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  Corallo e  coralline  



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“Quand torna sta curallin saie, che priezza fa Matalena…” da: Corallina, poesia del poeta torrese Giuseppe Raiola (RAIMIR). Con questi versi vogliamo ricordare come e quando partivano le coralline torresi con destinazione la Sardegna.
Partivano, dal porto di Torre del Greco, nei mesi di marzo e aprile, e a salutarle c’erano tutti, le famiglie dei marittimi, le autorità ed il clero per la benedizione. Più che una festa, era un augurio per una buona pesca; molta nostalgia e qualche lacrima.
Ai primi del novecento avevamo una flotta di circa cinquanta coralline, lance di 10 o 12 metri, costruite nei cantieri navali di Torre del Greco da bravi maestri d’ascia. Le coralline erano intitolate o con nomi di Santi o con quelli dei familiari più cari, e, secondo la grandezza, avevano un equipaggio di 12 o 14 uomini, e come riparo solo una piccola cabina di pilotaggio. Sulle barche c’era l’indispensabile delle vettovaglie come, olio, cipolle, alici, salame, sale e acqua e non mancavano le famose gallette; mancavano però i servizi igienici e sanitari.
Le coralline partivano dopo aver costeggiato il largo del cimitero per dare un saluto ai defunti: antica usanza dei torresi; e, a forza di remi o con le vele, se c’era il vento, si rasentavano le isole di Ischia, Procida, Ventotene e Ponza, le città di Anzio e Civitavecchia, e, ancora, le isole del Giglio, di Montecristo, di Portovecchio, di Santa Teresa di Gallura, e, attraversando lo stretto di Bonifacio, si arrivava ad Alghero e Bosa. Si costeggiavano queste isole per avere vicino un approdo in caso di un’emergenza (un malore, una tempesta, o qualche riparazione da effettuare).
Gli strumenti di navigazione erano una bussola fatta artigianalmente, e, come punti di riferimento, l’osservazione del sole, delle stelle e della luna; c’era molto analfabetismo.
Dopo un viaggio di circa sette giorni si arrivava a destinazione, la pesca incominciava all’alba e finiva al tramonto, si pescava, con il mare calmo, a sette o otto miglia dalla costa; la pesca era a strascico con l’ingegno (una specie di croce di S. Andrea), cui erano legati i rezzinelli, e dagli scogli sommersi, a 50 metri, si tirava a bordo, con l’argano a mano (vòcia vòcia), il famoso corallo rosso sardo.
Durante la giornata, a bordo, fra una pesca e l’altra, c’era l’addetto alla cucina che preparava il pranzo con gallette bagnate, cipolle e un filo d’olio (mai troppo olio, perché cresce la zella, dicevano gli anziani; era la scusa per non consumarne), ma era più un sostentamento che un pranzo.
Durante il periodo della pesca, gli equipaggi delle coralline erano solidali fra loro, e comunicavano a voce alta e a gesti, si aiutavano in caso di pericolo o difficoltà. A sera, ritornati al porto, dopo aver riempito i barili d’acqua e raccolta la legna per il fuoco, si preparava in un grande calderone la cena e, poi, tutti a dormire sui rezzinelli. 
Si pescava, come riferisce Vincenzo Mennella capo pesca di anni 73, tutta l’estate sotto il sole cocente, e, ai primi di settembre, si tornava a casa: tutti abbronzati e stanchi. A Torre, li attendevano madre, mogli, figli e fidanzate che durante tutto il periodo non avevano avuto nessuna notizia, solo qualche informazione da qualche marittimo di passaggio.
 

 

Coralline torresi inizio novecento



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