vanno citati in trattazioni specifiche più ampie, di natura critica, antologica, storiografica, per cui discrepanze od omissioni spero saranno qui tollerate.
Un ultimo autore contemporaneo, però, degno di menzione, è il poliedrico Luciano De Crescenzo, filosofo, umorista e scrittore di cristallina fattura, che insieme a tutti gli altri intellettuali napoletani, citati o meno, ha contribuito allo sviluppo dell’editoria non solo napoletana".

E in Magonza qoi finisco la rassegna di autori.
Vive ancora De Crescenzo, Prisco e qualche altro e che il Signore dia loro lunga vita.
Ma le nuove leve quali sono?
Mi piange il cuore vedere di tanto in tanto qualche "testo stampato" con la pretesa di appartenere alla narrativa partenopea, mentre langue nella mediocrità e nella retorica più comune. Io li chiamo " I lunghi temi di terza media".

Luigi Mari


Id. 1558

BREVE SAGGIO SUI RAPPORTI DI COPPIA NELLA PLAGA VESUVIANA

Non vi é unione monogamica autentica, a mio avviso, se non caratterizzata, già nella fase prematrimoniale, dal noto dualismo odio-amore tradotto in bene-male, cioè mono-sentimento positivo-negativo. Potrei calare qui 1’esempio emblematico del famoso film ”Duello al sole”, di King Vidor con Jennifer Jones, Gregory Peck, Joseph Cotten, Lionel Barrymore, laddove, a conclusione della storia, i partener della coppia di amanti “si ammazzano vicendevolmente” in un delirio maniacale di odio-amore struggente. Ma vado oltre.
Nella fase prematrimoniale il mono-sentimento dualistico amore-odio, cioè bene-male (negativo-positivo) si trova nella sfera sensitiva di entrambi i partners e paradossalmente: “contemporaneamente”. In questa fase prevale in entrambi i soggetti, vicendevolmente, il desiderio di emulazione del modello sociale ortodosso: “completezza nell’unione”, modello subdolo e pseudo-etico dei mass-media rotti persino alla commercializzazione dei sentimenti. Qui l’influenza materna e l’amor proprio patologico sono affievoliti. Il dualismo bene-male e quindi mixato e ritrasmesso dai partners vicendevolmente, in una sorta di illusorio “pseudo-dialogo”.
In seguito, pero, vuoi per l’insorgenza di squilibri relativi al richiamo di fonti sessuali esterne, vuoi per l’influenza del suocerato (che risveglia l’amor proprio difensivo originario), vuoi per l’ingerenza affettiva della prole monoaccaparrato, il dualismo bene-male, comune e armonioso, si riscinde nelle due entità separate. Una sorta di mantice di variabile sdoppiamento di personalità, quindi di ruoli.
Ha voglia di ripetere Antoine De Saint- Exuperi ”Amare non significa guardarsi incantati l’un l’altro, ma guardare insieme nella stessa direzione”.
Nella fase di rottura interiore del rapporto monogamico coatto, dunque, il dialogo trasmissivo riconciliante si biforca in due monologhi unilaterali, generalmente di uguale forza, che rimbalzano vicendevolmente sui partners, non già solo in fase emissiva, ma anche in quella ricettiva, perché ciascun coniuge viene assorbito, a cospetto dell’altro, dal proprio vortice monologante logorroico, solo di tanto in tanto in pausa per deficienza di vigore. Un meccanismo incontrollabile dalla ragione e dalla logica comune perché crudamente istintuale, animale nel senso di antietico e anticonvenzionale.
Cosicché il male, come negatività del dualistico sentimento bene-male, viene attribuito solo al coniuge; il bene, come positività, solo a se stessi, e viceversa, soggiogati dall’istinto di conservazione anomalo dell’amor proprio patologico illimitato, quale, chiaramente, carenza, quindi difesa. Questa negatività, vista tra l’altro anche come assenza di corresponsione affettiva, non è altro che la parte negativa di se stessi (disistima) proiettata sul partner per motivi di esorcismo dipanati dai sensi di colpa inconsci.
Negatività, quindi, come disamore a causa della presenza soffocante dell’amor proprio patologico illimitato, (disistima e non autostima) inibitrice della ”conoscenza” come “amore”. Amor proprio patologico smisurato, abisso incolmabile, fissato in ”cantina” dall’assenza di svezzamento dei timori istintuali di origine prenatale fisici di finibilità, rincruditi nel complesso rapporto infantile dell’età evolutiva per la consapevolezza dell’impotenza sul proprio destino di annullamento finale con probabile assenza salvifica.
Insisto nel chiarire che per “amor proprio” non s’intende qui “l’autostima” che è il legittimo propulsore della personalità. Equilibratore psichico che consente di amare ed essere amati. Ci si riferisce, invece, all’amor proprio ante litteram come egoismo ed egotismo istintuale pre-cultura fuori dalla scienza e dalla storia, che comunque si dipanano da insidiose problematiche esistenziali.
Nei rapporti affettivi spesso assolutistici e possessivi come quello monogamico-legale, i dualismi amore-odio, bene-male fanno leva, dunque, su di un unico perno: l’amor proprio patologico illimitato derivante, dicevo, paradossalmente dalla conflittualità disistima-sedicenza, che sopprime ogni transitività dare-avere affettiva e preclude qualsiasi positività di messaggio.
Dietro un cambiamento lento ma radicale (come d’altra parte gia sta avvenendo) si potrebbe veder sconfitto l’amor proprio patologico, per la prima volta nella storia. Individuandolo si può debellare. L’amor proprio patologico, nella sua poliedricità, detto anche: egoismo, egocentrismo, egotismo, assolutismo, possessivismo, ecc., sconfitto a favore di una convivenza umana finalmente armoniosa (atomica, e Vesuvio permettendo) soprattutto a beneficio dei rapporti di coppia sia regolamentate che libere da vincoli legali.
Il celibato ed il nubilato coatto fanno ugualmente perno su questa estremizzazione dell’amor proprio patologico, spesso compensato o sostituito da sublimazioni parallele: lavoro, successo, danaro, beni materiali.
"L’amor proprio è il più potente ed il solo movente di tutte le azioni degli uomini”, (dalla raccolta di Annarosa Selene).
Nella fase monogamica dell’unione matrimoniale l’amor proprio patologico come difesa si amplifica in molti individui tramite il movente dell’azione coatta relativa agli affetti-desideri sensuali, in quella dimensione ortodossa di mono-direzionalità imposta. Il rischiamo esterno psico-fisico sessuale, come tutti gli appetiti animali, viene sottoposto dalle leggi etiche ad una sorta di strozzatura embolica cosi il vecchio detto ”il matrimonio e la tomba dell’amore” denuncia in maniera esplicita lo squilibrio causato da culture millenarie all’uomo, con la monogamia imposta. E non solo per il maschio. La donna ha solo sostituito la propria sessualità (in quanto a pulsioni indiscriminate) con la maternità come contrapposizione alla virilità esistente o presunta.
Rilke disse: ”Un buon matrimonio è quello in cui ciascuno dei due nomina l’altro custode della sua solitudine”. E a questa solitudine il single antepone “Chi non ha il partner coniugale e prole ha un dispiacere solo” ma senza successo.
Il celibato, intanto, non rappresenta la soluzione alternativa al problema, prima perché esso assume carattere di eterodossia, in secondo luogo, perché rinunciando alla sessualità ”omologata”, l’amor proprio patologico viene sottoposto a tensioni negative diverse, sempre inconsce, prima di tutto la trasgressione di una legge divina, poi la rinuncia mutilante della forma di ortodossia affettiva più diffusa universalmente, quindi una scelta emarginante che presumerebbe agli occhi del mondo libertinaggio e dissolutezza; che prevederebbe solitudine senile ed assenza salvifica post-mortale per trasgressione al concetto divino del matrimonio per una sessualità contro i fini procreativi.
La quasi totalità delle culture occidentali concede di amare molti figli, diversi parenti, disparati amici, ma un solo soggetto sessuale eticamente legale. Sotto la consapevolezza dell’osservanza e dell’adempimento, relativa al vincolo collettivo familiare, nel suo principio irriducibile di indissolubilità, i coniugi si vedono costretti a strozzare, dalla censura inconscia, i loro istinti stimolati dall’esterno, naturali e congeniali alla natura umana (desideri spesso ipersentiti perché proibiti). Voglie istintuali precluse, laddove, nel loro soddisfacimento libero da vincoli drastici, avverrebbe la catarsi fisio-psichica; cosi come si manifesta funzionale 1’equilibrio metabolico di un organismo sano (nel processo gastroenterico) non turbato da diete dimagranti restrittive, alteranti l’efficienza fisiologica a causa della parzialità delle sostanze nutritive assunte.
La soppressione, anche parziale, di qualsivoglia appetito animale, ostacola la catarsi psichica relativa allo scarico di tensioni inconsce di natura esistenziale, e di quelle relative al ritmo spasmodico della vita sociale moderna. L’uomo, più che la donna, regola il suo equilibrio psico-fisico attraverso la sua valvola sessuale virile, la donna spesso ripiega con la maternità sublimata come alternativa dato il ruolo gregario assunto nei secoli rispetto all’uomo.
La donna, come accennavo prima, avverte un po’ meno la pressione dei desideri sensuali esterni, in primo luogo perché le culture millenarie l’hanno voluta fin’ora oggetto passivo della sessualità; in secondo luogo perché il suo equilibrio erotico viene anche “regolamentato” dal ciclo mestruale e soprattutto dalla maternità. Ma la sessualità femminile è gregaria e dipende da quella maschile in fatto di scala di valori solo per una componente culturale e non fisiologica. Pulsioni, orgasmo, drenaggi biologici, contrazioni avvengono ugualmente nell'organismo e nella psiche femminile.
Una zitella non sarà acida perché non ha avuto marito, ma perché non ha beneficiato della sessualità e del surrogato della maternità sostitutiva. Insomma, paradossalmente, la zitella conserva una intensità sensuale superiore ad un partner di coppia. Molte donne sono cromosomicamente frigide, perché la maternità sostituisce, rimpiazza la realizzazione del ruolo come riscatto al grerarismo subito lungo la storia. Altro che frigidità dovuta solo all’ignoranza sessuale del maschio.
Ma la parità dei diritti predicata, a torto o a ragione, dai movimenti femministi di vario indirizzo, offusca oggi 1’importanza del rilassamento psichico derivante dalla efficienza della funzione ovarica, non solo alterandone la già compromessa varietà di umore per un a sessualità storicamente gregaria, ma provocando, tramite il rapporto monogamico della coppia, guasti in base alle nuove tendenze di parità, traumatizzanti ed equivalenti a quelli maschili.
A soffocare molte trasgressioni extra-coniugali è anche la gelosia (riflesso dell’amor proprio patologico), vale a dire non trasgredire per il timore di venir pagati con la stessa moneta, di essere feriti mortalmente, di annichilare la propria cara persona, e a ragione, laddove si è dato il cattivo esempio.
Nel meridione d’Italia, vi è pero una ulteriore deformazione del concetto di trasgressione monogamica. Al maschio vengono consentiti se non privilegi libertinari, certamente una sufficiente tolleranza alla violazione. Solo la donna adotta come deterrente la trasgressione potenziale, la potenzialità della trasgressione. ”Si ll’omme guarda ’e zzizze e ’o culo e pe’ nnatura; si ’a femmena guarda ’nda vrachetta e pe’ ddifetto”. Vecchio detto vesuviano.
L’amor proprio patologico illimitato è instaurato anche nelle madri che lo trasmettono ai figli durante il rapporto possessivo della crescita e varia nel corso degli anni modificando di volta in volta la logica comune. (Vedi varietà di ruoli, ad esempio, nella donna: bimba, ragazza, sposa, madre, suocera). Una volta adulti lo si sprigiona ad estuario nell’oceano umano, in maniera vicendevole e riproduttiva, come una guerra batteriologica. L’essere adulto, assorbito dall’amor proprio patologico illimitato e dalla repressione monogamica, sente soffocata 1’energia necessaria sufficiente a dare parte di se agli altri, e soprattutto alla consorte, durante la lunga fase coniugale che, nella maggior parte dei casi interessa i tre quarti della vita di un individuo.
L’amor proprio, come istinto di conservazione inconscio, oppresso dalle minacce terrene e post-mortali, si forma nella fase fetale ed è simboleggiato dalla funzione nutritiva del cordone ombelicale (poiché il feto ha istinto e non coscienza), quindi persiste sotto il bisogno protettivo della gabbana materna nella fase infantile, fino allo svezzamento intorno alla fase puberale, mai totale, a seconda dei costumi dei vari gruppi etnici, ma che raggiunge alti livelli nelle società dove le norme civilizzatrici, contraddittorie ed ipocrite, favoriscono il disadattamento nevrotico.
L’amor proprio patologico strepita a livello inconscio in difesa di tutte le potenziali minacce punitive, specie post-mortali. Tutti i tipi di trasgressioni sociali, che attingono da alcuni canoni religiosi pluriconfessioni vanno contro la natura dell’uomo, con al centro l’amor proprio patologico, sempre propenso, ma contrastato per ogni tipo di soddisfacimento, di appetito psico-fisico. Perché il Dio del Vecchio Testamento castiga l'uomo col sudore della fatica e la donna col dolore del parto, ma tiene fede all' "etichetta" della sua prova di fedeltà: "il sesso da non trasgredire perché scoperto", quindi mperpetuato nel suo insoddisfacimento, laddove la fisiologia rimane "erotica" ma solo per consentore la continuazione della specie, ma non per goderne i benefici dell'amplesso. Benefici non più stimolati nel tempo dall'unione monogamica soprattutto perché in alcune etnie il gregarismo sessuale della donna fa da scudo e ostacolo nel contempo.
La condizione monogamica per unioni legali o meno è pertanto conflittuale. Se si favorisse, non. solo con la tolleranza, la liberta sessuale in seno al matrimonio, a prescindere dalla poliandria e dalla poliginia, è probabile che i matrimoni sarebbero più solidi. Sembra un paradosso. Le regole comportamentali sono comunque sempre infruttuose perché non si possono generalizzare modellare addosso individualmente.
Ma agire a monte si può. Togliere, cioè, dalla galassia sesso l'idea ossessiva di peccato, poi ciascuno agire secondo i suoi parametri mentali, secondo la propria cultura, secondo la propria morale. decisioni che rientrano nella logica delle scelte personali e non vanno generalizzate.
Peccato che le madri non si possano sostituire, almeno per una generazione, con dei computers programmati con l’assenza totale dell’amore materno possessivo. Il sesso, valvola primaria del ”metabolismo” psichico, rivisitato e condizionato alle sue leggi biologiche, sarebbe, finalmente, nella sua efficienza totale, il movente della gioia di vivere, alieno da minacce punitive, libero di galoppare indomito nelle praterie della psiche, librante nel cosmo infinito dell’eterosessualità incondizionata.
E' chiaro che non postulo assolutamente qui amplessi promiscui e incondizionati o canoni erotici
lontani dalle norme etico-morali, che causerebbero, come dicevo, tensioni diverse di inappagamento, ma soprattutto di colpa, come quelle che nutre l'idea di poter spegnere il fuoco con la benzina. Sottolineo solo di "asportare" dalla galassia sesso, come accennavo, l'idea di peccato.
L’amor proprio patologico illimitato, soggiogato dalla colpa atavica della trasgressione, produce, in alternativa, soprattutto desideri sconfinati di potere, quindi ricchezza (avarizia). Protagonismo e perbenismo, ipocrisia, sopraffazione, prevaricazione. Tradimenti, gelosie ecc., rappresentano poi le reazioni incontrollabili dell’appetito egoistico. L’amor proprio patologico nato già sul grembo delle madri dei trogloditi, rimane, al secolo, l’unico vero movente delle tragedie umane, da sempre.
La cultura e la civiltà. hanno solo modificato 1’aspetto di questo ”pozzo senza fondo” dell’amor proprio patologico. Da bramosia di potere, espressa in passato da esplicite, feroci barbarie a cupidigia di possesso, manifestata poi dagli opprimenti regimi totalitari, spesso sostenuti da ideologie ipocrite, camuffate nel migliore dei casi, come oggi, da false democrazie.
L’amore e conoscenza, ebbene, l’amor proprio illimitato non la consente! Nei rapporti assolutistici e possessivi l’amor proprio vive di illogocità. Quando Romeo si accendeva di fiamma per Giulietta, fino allo spasimo, tanto da sopportare le angherie e le minacce della famiglia di lei, era persuaso di amare alla follia colei che credeva fosse l’oggetto del suo amore. In realtà, da buon nobile viziato, egli amava se stesso attraverso lo specchio di lei, facendo dell’amor proprio illimitato il vero soggetto della vicenda. Altrettanto Giulietta.
Nel caso di Renzo e Lucia, invece, il grande amore faceva perno sull’ostacolo: ”non s’ha da fare”. Onore, quindi amor proprio ferito a morte. L’affievolimento delle tensioni sensitive dei due innamorati viene sottolineato dal Manzoni alla fine della storia, a rapporto monogamico legale avvenuto. Persino la bellezza angelica di Lucia si ridimensiona agli occhi di Renzo. L’avvento della prole, infine, innaffia di banalità e mediocrità quell’amore cosi intenso e sublimato. Qui, forse, si identifica una importante componente autobiografica del grande scrittore.
Ho ipotizzato, in sintesi, che l’amor proprio smisurato, come istinto patologico di difesa-offesa, causa della maggior parte dei mali sociali, dopo la sua fase di incubazione prenatale si rafforza nella fase neonatale con i primi impulsi sessuali. Sessualità, poi, vista a livello inconscio, legittima solo se monogamica e proliferante, come suo fine precipuo. Nell’essere adulto tutto ciò che trasgredisce questi canoni etico-religiosi implica traviamento, quindi demerito. Ma se si antepone il principio che la vita è una prova irta e spinosa con ostacoli difficili da superare, allora ogni tessera del mosaico prende il suo posto.
Potrei dire che il matrimonio è contro natura perché la coppia con ordinamento legale coatto non lascia alternative. Ma l'avvento delle separazioni legali e dei divorzi in quasi tutto il mondo o lo stesso celibato rivela che il problema sta a monte, perché la fuoriuscita dal vincolo coatto dell'unione legale non limita né affievolisce i problemi sessuali a monte che si riallacciano all'archetipo di trasgressione divina usando il sesso impropriamente come piacere e non come atto procreativo. Come, ad esempio, la pena doi morte non fa diminuire i delitti perché agisce a valle.
Liberando la sessualità dall’idea di peccato, la si spoglia da tutti quei vincoli distorti da una cultura millenaria e stagnante. Persino Lutero che ha liberato la cristianità dalla castità la tiene sempre legata all'ideo di peccato, quindi di stampo demoniaco.
L’idea assiomatica del legame collettivo domestico indissolubile, suggerisce insufficienti, inconsciamente, i palliativi partitici eterodossi ed eretici, come dicevo, anche le separazioni legali ed i divorzi, anche perché, quest’ultimi, lasciano poi i postumi e gli strascici a tempo indeterminato di diversità e mutilazione morale.
Oggi, alla luce della scienza molte contrapposizioni vengono viste sotto una ottica di sincretismo. Il sesso, uno dei maggiori imputati del peccato, rivisitato da pionieri come Freud, viene visto soprattutto come uno dei maggiori bisogni naturali dell’animale uomo, come una pura componente dell’equilibrio naturale umano e non già più come ”ferri del mestiere del demonio”, per dirla anche con gli accesi sostenitori della ”Teoria della Grazia”.
Non vedo il caso di scomodare ancora personaggi di grande levatura culturale come Agostino o Lutero che però fanno troppo leva su questo binomio ossessivo: demonio e sesso, ne sostengo i pensieri blasfemi di un Gide, disgustato di certe considerazioni di annichilimento ed autocastrazione verso l' "assolutismo-Dio" di S. Agostino. Personaggi come Wilde, Gide, Nietzsche, ecc. fino al nostro Pasolini, in qualche modo vittime di queste insistenze di stampo religioso, (teoria, però, che oggi si affianca a quella dei "geni difettosi" causa dell’omosessualità) si sono votati alla dissidenza, come, sebbene parzialmente, lo stesso Lutero per le palesi motivazioni di dissidenza. Non risparmiava Lutero l’associazion e del sesso al diavolo e ad una concezione scatologica di peccato. (Vedi il dialogo demoniaco dove il peto sarebbe la vocalità del maligno, ecc).
Vecchi canoni mistici, a torto o a ragione, swe non sono stati rovesciati, almeno vengono messi in discussione fino al paradosso. Anatole France disse: ”La castità e la peggiore di tutte le aberrazioni sessuali”, perché la castità cela una sessualità interiore senza sbocchi, contorta e repressa, caratterizzata se non dalla pratica onanistica, da un erotismo platonico sublimato nell’esaltazione artistica, nel fanatismo religioso, nella sublimazione della professione.
La conflittualità: bisogno-corporale contrapposta al bisogno-spirituale, vista in chiave psicanalitica sembra apparentemente conciliata. Vacillando, pero, ai tempi nostri, il dogma religioso, quindi il sostegno salvifico post-mortale (a causa della celerità con cui la scienza ha fatto traballare molte verità da secoli assiomatiche) atte, se non altro a narcotizzare la paura dell’al di là, l’uomo sente maggiore, a livello inconscio, il baratro post-mortale, reagendo, in superficie, con atteggiamenti di apparente dissolutezza, una, sorta di liberatorio scetticismo cinico ridimensionato anche in umorismo diplomatico o clawnesco che attinge nella politica e nel sesso peccaminoso, i due bersagli di dissidenza più in voga. Ma è solo una incerta reazione.
L’uomo solo, avvinghiato dalla piovra del suo sconfinato amor proprio patologico, spesso incapace di amare, bersagliato di teorie e dottrinarismi agnostici, senza più nessun appiglio salvifico (la vita, per lo inconscio non e che una breve anticamera della morte), sotto le pressioni delle settiche leggi delle scienze positive, le quali, per ironia della sorte, aggiungono al danno la minaccia atomica che esclude ogni sorta di palingenesi. "Bisogna diffidare dei tecnici, (per contro), incominciano con la macchina da cucire e finiscono con la bomba atomica”.
Qui conviene prepararsi alla conclusione per non correre il rischio di aggiungere altri nodi alla complicata matassa della letteratura universale, suggerire, cioè, altri spunti che provocano inevitabilmente reazioni di pensiero a catena, sebbene abbiano detto tutto già i greci e i latini.. Ciò che l’uomo non potrà mai dire e nei meandri del cosmo, vale a dire al di la della ragione umana, in una dimenzione che non conosciamo: la casa di Dio.
Giorgio Bassani dice che è possibile conoscere il mistero: ”Per capire veramente come stanno le cose di questo mondo si dovrebbe morire almeno una volta”. Il pensiero umano non ha mai tregua. La cultura, una volta retaggio di pochi, e penetrata in tutte le fasce sociali. I linguaggi di una stessa lingua si moltiplicano, le dottrine si riproducono, si complicano. La diffusione della cultura ha provocato una nuova Torre di Babele?

Luigi Mari