La Divina Commedia
figurata

di Gennaro Bottiglieri
per sua gentile concessione ©


Pag. 1 di 7
1200 tavole a colori cm. 24x33

            

Gennaro Bottiglieri è l'emblema della Torre del Greco ora et labora che dall'avvento della Cristianità fino agli anni sessanta ha rappresentato il vero oro della nostra angariata città, altro che quello rosso. L'oro di Torre, come quello napoletano di Marotta.
L'operosità come etica, realizzazione, sublimazione ed esorcismo contro l'insoluto esistenziale. Queste: tenacia, costanza, immutabilità hanno ricostruito Torre del Greco, puntualmente, dopo trecento devastazioni del Vulcano. Questo retaggio atavico espletato nel formicaio degli antri talvolta adattati e sgraziati delle vecchie botteghe artigiane unte e fuligginose, delle casupole rurali profumate di fieno, dei laboratori dei corallari esalanti strane quintessenze di resine, di cascami di calcare appena tranciati dalle fogge svariate che la natura sottomarina riproduce ed offre generosa alla nostra capitale del Corallo.
Ah, generazione post-sessantottina cadi dalla padella nella brace. Sfuggi i baronati, l'oppressione e la prevaricazione manifesta dei vecchi poteri e cadi nell'europeizzazione, nel tedio dell'individualismo, nelle pseudo-libertà, nelle democrazie camuffate, ancora più subdole ed ipocrite.
Ricostruirebbero ancora Torre del Greco i nostri giovani dopo una eventuale eruzione del Vesuvio, con gli stessi: operosità, energia, fede, campanilismo di una volta?
Oggi che, negli asettici manieri domestici odierni, a mezzodì, il primo piatto è troppo al dente, il secondo è troppo cotto, la frutta finisce fradicia nei cestini ed il dolce è da paragonare al demonio per i suoi effetti devastati sulla linea.
Oggi, che la stima, la fiducia, la dignità di un appuntamento cadono come le carni flaccide, pur se ancora imberbi di disfatti putti dormienti dopo ripetitive, quotidiane feste e compleanni dalle 22 alle 4 di mattina, senza contare i "veglioni" del sabato sera, senza neppure sfiorare i droga party, l'"estasi" e le stragi automobilistiche del sabato notte. Oggi che se le abitazioni avessero la partita IVA, dopo ogni scambio di visita potrebbe balenare l'idea di vertenze sindacali per intrattenimento oltre orario, eventuale aria malsana respirata, e caffè igienicamente non a norma. Caro Gennaro, sei l'ultimo dei torresi vecchia maniera.
Quale giovane, prima di farsi venire una crisi convulsa solo all'idea, realizzerebbe la Divina Commedia figurata in sei volumi, milleduecento tavole a colori, nei ritagli di tempo, di notte, persino negli intervalli del lavoro sugli oceani?.
E Dio sa quanto io voglia bene i giovani d'oggi, spesso solo sprovveduti anche se più istruiti, meno scaltri e frodatori d'un tempo; eppure quale giovane moderno, confuso, in una società con educatori, politici e genitori altrettanto confusi dallo stravolgimento tecnologico parallelamente alla caduta della cultura umanistica, decorerebbe in 90 tavole a colori i più bei proverbi napoletani, e tutto ciò senza sicura prospettiva economica con la sola idea prioritaria del nutrimento dello spirito, della trasmissione delle emozioni, nel tentativo ultimo e disperato di recuperare ciò che vengono comunemente chiamati i valori perduti (nella cintura vesuviana) ma che erano, in fondo, i sostegni psicologici per esorcizzare l'insoluto esistenziale così ben domato con la nostra napoletanità dissoltasi.

Come al solito, non essendo critico d'arte non mi pronuncio sul genere, sulle tecniche, sulla valentia del lavoro di Gennaro, ma tento di penetrare nel substrato psicologico che l'ha spinto a realizzare la sua faraonica mole di lavoro.
Spesso, intanto si commette l'errore di pensare che la quantità vada a discapito della qualità, come, ad esempio, è accaduto con i 110 romanzi di Mastriani, ma questo è solo un pregiudizio. Anche dal disegno archetipico d'un pargolo si evince emozione, una sorta di arte primordiale. Gennaro è senza dubbio un'artista perché non cade nella venalità, nella commercializzazione fine a se stessa di ciò che si è prodotto con il braccio, con la mente e col cuore, per dirla in chiave retorica.
In una falciata della nostra conturbata adolescenza post-bellica a mezza strada tra l'inedia e la grande speranza di rinnovamento, lungo la ricostruzione ed il galoppante progresso nel boom degli anni 60, con Gennaro coglievamo le prime suggestioni artistiche sullo stesso pianerottolo di quella fucina di trasognamenti costituita da quell'androne di vecchie magioni-giardino di Via Giuseppe Beneduce numero sei. Mi crogiolavo nei trasognamenti e i voli pindarici sullo sfondo di un immenso giardino che lasciava esalare vari ed intensi profumi agresti sprigionati dalla fotosintesi, con ad owest lo sfondo di Capri ed Ischia sotto il nostro sole generoso e ad est il vulcano che pareva brontolare anche quando giace in letargo.
Fu in uno di questi assolati meriggi che il destino volle barbaramente sovvertire in me il sublimato concetto di madre, (non di Mamma, che è diverso). Una mia corsa saltellante fu interrotta bruscamente sul pianerottolo di nonna Bottiglieri, nostro quartier generale, come quello di Via Paal, per quei giochi infantili ora femminei per emulazioni domestiche fatti di orsacchiotti di peluche ed altarini, ora violenti perché assimilati dagli eroi di quel cinema suggestivo degli anni 50 che spaziava dal West alla Mitologia.
Vidi la gatta di nonna Bottiglieri che si volse a guardarmi come non l'aveva mai fatto. Il muso intriso di sangue che aveva affondato e avrebbe affondato in un pasto insolito che esulava dalla pur squallida legge della catena alimentare, la natura crudele e spietata che prevede che animale divora animale per la sopravvivenza. Come un pirana il felino distolse lo sguardo dalla mia figura marmorea, gelida e madida e consumò il suo macabro banchetto sulla carcassa insanguinata del proprio gattino.
Solo durante la tormentata giovinezza scoprii che talvolta pure gli esseri umani divorano i figli, non solo ammazzandoli nei raptus di follia, rari, per fortuna, ma frequentemente divorandone la già fragile personalità. Il caustico Nietzsche diceva addirittura che "una madre più che amare un figlio si ama nel figlio".             
 Noi ragazzi del dopoguerra venivamo formati sul terreno incolto delle vaste campagne, sui basalti vesuviani che lastricavano le strade torresi, sulla sabbia rovente della Scala e del Cavaliere. Erano al di la da venire le asettiche scuole materne; bene che andava c'era la "maesta" che un po' intratteneva, un po' impartiva i primi rudimenti o le materie scolastiche relative alla scuola elementare. La sorella di Gennaro Bottiglieri era la nostra "maesta". In quella casa si è in parte forgiato il mio futuro culturale, ma soprattutto quello di Gennaro. Egli giocava in casa.
Gennaro prosegue un retaggio artistico perché il suo papà, tra l'altro, fu uno dei costruttori del monumentale Cavallo di Troia del famigerato film mitologico "Ulisse" degli anni 60.
                                                       Luigi Mari

Cliccare NEXT sopra per vedere le tavole della Divina Commedia.
Se desiderate leggere subito la  biografia di Gennaro Bottiglieri è nella sezione
ARTE/pittura/Pittori e scultori, scritta da un nostro amico comune.

Alla sezione FOLKLORE/Tradizioni di questo sito Gennaro Bottiglieri presenta:
Proverbi napoletani  illustrati