IL
DIVANO DI SIGMUND 1
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di Aniello Langella
In questo sorprendente racconto del dott. Aniello Langella il vulcano,
come un'ombra, su passato e futuro, vigila da lontano e tace. Impegnando
tutto l'orizzonte e si perde nella cataratta della foschia morbida.
Nessuno sbuffo di fumo, nessun tremore. Una sola ingombrante presenza,
austera e minacciosa.
Il mono-personaggio ancora non sfora le quinte eppure il cratere e già
presente.
Non prevedibile lo zotico campano e la malattia astratta; ma
immaginabile una muliebre donzella cagionevole.
L’evento narrativo si scuce sul timore delle eruzioni che per il
vesuviano sta nel DNA come una collettiva malattia genetica, una endemìa
atavica. E' stato "inoculato" attraverso i secoli. Esso è
presente pure nelle persone che vivono lontano dal Vesuvio, perché il
vulcano è, sì, lontano, ma il terrore di esso è dentro di noi e viene
sostituito da surrogati in questo che è stata definito "il secolo
della paura".
Guerre, attentati, bioterrorismo, epidemie, calamità naturali, delitti
efferati: i drammi che avvengono nei quattro angoli del proprio paese o
del mondo intero e le malattie debilitanti e frustranti e soprattutto
quelle incurabili sono amplificati dai mass-media e portati in tutte le
case tutti i giorni. Nessuno riesce a sfuggirne.
Non a Caso Aniello Langella ha scomodato Freud per titolare il suo
interessante racconto pregno non già di autobiografismo reale,
ambientale od esteriore, ma appunto inconscio, là dove. probabilmente,
Egli stesso ne ignora la finezza dei capillari narrativi come risposta a
sintomi comuni nel triangolo scrittore, attore e lettore.
L'autore possiede una sorta di potere dell'ubiquità, vivendo
fisicamente nel goriziano tra le Valli dell' Isonzo e del Vipacco, pur
avendo anima ed animo mai sradicati dalle zolle dure dell'atrio del
Cavallo, o dalla vitrea "terra nera” seminata dal braccio idrico
del bagnasciuga sul lungomare corallino.
Felice la conseguenza del dialogo interiore trasferito nel
monopersonaggio. Un Aspetto culturale del Nostro medico friulo-campano
sorprendente e di ottimo spessore narrativo moderno, pur non tradendo,
per vocazione, i canoni classici della battuta oleografica della
"terra del sole e del fuoco".
La problematica dello zotico Antonio Serpe si svolge in
un’ambientazione incerta. Il problema conscio è il Vesuvio, ma
potrebbe essere "in cantina", per dirla con Sigmud, lo tzunami,
il terremoto, la frana e quant'altro.
Il dialogare del dottore è aulico e ricercato non solo per etica
professionale, o per snobbismo ma per mettere in risalto la rozzezza del
paziente a dimostrazione che la "paura" non solo non ha classi
sociali, ma non ha patrie.
Il Dott. Langella ci induce a riflettere che qualsiasi paura ambientale
apparentemente reale non solo condiziona l'ambiente sociale ad una sorta
di precarietà e una induzione alla lotta civile nei rapporti
interpersonali e sociali, ma si allarga ad estuario verso l'oceano della
paura propriamente detta, cioè quella
esistenziale che fa sempre capo all'idea del dolore fisico, nella
fattispecie del contesto craterico campano dalla "lapidazione"
tramite grossi lapilli morali, dall'asfissia di gas venefici come
flatulenze demoniache degli inferi, e dall'ardenza di fuoco etico
giustiziere, quasi sodoma-gomorriano.
L'autore traccia con semplice e decise pennellate narro-vesuviane
l'ansia endemica ed atavica cromosomica della plaga vesuviana non
disgiunta per i tessuti connettivi con la problematica grave delle
società sviluppate: il senso generalizzato di insicurezza e
vulnerabilità sentito in modo planetario non solo da calamità,
terrorismo e malattie, ma dalla oramai altrettanto cromosomica minaccia
atomica.
L'ansia del monopersonaggio Antonio Serpe de’ “Il |
divano di Sigmund” serve all'autore soprattutto per rivelare una
giustificazione ai problemi annosi associati a quelli epocali della cintura vesuviana, ma il medico
si interroga e dà ad intendere che tutto può accadere, che non ci sono
più certezze o luoghi assolutamente sicuri. E anche quando la vita
quotidiana si svolge a livelli di reddito e comfort elevati scatta un
malessere esistenziale complesso, il timore per la sofferenza, per un
pericolo futuro. E l’alterego- personaggio che di e all’autore:
“Siamo sulla stessa barca” contadini
e professori.
Lo scrittore, inoltre risveglia la consapevolezza che quello del Vesuvio
è sicuramente un disastro annunciato.
Interessante lo sdoppiamento interlocutorio medico-paziente, forse per
deformazione professionale, che fa del medico-narratore non già una
creatività di prima mano, ma un sentire interiore quasi narrativamente
sperimentale.
Aniello Langella sa bene che i rapporti umani vengono incrinati non già
dalla forza, ma dalla debolezza. Non dal coraggio, ma dalla paura.
Infatti l'unico modo per lasciare in pace gli altri è lasciare in pace
se stessi. Ma la diffusione continua di notizie diventata una sorta di
“malattia mediatica” o comunque un sentimento diffuso di angoscia e
terrore, dovuto anche all'uso insistente delle immagini televisive, del
cartaceo e sconfinatamente da Internet.
Ma l'autore-medico fa finta di ignorare e fa semplicemente dire a Serpe:
"Ho paura io del Vesuvio, ha avuto paura mio padre, mio
nonno". Sottolineando la storicità della paura del vulcano.
Langella narratore dice: "La consapevolezza devastante della
verticalità delle paure". E sapientemente introduce la componente
religiosa come toccasana, come ultima spiaggia, come almeno probabilità
salvifica post-mortale.
"Dotto' sono andato anche da Don Luigi, il parroco di Cappella
Bianchini". "E Don Luigi mi ha detto che ho ragione: per
questo i vesuviani vivono nella precarietà, sono tutti così,
imbrogliano, vendono cose andate a male, tanto domani viene la
montagna".
Fare i soldi in fretta e a tutti i costi, senza esclusione di colpi e di
bersaglio. Domani potrebbe essere tardi.
"Il divano di Sigmud” di Aniello Langella è un messaggio
apparentemente grottesco, una farsetta scarpettiana, ma solo in
superficie, perché il messaggio intrinseco non solo è attuale, ma è
anche atavico per capire il caratteriale di una determinata area
geografica, unica in tutto il mondo!
Perché mai nel globo sono state ricostruite dieci città sopra una
polveriera esplosa centinaia di volte nei secoli, sotto la scusante di
un popolo tenace, coraggioso e testardo. In realtà profondamente
incosciente!
"Caro dottore - dice il Serpe - voi mi avete capito ed io ho capito
voi. Siamo sulla stessa barca". "Voi avete ragione io ho paura
dei Vesuviani".
E qui l'autore fa crollare il concetto di natura infame rivelando la
vera morale della favola: il degrado del popolo vesuviano e la qualità
della vita a ridotta a zero, al punto che lo zotico conclude con una
soluzione cruenta.
"In settimana prossima vado a Mondragone e spero che il Vesuvio
inghiotta tutti buoni e cattivi. Lo dicono tutti e lo dico
anch'io".
La meraviglia di questo racconto è come possa essere stata descritta la
confusione mentale epocale odierna in metafora tanto che in questa
ultima battuta non si capisce se questo monopersonaggio sia vittima o
carnefice.
”...muoiano buoni e cattivi. Lo dicono tutti e lo dico anch'io"
(pur di finirla con questa maledetta ansia). Il “mors tua vita mea”
come esorcismo, dare in pasto alla “belva” la propria gente corrotta
e disonesta, giustificando la propria di ansia fatta di fuga e
condannare quella degli altri da immolare indiscriminatamente.
Fare del male per somiglianza perché fa tendenza. Questa è una seconda
chiave di lettura del racconto.
Luigi Mari
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