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                                     PARTE QUARTA

Non si fa la felicità di molti facendoli correre
prima ancora che abbiano imparato a camminare.

«La donna del tenente francese» - John Fowiers

CAP. X

L’INDUSTRIA GRAFICA EDITORIALE

Se la stampa non esistesse bisognerebbe inventarla;
ma oramai c’è, e noi ne viviamo.

“Le illusioni perdute” . De Balzao

OSSERVAZIONI PRELIMINARI

Alle soglie del XXI secolo suona anacronistico parlare di stampa tipografica a caratteri mobili e trattarne la materia tecnica come se fosse in pieno fulgore. Anche gli epitaffi, però, parlano del defunto con molto ardore, per ciò che di buono e nobile ha rappresentato il soggetto in vita. Nessun individuo conosciuto e nessun arte praticata muore nel cuore dell’uomo, anche se tramontata, tanto meno un’arte applicata rimasta affascinante ed immutata per cinque secoli. La tipografia napoletana ha avuto il suo massimo splendore nel diciannovesimo secolo, grazie pure al radicale rinnovamento politico e culturale, ed è già il caso di parlare di media industria editoriale. La rivoluzione culturale romantica ci ricorda nomi nostrani come Basilio Puoti e Francesco De Sanctis, e non si tratta di brustolini, per dirla alla Arbore. Ma pur se l’arte tipografica aveva ormai grande risonanza sociale nella vita dei campani, era ancora al di là da venire l’idea di libertà di stampa. (Vedi il più grande romanzo storico napoletano attuale “Il resto di niente” di Enzo Striano già citato).
Nell’Ottocento napoletano nacquero numerose pubblicazioni periodiche. Agli albori del secolo uscirono il Monitore delle due Sicilie e Il Corriere di Napoli. La Voce del Secolo vide la luce nel primo quarto di secolo, indi La Voce del Popolo, La Minerva Napoletana, ecc. A metà secolo compaiono i periodici L’Omnibus Letterario e Il Tempo.
Il vero rinnovamento letterario, come è ben noto, nasce con la critica di Francesco De Sanctis e Bertrando Spaventa. Perseguitato politicamente come il De Sanctis fu Luigi Settembrini, altro ingegno lucido. Gia nel Settecento la letteratura dialettale aveva avuto le prime affermazioni, ma nel Risorgimento se ne riscontro la massima fioritura con Salvatore Di Giacomo e Ferdinando Russo. Si affermo definitivamente pure la Canzone Napoletana, nata con i canti popolareschi del XV secolo, dopo che Alfonso d’Aragona decretò il dialetto come lingua ufficiale del Regno.
Le tipografie vesuviane sorgevano sempre più numerose, dislocate in provincia ed agglomerate nel Centro storico intorno all’Università. Qualche opificio già tentava pubblicazioni su scala nazionale, ma si era ancora lontani dalla massiccia produzione editoriale moderna. In qualità di tipografo artigiano devo faticare per trattare argomenti socio-industriali. Essendo al di qua del campo tecnocratico devo trarre delle conclusioni solo dall’esperienza libresca, benché sia abbastanza infarinato, pure in maniera empirica nel complesso delle tecnologie industriali, non addentro, comunque alle problematiche della tecnocrazia. In fondo, è inutile reiterarlo, questo modesto lavoro non segue una linea tecno-politica, ma socio-lirica di un’arte applicata. Non vedo quale poesia si possa cogliere dalla robotica industriale e, nella fattispecie, dalle turbostampanti ed il loro legame socio-finanziario. Quindi ritorniamo nella dimensione che ci compete e guardiamo insieme lo sviluppo editoriale con l’occhio innocente del popolo.
Ho già detto che alcuni complessi tipografici campani sono la risultanza dell’evoluzione di antiche tipografie artigiane, le quali, approfittando del boom economico degli anni 60 e di un certo lassismo fiscale, nonché dei benefici della buonanima Cassa per il Mezzogiorno, realizzavano il sogno di emulare i cugini industriali del nord, e ben fecero, crearono molti posti di lavoro, anche se, talvolta, non soddisfacentemente remunerati. Infatti oggi si può dire che tale sviluppo, equizzato nelle spettanze relative al costo del lavoro, abbia giovato pure ai lavoratori dipendenti. Alcuni colleghi tipografi di Torre del Greco e dei paesi viciniori mi hanno fatto una chiara relazione sull’evoluzione e le trasformazioni tecnologiche di queste aziende in relazione ai mutamenti politici, sindacali ed alle continue riforme legislative in fatto fiscale. Ma la tipografia napoletana è eternamente succube di una domanda labile dovuta all’eccessiva pluralità dell’offerta, per cui è frequente il fenomeno di dilaniamento concorrenziale ritenuta erroneamente l’unica arma di difesa ed offesa. Ciò è storicamente atavico, dovuto alla precarietà epocale delle dominazioni, ecc.
In più si presentano spesso casi di mancata corresponsione remunerativa a causa di fallimenti o bancarotta, anche fraudolenta, da parte dei fruitori di grosse partite di stampati, per cui, talvolta, il bilancio di queste aziende si incrina quasi a spaccarsi. Senza contare le ingerenze malavitose. I nostri grossi datori di lavoro odierni, tra fisco, sindacati, malavita e bancarottieri hanno, come si dice da noi, appeso i panni ad un cattivo chiodo.
Le idee e le opinioni degli uomini, sociali, religiose o politiche, vengono forgiate tra i focolari domestici, sulle ginocchia materne, c’è poco da discutere. Ecco perché la matrice delle considerazioni sociali è l’ottica psicologica; tutto si dipana da questo mirino. La formazione nell’età evolutiva individuale determina ogni tipo di scelta sociale, le influenze esterne suggeriscono solo le etichette da appiccicare sul petto. Così le peculiarità psicosessuali-affettive determinano le varie sublimazioni, politiche, religiose e professionali. Arturo mi rispose che questa è psicologia spicciola, da primo anno d’Università e che comunque, come tutte le dottrine, sono nient’altro che ciance, teorie, supposizioni e basta. E’ vero?

ARTURO, TIPOGRAFO ERUDITO

Arturo è un collega tipografo di Portici. Quando ci incontriamo, ogni anno, in occasione della Festa dei Quattro Altari, mi parla spesso dei nuovi datori di lavoro. «Non capisco perché - disse una volta - la gente si ostina ancora a parlar male dei padroni. Non starei nei loro panni nemmeno come pulce. Credono di conquistare la felicità col danaro, mentre, in pochi anni, si ritrovano addosso tutti i disturbi psicosomatici contemplati nei manuali di Franz Alexander. D’altra parte - sostiene Arturo - padrone significa grosso padre, ora, caro Mari, parleresti così male di tuo padre, anche se grosso e tesaurizzatore, anche se, spesso, snaturato? Un padre, pure se ingiuria i propri figli, li sfrutta, li aggredisce o li opprime, lo fa sempre a fin di bene... ama, come si suol dire, a modo suo, ma sempre amore paterno è...».
Io ed Arturo avanziamo tra la ressa, abbacinati dalle luminarie cinematiche, sostando entusiasmati innanzi agli Altari: dipinti su gigantesche tele, ed intanto gli dico che l’imprenditore del sud non è né migliore né peggiore degli altri, ma sostanzialmente diverso. E’ dissimile la sua sfera emotiva, la sua base culturale, la sua natura storica d’essere padrone. E’ vero che abbiamo avuto casi di padronismo acuto cronico, come, ad esempio il famoso imprenditore tipografo X. Y. che spianava le banconote col ferro da stiro, ogni sera, puntualmente, prima di obbedire al suo rituale apotropaico antinflazionistico e rifugiarsi in una nutrita sequela di scongiuri cabalo-mistici, per abbandonarsi, infine, tra le cosiddette braccia di Morfeo. La sua anima, di notte, diveniva un batuffolo di bambagia soffice che rimbalzava tra Belzebu, il fattucchiere e Nostro Signore.
Avevamo raggiunto il Porto di Torre per incrapularci, poi, in un convivio luciano a base di mitili, taralli impepati e birra esotica, indi assistere agli spari pirotecnici che concludono quella massiccia rivelazione di folklore pregna di suggestione religiosa. «Gli imprenditori del nord - chiacchiucchiava Arturo, con la lingua ostacolata da lubrici mitili - perseguono il capitale principalmente per sentirsi superiori a quelli del sud. Poveri ricchi, emarginati nel loro potere, essi pretendono d’ottenere stima e ammirazione, ma in fondo, alla base di questi desideri v’è solo un bisogno d’amore, voglio dire l’antidoto alla paura esistenziale. Purtroppo la ricchezza li divide dalla gente semplice, l’unica a poter elargire il sentimento più utile alla vita. Ho detto gente semplice, ma non distorta dall’idea culturale della povertà che presume invidia e risentimenti. Da quelle parti - aggiunge Arturo, dopo aver tracannato un intero tre quarti - hanno poca invidia tra di loro, vedono realizzato il loro scopo. Che gusto c’è ad essere ricchi quando non ci sono abbastanza poveri ad ossequiarti, a girarti sempre intorno, a rodersi l’anima in segreto? I loro fratelli d’Italia poveri sono quelli del sud, essi sono utili allo scopo. Per questo si accaniscono a propinarci tutto quello che producono, ma lavorati da quelli del sud; devo forse delucidarti sulla natura della rivalità fraterna?».
Gli spari fantasmagorici coprono le teorie di Arturo. Ora aspira ampie boccate di fumo. Dopo la botta finale, nel mentre ambuliamo stirandoci le membra in piena fase peptica, conclude: «Il bisogno di potere-danaro dei fratelli d’Italia imprenditori del sud, invece, scaturisce da un’atavica brama di volersi svincolare dalle grinfie feudali, dal vassallaggio (oggi clientelismo). Il sentimento infermo di alcuni imprenditori meridionali, compreso commercianti ed artigiani ambiziosi, è conflittuale, perché il soggetto si dibatte tra un antico desiderio di riscatto, la coercizione consumistica e l’economia malata del sud, subordinata a quella più razionale del nord. Da noi il desiderio di emergere in maniera consistente, e prevalere, si ripercuote non già su quelli più a sud poiché, poveri africani, non hanno neppure la mazza per andare mendicando, ma sui malcapitati che si hanno sotto mano, insomma i paria delle gerarchie, industriali, commerciali, marziali, domestiche, sempre molto numerosi. Ai lavoratori dipendenti, a prescindere dalle seconde attività e dai doppi stipendi coniugali che talvolta sottraggono lavoro ai disoccupati, è preclusa ogni possibilità di ascesa in questo senso.
Tale bisogno infermo, questa sorta di prevaricazione a catena, è rappresentata e sostenuta dalle mogli, che non hanno niente a che fare con le donne, degne di tutta la stima ed il rispetto; le mogli, senza generalizzare, pretendono solo dalla forza economica domestica il riscatto delle dominazioni del passato, dell’antica condizione contadina
».
Arturo prende fiato in cima al pendio di Via Cesare Battisti. Io lo seguo con attenzione perché le nostre idee hanno diversi punti in comune. Quindi prende posto al volante ed io lo ascolto dal finestrino. Arturo sostiene che la mania di fare soldi dei settentrionali è legata alla problematica esistenziale planetaria, quella nostra, in più, prende radici dalla storia locale. Quando questo bisogno si intensifica si finisce con lo scendere a compromessi anche di natura eslege e delittuosa. Il primo traguardo è il posto. E qui cominciano i problemi, perché il posto ti mette nell’orbita, sebbene periferica, dell’eliocentrismo del potere economico, indi il matrimonio, poi spinta psicologica della moglie ed empirica dei bisogni (e non delle necessità) legati al consumismo coercizzato. La corsa e irrefrenabile. Non si rinunzia a nessun tentativo, altrimenti ci si sente emarginati.
”Nessun circumvesuviano, caro Mari, non ha mai tentato di fare l’imprenditore, almeno una volta nella vita, anche il bancarellaro, pur di sentire l’ebbrezza dell’ascesa. Statte bbuono, Marittie’ ».
E voltato la gavezza ...dei cavalli motore, naturalmente, punta verso Portici, dileguandosi per il Miglio d’Oro dannunziano. La finanza, col capitalismo prioritario, si depluralizza concentrandosi nel potere oligarchico. Non già solo l’artigiano, ma l’industriale medio rischia di uscire dal rango dei privilegiati. Gli sforzi dell’industria tipografica campana sono sostenuti. E’ difficile tener testa ai continui progressi tecnologici. Molte aziende fanno capriole per reggere il gioco del mercato e delle evoluzioni tecniche. Ma spesso si sottopongono a ristrutturazioni e ridimensionamenti che favoriscono l’aumento dei cassintegrati.

LE NUOVE TECNICHE

L’industria grafica moderna ha quasi eliminato del tutto l’uso dei caratteri tipografici di piombo. Già negli anni 60 si era diffuso il sistema per realizzare titoli e slogans con i trasferibili, noti oramai a tutti pur se soppressi anch’essi, i quali, tra l’altro, abolivano l’handicap estetico della spalla dei caratteri, consentendo soluzioni tecniche di massimo accostamento delle lettere o dei righi, sovrapposizioni, incastri, ecc. In più i trasferibili venivano prodotti nella totalità della gamma di stili, rispetto al parziale corredo di caratteri di piombo che dispone la tipografia più attrezzata. La vera rivoluzione grafica compositiva attuale, è 1’informatica con la fotocomposizione computerizzata (vedi capitola relativo). A prescindere dal disegno e dalla fotografia puri, fine a se stessi, il grafico moderno basa il proprio lavoro sulla fusione di tutti gli elementi fototecnici che ha a disposizione, sia quelli creativi, inventati per 1’occasione, sia quelli sistematici, costituiti da materiale fotocomposto, trasferibili, fondi, retinature speciali, disegni standard e persino bozze di elementi tipografici. E’ prioritaria la massiccia disponibilità di elementi grafici d’archivio denominati clippart.
Al di fuori dei miei trasognamenti di parte e della reale utilizzazione degli standard fotocomponibili, 1’elaborazione fotografica di testo e immagine oggi consente un’altrettanto libertà creativa, se pur facilitata, meno emotiva, olfattiva, epidermica, diretta, del fuligginoso, meccanico materiale tipografico. L’evoluzione massiccia della fototecnica è strettamente connessa alla stampa offset, che all’inizio si distingueva essenzialmente solo per 1’assenza di pressione, visibile, invece, sugli stampati tipografici; e per l’inversione in negativo di scritte; nonché per la velocità di stampa. Oggi tali effetti e prerogative sono scontate, 1’evoluzione grafica si rivolge verso follie creative simili a quelle dell’arte avanguardistica.
L’industria grafica relativa all’editoria e alla pubblicità commerciale sperimenta sempre nuovi moduli creativi. Oggi sono diffusi numerosi studi grafici molti di loro di una certa levatura, quasi tutti autonomi, scissi, cioè, dalle officine offset, i quali, quotidianamente, spremono tutto il loro ingegno e le proprie risorse allo scopo di ottenere i migliori risultati di creatività e gradevolezza visiva, coadiuvati dalle infinite possibilità della fototecnica moderna legata alla stampa offset, di cui sono pienamente abilitati. Gli stampati relativi all’informazione non vengono molto elaborati, quelli, invece, che riguardano le pubblicazioni di carattere tecnico o specialistico o, in particolar modo, quelli legati alla grafica pubblicitaria, subiscono ogni sorta di trasformazione. Una foto può essere solarizzata (eliminazione dei mezzi toni); può essere accentuata o indebolita nelle ombre, scurita nel fondo o schiarita, ecc. In alcuni casi effetti non previsti danno vita a tecniche nuove.
Al di la delle artificiosità tecniche e delle standardizzazioni ripetitive, la grafica moderna si riallaccia, come quella antica, ai moduli artistici vigenti ed all’architettura. Oggi 1’industria chimica fotografica ha messo in commercio emulsioni speciali per la fototecnica, che consentono di ottenere maggiori effetti in tempi minori, anche se, sostanzialmente di utilità produttiva. Anche le macchine da ripresa sono migliorate notevolmente a questo proposito. In più, gia da qualche decennio, sono state realizzate ottiche che permettono decentramenti e deformazioni anamorfiche di scritte ed immagini, ma subito sostituite da appositi software più immediati e pratici. Bisogna riconoscere che una scritta, in diversi casi, risulta più gradevole e vistosa se invertita in negativo, o se ondulata e incassata nell’immagine. Si sono affermate diverse tecniche nuove, magari nate per caso in camera oscura o digitando per errore una tastiera da computer, come 1’effetto grana, la posterizzazione, 1’immagine scomposta in sole linee parallele, in linee concentriche, irregolari, a semicerchio, ecc.
Alcune di queste elaborazioni fanno apparire, ad esempio, la foto quasi un disegno eseguito con abili tecniche. Io sono abbonato ad una pubblicazione inglese che distribuisce in tutto il mondo queste utili elaborazioni generiche, oggi in edizione elettronica. Il grafico moderno, più del tipografo compositore, deve essere un abile collagista, ma le sue realizzazioni sono molto facilitate per cui si ottengono risultati più complessi con meno lavoro. Ma qual è la molla che ha spinto queste evoluzioni, quella dell’arte o del business? Mah, diciamo tutt’e due, cosi nessuno va in collera.

PROGETTAZIONE GRAFIGA MODERNA

Nel capitolo relativo alle vecchie tipografie artigiane da piombo abbiamo osservato la progettazione in funzione del materiale tipografico sistematico: caratteri, filetti, fregi, cliché, ecc., che, comunque, a prescindere dalle botteghe, prevede anche calcoli preventivi tramite bozzetti tracciati a mano o collages di bozze di caratteri per controllarne l’effetto (menabò). La progettazione grafica moderna relativa all’industria editoriale e a quella della grafica pubblicitaria, prevede oltre che una preparazione teorico-pratica della materia tecnica, l’osservanza di regole e norme basate sulla evoluzione storico-culturale della pittura e dell’architettura, vista la totale liberta geometrica del sistema. Il grafico, intanto, deve lavorare dentro certi canoni sperimentati e garantiti; in molti casi di grosse produzioni, non può sconfinare nell’azzardo perché le poste in gioco sono enormi, specie quando si opera su scala nazionale. Anche se in misura minore e meno dottrinaria, i vecchi compositori tipografi hanno sempre tenuto conto di tali cognizioni. Le realizzazioni grafiche del passato, pur se progettate dagli autori di testo e immagini, sono sempre passate sotto la trafila del tipografo compositore che ha sempre svolto la funzione di esecutore materiale di un’arte applicata.
Oggi la figura del tipografo compositore mezzo artista e metà carbonaio sopravvive solo nelle botteghe artigiane che, giocoforza, per un motivo o per 1’altro, non si convertono all’offset. Nell’industria editoriale l’autore è in istretta collaborazione con il grafico o designer. In alcuni casi il primo esprime un’idea, mentre il secondo la realizza in modo empirico. Il tipografo fototecnico, in questo caso, è solo un fotografo montatore di pellicole. Questo non toglie che lasci la sua impronta creativa nell’assemblaggio definitivo, come accadeva al tipografo compositore che disponeva, in base alla sua maestria, gli elementi di piombo nel mosaico progettato col menabò. L’espressione internazionale graphic designer si traduce in Italia: progettista grafico. Una professione moderna remuneratissima. Il designer inserito nel campo grafico conosce, anche se le vede solo praticare, tutte le tecniche e le caratteristiche della stampa offset.
L’artista sa quale ruolo importante assume il marchio nella grafica commerciale e pubblicitaria, per questo quando ne azzecca uno ricava proventi favolosi. Il marchio trae origine dalla simbologia grafica d’origine e si perde nella cosiddetta notte dei tempi. Il classico ideogramma si ricollega un po’ agli stemmi araldici, specie quelli relativi alla simbologia animale: aquile, draghi, leoni, ecc. I moderni marchi, invece, sono più orientati verso i segni fonetici relativi alle iniziali della ragione sociale della ditta che li rappresenta. Per la realizzazione grafica di un marchio i designer producono centinaia di bozzetti, eseguiti attraverso calcoli geometrici complicatissimi. Alla fine salta fuori un minuscolo monogramma dove un paio di lettere dell’alfabeto si intrecciano o si combinano tra loro, magari invertite in negativo o sapientemente incastonate in una gradevole quanto mai ambigua figura geometrica.
Solo cento milioni di lire, e il gioco è fatto!
L’ideogramma moderno, anche se contiene segni fonetici, è il simbolo di un messaggio strettamente connesso all’attività svolta dalla ditta che lo rappresenta. I marchi moderni, come la grafica in genere, abbandonano i vecchi canoni di disegno ornato per indirizzarsi sempre più verso 1’elaborazione geometrica, talvolta esasperata. La progettazione grafica moderna, oltre a considerare indispensabile nella composizione, la presenza di disegni e immagini fotografiche sempre più elaborate, tiene anche gran conto dell’aspetto significativo della struttura degli stili alfabetici, anche se spesso tende a camuffarli con alcune trovate di ambiguità grafica, spesso fondendo insieme 1’espressione alfabetica con quella figurativa. Alcune di queste forme di grafica esasperata vengono standardizzate e catalogate. Basta osservare la struttura di alcune serie di moderni caratteri tipo fantasia, dove ciascun segno dell’alfabeto contiene in sé una figura grafica che si ripete negli altri segni. (Vedi i cataloghi degli oramai tramontati trasferibili o degli attuali corredi da computer).
Già gli amanuensi tendevano ad ornare i simboli fonetici di frische frasche, meglio comprensibili come elementi aggiuntivi ornati fatti di angoli, spigoli e svolazzi di impronta floreale, fino a creare, con le capolettere, minuscole opere d’arte. L’invasione della stampa a caratteri mobili snellì la decorazione nei caratteri appannaggio della chiarezza della lettura. Fu il periodo Liberty a ridare grazie, codine e svolazzi ai caratteri, che attingevano nei motivi floreali; impronte a tutt’oggi esistenti in alcuni stili fantasia. Ma la grafica moderna fonda le sue basi nella priorità geometrica delle forme. La linea sconfigge la curva, e pensare che il vecchio materiale tipografico era svantaggiato dalle curve; oggi che la fotocomposizione ha superato questo scoglio, le curve sono in disuso. E’ proprio vero: Quando si hanno denti non si ha pane e quando si ha pane non si hanno denti. Oppure 1’altro proverbio che dice sapientemente: Al povero manca il pane e al ricco l’appetito.
La linea vince e, state tranquilli, non mi metto ad analizzare i motivi inconsci per cui gli architetti moderni tendono a squadrare tutto, le strutture architettoniche, l’arredamento, l’automobile, persino i suoi fari non sono più circolari. (si dice che nell’aldilà non esiste il cerchio, pure le pizze e i pneumatici sono quadrati). Ora stiamo ad attendere che nell’aldiquà facciano le lampadine quadrate... Ché la donna gia l’hanno squadrata, poi dicono che i ragazzi di oggi sono meno virili, forse sono solo meno stimolati, per l’eccesso di nudo, perché non si capisce che è il celato a stimolare e non lo scoperto. Diceva Andre Gide, intanto: Una gioventù troppo casta porta ad una vecchiaia dissoluta. E’ più facile rinunciare al «conosciuto» che al sempre «immaginato».
Il bisogno stesso di elaborare le fotografie facendole apparire sempre più dei disegni dimostra che ci si vuole a tutti i costi allontanare dai canoni artistici classici, là dove la fotografia è molto vicina alla pittura figurativa. Fin da quando lo stile Liberty suggerì l’elaborazione grafica del manifesto realizzato con la fusione di testo nell’immagine, si sono consolidati i legami tra grafica, pittura e architettura. Il manifesto, da un secolo, e il parametro dell’evoluzione artistica.

IL MANIFESTO

Il manifesto, dunque, ha sempre rappresentato il mezzo grafico più prossimo alla rappresentazione pittorica, imitandone forme artistiche e tecniche e persino il contenuto relativo ai messaggi delle varie branche della cultura. Al manifesto si ricollegano gli sviluppi compositivi tipografici dal secolo scorso sino ai giorni nostri. Infatti il più grosso degli stampati ha poco più di un secolo, e le ragioni di questa sua “giovinezza” sono da ricercare nella difficoltà, antecedente al secolo XIX, di realizzare grandi immagini tipografiche coi sistemi ripetitivi. Nell’accezione storico culturale del manifesto sono stati scritti diversi trattati che esaltano l’affinità pittorica, il valore grafico compositivo, la rilevanza storica e l’importanza relativa al messaggio commerciale. La ricerca artistico-grafica del manifesto, sempre d’impronta psicologica, fonda le basi sul binomio parola-immagine. Mentre, però, in genere, gli stampati pubblicitari, per così dire, da mano, sono spesso una riduzione spinta del manifesto, difficilmente, viceversa, si ottiene quest’ultimo da un ingrandimento, ad esempio, di una cartolina pubblicitaria. Ripeto, a proposito, che mai un avviso murale composto di soli elementi grafici fonetici, sebbene elaborati ed edulcorati da cornici e disegni messi li, a caso, può definirsi un manifesto, poiché il termine implica sempre, sin dalle origini, la metafora di un’idea, un messaggio, espresso essenzialmente da elementi figurativi. Quindi le mura di Torre del Greco, di Portici, di Torre Annunziata e di tutti i centri evoluti del circondario vesuviano, sono tappezzati di avvisi murali e qualche manifesto, che si vedono più di rado e sono quelli commerciali o politici che, attraverso una combinazione allegorica di testo-immagine, esprimono un’idea, un messaggio e non una semplice comunicazione più o meno abbellita da elementi tipografici prefabbricati. Al di là delle profonde analisi dei trattati settoriali sopraccennati, attinenti a dottrine artistiche, politiche e sociali varie, mi piace sottolineare, in questa sede, che lo sforzo di ogni operatore, sia esso lontano tipografo romantico o moderno designer, è quello di stimolare, in primo luogo, la fantasia e la sfera affettiva non solo individuale, ma relativa a quella sorta di personalità di massa degli osservatori. In più vengono adottate tecniche di contenuto e di forma atte a modificare l’assimilazione, come, ad esempio, nelle rappresentazioni teatrali o audiovisive vengono previste tecniche psicologiche analoghe, cioè pause o posposizioni onde consentire i commenti, le risate, le interiezioni della collettività implicata.
Così nella progettazione grafica si tiene conto di tutte le passibili reazioni psicologiche dell’osservatore. Spesso fanno gioco oltre la trasfigurazione allegorica e l’ambiguità del reale, 1’ironia, il paradosso, il grottesco, il desueto o, meglio ancora, l’originale e l’inedito. Dalla vecchia vignetta (da vigna, motivo floreale) caricaturale di stampo pittorico propria della litografia ottocentesca, si passa all’analisi psicologica, attraverso elementi grafici formati essenzialmente da un amalgama di artificiosità fototecniche: riprese fotografiche elaborate, scritte di tono invertito, spesso dirottate sull’inventiva desueta, puntando pure sullo stimolo che si ricava con l’irrazionale e la componente stupore. Pur se spesso si nota, come in tutta la grafica offset, una frequenza di moduli standardizzati. Trovano, intanto, soluzioni molteplici l’alternanza dei colori e le tecniche prospettico-tridimensionali.
I manifesti commerciali, anche grazie alla rivisitazione di certi canoni etico-religiosi, cadono spesso nel banale, nel mediocre della sensualità ridicola. Senza contare le trasgressioni lessicali o grammaticali volute. Gli esotismi, comunque, i solecismi, i dialettalismi, per altro diffusi dai mass-media, dalla stampa d’informazione e da una certa letteratura sperimentale, non hanno, tutto sommato, nulla di nocivo per un pubblico moderno ed erudito, che li sa riconoscere e valutare nella giusta ottica, ma che dirottano, nel contenuto, il discorso arte-cultura, prerogative da sempre sostenute dalle arti applicate. Cosa dire, poi, dei manifesti politici dove, molto spesso, d’arte non se ne sente neppure lodore? Nei lavori di correnti politiche cosiddette democratiche la nota artistica fa capolino di tanto in tanto, ma Dio ci scampi dai manifesti stranieri di regime totalitario, che insistono solo sugli slogans di partito e sulle tradizioni di folklore.
E’ interessante, comunque osservare i manifesti politici italiani del nostro dopoguerra fino ad oggi. Tutti hanno in comune lo scopo di solleticare la personalità di massa attraverso messaggi semplici, ma incisivi, che fanno vibrare le corde più vulnerabili della sfera emotiva dell’uomo. Per garantire una buona sintesi percettiva il designer sa bene che gli osservatori dei suoi manifesti non sono né bibliomani, né pinacotecomani, sia pure col suffisso fili, ma uomini cosiddetti della strada, intontiti dai clacson, soffocati dai gas di scarico, afflosciati dall’afa, mirmicolanti nella ressa. Almeno questa è la realtà urbana della cintura vesuviana, senza aggiungere il panico relativo al disordine pubblico, caratterizzato da scippi, rapine, estorsioni, problemi, comunque che, purtroppo, prendono dimensioni planetarie. In queste condizioni la percezione visiva non si assoggetterà mai ad una euritmia grafica complessa e da interpretare dietro canoni dottrinali settoriali, o ad una lenta riflessione, ma sarà di agevole assimilazione, soprattutto di contenuto ricco di significato.
Alle pendici del Vesuvio, come in ogni angolo del Globo gli individui sono tutti formati dietro gli avvenimenti dell’età evolutiva; al di là della cultura e delle tradizioni locali, ciascuno ha una caratteristica di ricezione percettiva diversa da un altro, realtà, a mio avviso, riscontrabile finanche intorno allo sterminator Vesevo, dove, ai giorni nostri, ciascuno sembra seguire una individuale filosofia, dissociata gradualmente dalla secolare napoletanità. Vi sono individui, ad esempio, che vengono colpiti da manifesti banali e di cattivo gusto e che rimangono insensibili di fronte al capolavoro di un provetto designer, e viceversa. V’è da dedurre che, a giudicare dalle influenze psico-evolutive infantili individuali e da quelle socio ambientali, certi moduli artistici, al contrario della matematica, restano sempre opinabili e discutibili, malgrado l’energia coercizzante di quei mostri spersonalizzanti che sono i mass-media, coadiuvati dall’edulcorata malia della grancassa propagandistica martellante. Altro che lavaggi del cervello. Difendiamoci timidamente con le fragili locuzioni: Non è bello ciò che e bello ma quel che piace; Dove c’è gusto non c’è perdenza; Ogni scarrafone e bello a’ mamma soja, eccetera, eccetera.

LA CULTURA NAPOLETANA IN PIENA ERA DELLA CARTA

Sono ormai lontani i tempi della priorità teofilosofica culturale che caratterizzava il periodo della nascita delle Università in tutta Europa. La cultura napoletana in seno all’Università di Napoli vede, alla fine del secolo scorso, sotto il Ministro della Pubblica Istruzione Francesco De Sanctis, personaggi come Settembrini, De Blasiis, Spaventa, ecc. Ma, a far ruotare a tutto spiano le pianocilindriche tipografiche furono personaggi come lo scrittore popolare Francesco Mastriani, con i suoi 115 romanzi, poco valutati dalla critica, ma di larga diffusione e Vittorio Imbriani, che si distinsero nel periodo letterario della fine del secolo scorso. Più in luce la giornalista scrittrice Matilde Serao, coi suoi famosi Ventre di Napoli e Paese di Cuccagna. Redattrice a Roma del Capitan Fracassa, seguì, poi le orme del marito Edoardo Scarfoglio col suo Corriere di Napoli e Corriere di Roma. Autrice dei noti Mosconi sul Mattino di Napoli, fondò infine Il Giorno.
Il tarantino Scarfoglio fondò Il Mattino e scrisse saggi e varie prose. Tartarin influì positivamente il suo allievo Roberto Bracco, valido critico e giornalista, sprovvisto persino di licenza elementare. Esempio emblematico di autodidatta, fu deputato e persino candidato al Premio Nobel. Alla fine dell’Ottocento Benedetto Croce partorisce la Critica Estetica, provocando una vera rivoluzione di pensiero filosofico-letterario. Fondatore della rivista La Critica, compose centinaia di opere tra cui spiccano La Letteratura della Nuova Italia, Poesia e non Poesia, Storia d’Italia..., ecc. Pasquale Villari, alla fine del secolo scorso compose diverse opere di critica e di storia, altrettanto Ruggiero Bonghi che fondò, tra 1’altro, La Stampa di Torino. Studi di Storia Letteraria Napoletana e Manuale della Letteratura Napoletana, furono, invece, valide opere di Francesco Torraca.
Una specie di lazzarone letterato fu invece Ferdinando Russo, poeta dialettale di vivace realismo, come pure, anche se in maniera più pacata, Raffaele Viviani col suo teatro. Quindi Rocco Galdieri, che espresse nelle sue opere quel suo triste umorismo nel Monsignor Perrelli, pubblicato a cavallo fra i due secoli. Ernesto Murolo, invece, scrisse molte poesie in vernacolo, diverse delle quali furono musicate. Ancora Libero Bovio ed il crepuscolare Eduardo Nicolardi, nonchè il famoso poeta Giovanni Gaeta, altrimenti detto E. A. Mario, che scrisse La Leggenda del Piave e la canzone Balocchi e Profumi.
Dopo la Serao ritornarono a Napoli i tentativi ben riusciti di narrativa. Negli anni trenta Carlo Bernari pubblica I tre operai. Di Bernari sono Guerra e pace, Vesuvio e pane, fino al Foro nel parabrezza degli anni 70. Nel periodo tra le due guerre si distingue Anna Maria Ortese con Città involontaria, i racconti Angelici dolori, fino a Il mare non bagna Napoli, degli anni 50. Intorno al secondo conflitto mondiale il narratore napoletano di spicco è Giuseppe Marotta col suo famoso L’oro di Napoli, quindi Gli alunni del sole, San Gennaro non dice mai no, ecc.
Dopo la guerra esordisce Domenico Rea di Nocera Inferiore, con Spaccanapoli, Una vampata di rossore, ecc. Quindi Michele Prisco, di Torre Annunziata, coi famosi racconti dell’esordio La provincia addormentata, poi Figli difficili, ecc. Altro romanziere del secondo dopoguerra sarà Luigi Compagnone che esordì con La Festa, poi La vita nuova di Pinocchio, L’onorata morte, ecc.
Infine Mario Pomilio con Il testimone e Il cimitero cinese, L’uccello nella cupola, ecc. Vi sono molti altri intellettuali napoletani di rilievo nel campo della filosofia, della critica, del giornalismo, della filologia che, secondo me, vanno citati in trattazioni specifiche più ampie, di natura critica, antologica, storiografica, per cui discrepanze od omissioni spero saranno qui tollerate. Un ultimo autore contemporaneo, però, degno di menzione, è il poliedrico Luciano De Crescenzo, filosofo, umorista e scrittore di cristallina fattura, che insieme a tutti gli altri intellettuali napoletani, citati o meno, ha contribuito allo sviluppo dell’editoria non solo napoletana.

IL PREZZO DEL PROGRESSO

Anche l’industria italiana e, per conseguenza, quella napoletana, tende ad escludere la dimensione umana dalla produttività. Per fortuna nel Napoletano è ancora possibile intravedere l’aspetto umano del lavoro, nei centri storici, dominati dagli agglomerati di bassi, dove gli ultimi artigiani svolgono il loro lavoro a misura d’uomo, perché ancora operano in un contesto proletario e piccolo borghese, che condiziona il modo di lavorare e di vendere secondo le vecchie tradizioni, dove si ricusa l’impatto appena decennale di certi repentini stravolgimenti tecnicistici e consumistici sotto casa propria. Certi moduli edonistici tendono al convertimento, lentamente, come il tarlo fa col legno, o la goccia con la pietra, facendo leva sul martellamento pubblicitario legato al modello sociale planetario di benessere illusorio, attraverso espedienti come il risparmio ottenuto coi prodotti di serie, o l’adescamento dei supermercati, che eliminano perdite di tempo prezioso, utilizzato, poi, per i giorni di lotta, atta a procurarsi altro danaro, e… ancora risparmiare al solo scopo di rispendere. Un circolo vizioso come la tossicodipendenza, ma legale ed istituzionalizzato da cui nessuno, non solo non può, ma non deve sottrarsi.
Qualcuno dei tipografi che è riuscito a costruire il capannone, magari dietro un compromesso stipulato coi “fiori all’occhiello”, è finito forse ghettizzato in un lussuoso appartamento dei quartieri bene, europeizzato ed irrimediabilmente escluso dal calore della Napoli oleografica dove i sostegni psichici essenziali di solidarietà, di contatto umano, ancora si osservano nei mercatini rionali o quelli domenicali di Piazza Ferrovia, o di Poggioreale, nelle botteghe, nelle case-giardino delle vecchie costruzioni spagnole. Le stesse officine industriali dei quotidiani della capitale del sud hanno definitivamente visto dissolto il calore umano che esalava, all’unisono, dai precordi dei giornalisti e tipografi e dai crogiuoli delle linotype. Era l’ardere del piombo fuso ad accomunare autori e tipografi in una sola famiglia.
Le notizie sprigionavano anch’esse la soavità di una metropoli ancora lontana dalla giungla urbana, animata dalle Piedigrotte, dalle serene periodiche domenicali e dallo strabenedetto pane e ppummarole, e dal derivato sacrale ragù, o dalla defilippiana ritualità di pasta e fagioli o caffè che scendeva. Oggi pure i napoletani il caffè lo fanno salire per dimostrare che il mondo, nell’arco di pochi decenni, è cambiato da così a così, grazie all’indomita ascesa industriale. Nelle redazioni dei giornali, anch’esse linde ed asettiche come gli ospedali, il giornalista infreddolisce per 1’assenza dei crogiuoli, per la nefandezza delle notizie, per il suo esclusivo rapporto di lavoro con ...il terminale.
Chi ha le tempie canute ricorda che il tipografo delle botteghe, nel dopo guerra doveva accontentarsi delle bruschette o delle marenne a base di melanzane a funghetti e friarielli, mentre quello che faticava al giornale poteva permettersi la fetta di prosciutto. Spesso i compositori o gli impaginatori dei giornali davano il loro diretto contributo ai pezzi di cronaca, perchè facevano da tramite tra ambiente popolare e redazione, suggerendo, tra l’altro, espressioni gergali, peculiarità caratteriali e comportamentali del popolo, sconosciute alla classe alto borghese dei giornalisti agiati di allora. Chissà chi furono gli informatori della Serao, forse la masnada di camici neri rattoppati e bisunti che la circondava. Quale tipografo artigiano negli anta può dimenticare le rasserenanti giornate di lavoro in queste officine grafiche. Lazzi, facezie, scherzi da prete e soprattutto spiccava quella sorta di paradossale religiosità nel turpiloquio, poetico, colorito, ilare, puerile ed innocente. Questi erano i soli delitti che si confessavano la domenica in chiesa. Dovevano pur farsi perdonare qualcosa, altrimenti i reverendi avrebbero rischiato la cassa integrazione.

IL SOGNO DEL GIORNALISMO

Le tipografie artigiane vesuviane che ancora realizzano nella maniera tradizionale le pubblicazioncelle locali pressate dalle ambizioni letterarie degli oscuri docenti di lettere, o dei cultori di sogni nel cassetto, o dei poeti del sabato sera di fama intercomunale, arrotondano il fatturato in un contesto lavorativo molto compromesso dall’offerta satura. Ebbene, io appartengo alla categoria di questi sciagurati sognatori, conscio, però, del carmina non dant panem, non solo, ma pure del nemo propheta in patria, poiché queste sporadiche mie esperienze scrittorie desuetamente autofabbricate in tomi, sono destinate, volutamente a non valicare il circondario urbano?. (Grazie a Internet questo dubbio dell’autore si è finalmente dissipato. Questo libro è continuamente scaricato dagli italiani di tutto il mondo. N.d.r.). Sono comunque solidale con tutti gli sventurati come me, e quasi mi rammarico del privilegio di poter prevalere, almeno quantitativamente, sugli altri, che la sorte non li ha voluti nemmeno bottegai tipografi. Comprendo, anche se non giustifico, coloro che non sanno valutare i propri limiti, e continuano imperterriti in questo cammino spinoso, attribuendo il loro insuccesso solo a fattori egemonici da circolo chiuso.
Oggi, più che mai, in tutti i settori umani, l’estetica prevale sul contenuto, questo tende a soffocare l’espressione popolare nell’arte scrittoria, ed è una discriminazione. Chiunque ha il diritto di esternare i propri sentimenti, anche al di fuori di virtuosismi dottrinari. L’importante è riconoscere la propria posizione e non ostinarsi ad apparire quello che si vorrebbe essere e non si è. Non è la semplicità d’espressione che è nociva, quando c’è contenuto, ma l’elaborazione culturale della povertà estetica ad alimentare il desiderio di abbarbicarsi verso i fastigi di castelli di cui non si è provveduto, negli anni, a mettere su con tenacia e abnegazione, dietro un allenamento estenuante, mattone su mattone.
Il primo giornale della storia fu quello prodotto dai Cinesi nel 400 d. C. Per la realizzazione della sua composizione venivano adoperati caratteri di terracotta, piombo e argento, e veniva stampato nientemeno che su seta. Fu il primo e il più longevo della storia. Nacque col nome di King-Pao, che tradotto significa pressappoco Notizie di corte. Nei secoli che seguirono la testata cambiò spesso, vale la pena citare solo una traduzione: Giornale del Celeste Impero. Gli storici dicono che nel XIV secolo divenne settimanale e nel XIX quotidiano, grazie, molto probabilmente, all’avvento della Linotype. Alla fine dell’Impero, nel 1912 fu soppresso.
Il giornale quotidiano si affermò nel XIX secolo grazie all’automatizzazione della composizione tipografica e delle macchine da stampa. In Francia il più diffuso dell’epoca fu la Liberte, che raggiunse le centomila copie al giorno durante la Rivoluzione. In Inghilterra ricordo il famoso Times; in Italia La Nazione di Firenze, Il Corriere della Sera di Milano, Il Resto del Carlino di Bologna, ecc. Giornale, è lampante, significa: raccolta di notizie del giorno, quindi: quotidiano. Ma in tutte le epoche si era gia trovato il modo di diffondere notizie scritte. In tutta Europa, già prima dell’invenzione della stampa, esistevano i cosiddetti novellieri, che trasmettevano notizie attraverso, appunto, le novelle. Esse venivano copiate a mano, naturalmente, e vendute come dei normali periodici. L’invenzione di Gutenberg trasformò queste novelle in veri notiziari. Si trattava di fogli stampati da un solo lato, contenenti un solo articolo per volta. In seguito vennero stampati pure sul fronte retro ed illustrati con le xilografie anche inserite nel testo. Fino a pochi anni fa l’architettura di una pagina di giornale era pressoché simile per quasi tutte le testate del mondo, perché il sistema era quello tradizionale dei caratteri di piombo meccanizzati da Mergenthaler. Infatti mentre compongo le parole che state leggendo, sbircio sulla sinistra della mia Linotype una targhetta con su inciso: Linotype Italiana S.p.A. - Milano, licenziataria della Mergenthaler Linotype C. - New York - USA. Le pagine di giornale, dunque, venivano fino a qualche decennio fa assemblate con piombo linotypico e cliché, sistema detto, oggi, a caldo, per distinguerlo da quello a freddo (in tutti i sensi) della composizione computerizzata e la fototecnica offset. L’elettronica ha messo la parola fine all’evoluzione più avanzata della scoperta gutenberghiana, dando il sapore di vetustà a processi di automatizzazione scoperti appena qualche decennio prima. Ma entriamo un po’ nella vecchia tipografia gutemberghiana ed in quella moderna.
Nell’officina giornalistica tutto deve procedere con la rigorosità simile a quella degli orari ferroviari. Non sono ammessi ritardi o interruzioni per nessuna ragione, ad eccezione degli scioperi... Nel sistema tradizionale, oramai scomparso, il proto smista gli originali da comporre e li invia ai vari linotipisti per la composizione del testo in colonne e le immagini alla zincografia interna per la realizzazione dei cliché di zinco. Le pagine vuote sono rappresentate da telai di metallo dove sono già disposte le composizioni fisse, ad esempio la testata del giornale, le pubblicità, ed altro. Una volta eseguite le correzioni delle colonne di piombo, gli impaginatori sistemano le stesse negli spazi preventivamente stabiliti dalla redazione per mezzo del menabò. I piccoli spazi vuoti si riempiono con brevi notizie, slogan, o piccole inserzioni pubblicitarie o di altra natura. Se il piombo in eccesso è poco allora si provvederà a ridurre lo spazio dalle colonne fra i titoli, fino all’estrema soluzione del taglio.
I titoli vengono composti a mano o anche con speciali macchine fonditrici dette monotype. La misura delle illustrazioni viene stabilita in colonne, come i titoli. Una volta assemblato tutto nel telaio, le pagine sono pronte per la realizzazione delle stereotipie di cui ne ho gia trattato il processo. Le stereotipie curve vengono montate sui cilindri della rotativa, composta da tanti gruppi stampa. Le più grandi consentono di stampare giornali di formato standard fino a 100 pagine, con una produzione oraria di 20-30.000 giornali l’ora, e scusate i costruttori se è poco. Il giornale, all’uscita dalla macchina, termina a mo’ d’imbuto per immettersi nella piegatrice abbinata, la quale provvede anche al taglio. Tutto avviene in perfetto sincronismo e ad altissima velocità.
Il secondo sistema a freddo quello adottato oggigiorno non è altro che quello offset da rotativa. La composizione è fototecnica. Il computer, dopo la battitura, elabora il testo secondo le necessità. Se lo scritto è lungo la macchina provvederà in un lampo ad accorciarlo riducendo gli spazi tra le parole o le interlinee o, meglio ancora, riduce il carattere provvedendo automaticamente alla divisione in sillabe, correggendo persino gli errori grammaticali e ortografici. Una volta realizzate le colonne ed i titoli fotocomposti si procede al montaggio sul tavolo luminoso. Sono già in uso macchine dedicate con cui èpossibile comporre le pagine intere su video che andranno direttamente in ouptput, che nel caso industriale si tratta di fotounità enormi ad altissima risoluzione.
I giornali illustrati, altrimenti detti settimanali, vengono stampati col sistema rotocalco che, circa le immagini a colori, si è rivelato idoneo alle altissime velocità. La progettazione di una rivista illustrata avviene in modo simile a quella dei quotidiani, ma richiede maggiore impegno a causa delle numerose immagini policrome. In più le stesse pagine passano almeno sotto quattro gruppi di diverso colore. Alcune riviste, comunque, non prevedono il rotocalco che non consente altissime definizioni, e vengono stampate col sistema offset, come pure gli oramai policromi testi scolastici, la migliore produzione libraria, le pubblicazioni a dispense settimanali, l’insieme di quelle opere, cioè, destinate a rimanere nel tempo. La stampa offset consente maggiori finezze di dettaglio, anche per la sua precipua caratteristica di stampa indiretta e, in complesso, la qualità generale è nettamente superiore ad altri sistemi basati per lo più solo sulle alte velocità produttive. Intanto le pubblicazioni editoriali non richiedono tempi di produzione brevissimi come accade per la stampa periodica.
Le riproduzioni a colori realizzate con le moderne attrezzature fototecniche e stampate in offset, raggiungono livelli cromatici e tridimensionali superiori a quelli delle immagini fotografiche originali da cui sono state riprodotte.

IL CONCETTO DELL’AMORE TEMA CENTRALE DELLA LETTERATURA

Prima di concludere il capitolo con alcune note sulla pubblicità stampata, su scala nazionale, divagheremo questa volta nientemeno che con una teoria sull’amore, così legato, da sempre, all’arte scrittoria e alla stampa. Visto lo spirito del libro, anche questa volta non desidero postulare nulla a nessuno. Si tratta sempre di osservazioni del tutto soggettive e non sottintendono nessuna intenzione di tono scolastico. Vi è un abisso tra la natura dell’amore e l’idea culturale dell’amore poliedricamente elaborata, a mio modesto avviso, naturalmente. L’amore, purgato di volta in volta dalle mode letterarie della storia lo conosciamo tutti. La psicologia moderna un bel mattino ha deciso di spogliare l’umano da molte croste culturali lasciandolo nudo nel suo stato primitivo di istintualità. L’animale uomo ha un istinto di conservazione personificato, modificato dalla cultura. Alcuni sono concordi nel supporre che tutte le invenzioni culturali sono delle difese dall’angoscia, connaturata negli animali ragionevoli, coscienti del loro destino di finibilità, non solo, ma di probabile assenza salvifica post-mortale. Ma al di la delle affermate teorie speculative o psico-scientifiche, il timore, o più semplicemente il senso di finire, è presente in ogni forma cerebrale.
L’animale, a mezza strada tra l’uomo e la pianta, vessato o recluso presenta gli stessi sintomi angosciosi dell’uomo ragionevole, che sfociano, a lungo andare, nel disequilibrio. L’appassimento delle piante è un chiaro esempio di deperimento fisico. Esse, istintivamente, (anche se la terminologia è impropria) nei loro limiti compiono ogni sforzo per riprendere vita e, nel caso di intervento dell’uomo o della natura, ce la mettono tutta per risorgere. Io suppongo che una forma iniziale di difesa, più comprensibile come senso di conservazione, sia presente gia nello stadio fecondo pre-fetale. La prima reazione ovulo-cellulare e quindi la difesa dall’estinzione, che si accentua mano mano con lo sforzo neo-fetale contro la probabile minaccia abortiva. La lotta con la finibilità, quindi, non e subito istintuale-cerebrale pre-post-natale, ma è già presente con la formazione delle prime cellule; diviene istintuale durante lo stadio fetale avanzato, e si consolida in quello neonatale, onde perpetuarsi nell’esistenza. Ma l’uomo, per sua sfortuna, e dotato di ragione ed ha inventato la cultura che complica per subito esorcizzare questi timori associati. Quindi alla difesa istintuale si aggiunge l’elaborazione culturale dell’idea di morte, caratterizzata dal timore di una probabile assenza salvifica. La confusione umana è concentrata nel sincretismo Dio-Amore - Dio-Punitore. In realtà l’amore non è il bene che dualizza il male, quindi Dio-demonio, ma amore come esorcismo della paura, non solo di finire, ma di rivivere, dopo, nella sofferenza.
Diremo, allora: Dio: idea della vita, demonio: idea della morte. A prescindere dalle teorie teofilosofiche millenarie, l’idea di Dio come garanzia di continuità e indispensabile agli animali dotati di ragione, sebbene la dottrinalizzazione di certi elementari concetti abbia generato maggiore confusione. Senza nulla togliere ai Padri della Chiesa ed ai teologi, e con tutto il rispetto per i credenti di ogni Confessione, i quali trovano serenità e sollievo, bisogna ammettere che Diderot non aveva tutti i torti quando disse che “…le religione annunciata in passato da ignoranti facevano milioni di credenti, predicate poi da dotti fanno solo degli increduli”. A prescindere dai quindici miliardi di anni luce che ci separano dall’ultima galassia sentita dalla terra (la Luna e a un secondo luce), la Religione è una grande realtà per lenire l’orrore della morte vista dalla nostra cultura, tranne due elementi comuni a molte Confessioni, che alimentano l’angoscia umana: l’idea dell’inferno e l’elaborazione culturale della sessualità ad esso relativa.
Metabolismo
sessuale regolamentato, quindi compromesso nella sua biologica istintualità che, se non censurato o modificato nella sua appetibilità, sarebbe tanto più naturale e moderato, ed uno dei più idonei toccasana spontanei per scongiurare l’angoscia istintivo-culturale di finibilità, in ragione di abusi, pulsioni pluridirezionali, fino all’omosessualità, senza contare le pulsioni incestuose coatte, manifeste o inconsce; reati sufficienti per annullare la garanzia salvifica al di là da venire. L’eterosessualità, dunque, non condizionata dall’idea di peccato, che richiama subito l’inferno, è la più idonea equilibratrice della vita cellulare-psico-metabolica, connessa all’idea di Dio-amore, così, invece, irrazionalmente elaborata culturalmente, non altro che da fantasiosi bisogni di espiazione terrena.
Il suicida, molto spesso, ammazza se stesso per non morire! ... Egli annega negli angosciosi sensi di colpa inconsci, cioè sempre indefiniti, quindi, nell’immotivazione, attribuita spesso ad ingerenze demoniache, vorrebbe uccidere un male senza volto, che in buona percentuale si rivela come consapevolezza celata in cantina, dell’elaborazione culturale: morte-inferno-sofferenza eterna, pregna di terrore, fulcro inconscio di tutti gli stati depressivi più a meno gravi. Nell’impotenza ansiosa il suicida ripiega, in alternativa, con il possibile annientamento della debole carcassa cerebrale, portatrice da anni, con alti e bassi, l’angoscia oramai incancrenita, tanto più coatta ed ossessiva perché inesplicabile in superficie, dietro l’esclusione di ogni possibilità di rimozione.
Il tema, sovente reiterato dell’insoluto esistenziale, non altro l’angoscia umana che ha origine direttamente dalla consapevolezza di finibiltà e probabile assenza salvifica, in base alle elaborazioni culturali di millenni, fu magistralmente generato dallo psicoterapeuta Luigi De Marchi, nel suo Scimmietta ti amo,, citato nella premessa, nella bibliografia e nella nota a margine d’essa, da cui sono stato sensibilmente illuminato e spinto a formulare, lungo il presente libro, alcune riflessioni, che partono dall’assunto del suo geniale saggio.
Amore e morte, Eros e Thanatos, i temi di base che hanno, direttamente e indirettamente, lasciato produrre all’umano milioni di libri stampati dando un sostenuto contributo allo sviluppo dell’arte nera in tutto il mondo. Le difese, (anche sotto le freudiane sublimazioni: artistiche, politiche, religiose, professionali, ecc.) sono molto spesso contrastanti, e vanno dall’annichilimento mistico alla violenza criminale, quando le si sostituiscono all’unico antidoto diretto alla paura esistenziale, cioè l’amore, (specie concretizzato nei contatti fisici, continuità della difesa uterina, catarsi fisiologica naturale) inteso come l’opposto dell’angoscia, quando esente dall’idea di peccato.
Dio e anche l’organismo che vive, la cellula che si riproduce nel disegno inesplicabile della natura e della creazione e bisogna sempre favorire questo processo anche nei suoi legittimi appetiti, foss’anche nell’atarassia epicurea. La morte - diceva intanto il filosofo - non e nulla per noi, perché quando noi siamo essa non c’è, e quando c’è noi non siamo pù. Dunque amore non come opposto dell’odio, ma come inverso della paura. Più è attenuato questo timore, più l’uomo è capace di amare. L’amore come salute mentale, che stabilisce il giusto compromesso con l’infernizzazione della vita.
L’idea di Dio anche in questa dimensione e utilissima per vivere in modo più sereno possibile, senza per nulla escludere la dimensione transumana. L’amore nell’accezione di fisicità, come inverso della paura, è essenzialmente quello per antonomasia, cioè l’eterosessualità. La proverbiale sicurezza del ventre materno avvezza specie l’animale uomo a scongiurare il timore di finibilità già nelle parti lubriche di questo grembo, che conservano tutte le caratteristiche delle mucose erogene freudiane. Da questo tipo di benessere-scongiuro si dipanano poi tutte le peculiarità della sfera affettiva, tenerezza, attrazione, affetto, compassione e pietà, proiettive e, talvolta, come la carità, prevedono un tornaconto salvifico. L’amore nudo, naturale, legittimo, non puramente animale, fuori d’ogni elaborazione culturale, compresa quella che leggete..., perché s’e avvalsa della corruzione dottrinaria per stare coi tempi, per esprimere concetti di un naturalismo preculturale.

LA PUBBLICITA’ SU SCALA NAZIONALE

Ed eccoci pronti a concludere il decimo capitolo, con un argomento meno teorico dopo una dissertazione così profonda. Gli avvisi murali, le locandine ed i volantini relativi alla propaganda commerciale locale, ancora sopravvivono nella cintura vesuviana, dove è sempre consentito imbrattare le strade, dietro esose tariffe, naturalmente. Questi stampati rappresentano un buon sostegno anche per le botteghe artigiane, meno care (grazie alla concorrenza) delle affissioni comunali. Per questi lavori come diciamo noi, sciué sciué, vi è quasi assenza di progettazione grafica. Tutto avviene nella dimensione del materiale tipografico o, al massimo, degli stereotipati assemblaggi fototecnici terra terra, emulanti, però, quasi sempre, composti originali già affermati della pubblicità, come dire, ufficiale, fatta su scala nazionale. L’applicazione della fotografia nel campo grafico ha ridotto fortemente l’uso del disegno e della vignetta. Anche perché diverse elaborazioni fotografiche come l’effetto grana, la solarizzazione, ecc. danno risultati tali, là dove il disegno puro difficilmente potrebbe arrivare.
Senza nulla togliere ai progressisti, (anche perchè io antiprogressista non sono se non nella misura di ciò che il progresso danneggia l’umanità), devo osservare che l’artificiosità dei mezzi moderni s’intona al clima ipocrita e doppiofaccista della società attuale. I prodotti, per lo più alimentari, spesso di coltura artificiale (e qui, consentitemi, la mia Torre del Greco e la cintura vesuviana non c’entrano, per una volta) vengono pompati da una pubblicità che soffoca scaturigini artistiche a misura d’uomo, ma sottolineano lo stereotipo delle macchine. Certo pure il nerofumo e le vernici sono dei mezzi, ma di origine vegetale e non certo sintetici come quelli moderni, ottenuti da precipitazioni chimiche inquinanti e nocive. In pratica l’uomo-natura trasformato in uomo-macchina si denota in ogni forma espressiva, pure quella artistica propriamente detta.
La cartolina pubblicitaria su scala nazionale non è altro, spesso, che la riduzione del manifesto murale. La ripetitività dell’immagine ha lo scopo di non tradire il moderno concetto propagandistico psico-stereotipico più comunemente conosciuto come lavaggio del cervello. Troppi interessi consumistici, checché se ne dica, sacrificano la purezza artistica della grafica moderna pubblicitaria. Oggi si deve parlare di una ben congegnata psico-grafica, quando ci si rivolge alla pubblicità su scala nazionale sia stampata che radioteleiconografica. E’ già lontano il tempo in cui l’espressione grafica si reggeva su canoni romantici, su di un’allegoria, seppur retorica, che assecondava, tuttalpiù, la tendenza pittorica del tempo. Nell’etichetta moderna, tanto per dirne una, spesso decorata direttamente sull’involucro del prodotto, vi è quasi sempre una fusione tra il logotipo o il marchio e gli elementi figurativi relativi al prodotto.

 

L’umanità geme, per metà schiacciata
sotto il peso dei progressi che ha fatti.

«Le due sorgenti della morale e della religione» - Bergson

CAP. XI

LAVORAZIONI AFFINI ALLE ARTI GRAFICHE

Che cosa e lavoro? E che cosa non è lavoro?
Sono questioni che lasciano perplessi i più saggi
fra gli uomini.

Bhegavedglta

LA LEGATORIA

La legatoria è un’arte antica; la cartotecnica, invece, è una branca moderna della legatoria. La prima è antica come la scrittura. Si è sempre trovato il modo di raccogliere insieme dei fogli scritti. La legatura classica ha avuto la sua fioritura nel medioevo; molte copertine di codici, perfettamente conservate, rappresentano delle vere e proprie opere d’arte. Questi tomi erano robustissimi, la facciata frontale era lavorata nientemeno che da artisti orafi ed incisori, quindi con metalli preziosi e talvolta comparivano incastonature di gioielli. I legatori, come gli amanuensi, erano anch’essi monaci, tanto per variare. Altre copertine venivano realizzate rivestendo sottili tavolette di legno invece del cartone odierno, con sete e velluti pregiati. Poi fu usato il cuoio e la pelle di lusso. La legatoria artistica ha avuto, in un millennio, diverse scuole, una per ogni nazione europea, prima e dopo 1’invenzione gutenberghiana. Cosi gli intarsi, le incisioni a caldo, le cesellature riflettono il periodo artistico e culturale.
Come è facile constatare, nelle librerie o nelle biblioteche, la legatura moderna spesso si riallaccia a certi stili d’epoca, a seconda del contenuto del libro. A parte questi casi sporadici 1’industrializzazione ha favorito il declino della legatura artistica durata fino al secolo scorso con l’alternativa delle semplici legature meccanizzate dell’industria moderna.
Le legatorie artigiane del Napoletano dispongono di poche macchine; distribuite a iosa nella località Corpo di Napoli: Mezzocannone, Benedetto Croce, Forcella, Via Nilo, spesso semiautomatiche e molte di esse vanno avanti grazie alle pubblicazioni a dispense e raramente praticano lavori industriali, tutt’al più legano le cinquecento copie del poeta del palazzo di fronte, il quale tormenta i poveri artigiani sino a che non prova l’orgasmo di avere tra le mani la prima copia del suo capolavoro che ancora esala profumo di resina. Per motivi di lavoro ho trascorso diversi anni in questa zona che è il fulcro della tipografia napoletana vecchia maniera, sia per la presenza dell’Università che per le librerie più famose. Molte altre botteghe sono dislocate lungo la cintura vesuviana: Portici, Ercolano, Torre del Greco, Torre Annunziata, Castellammare, Somma, S. Giuseppe, ecc. In queste modeste legatorie, sebbene si tratti sempre di lavorazione in serie, è la persona fisica a creare una sorta di catena di montaggio del libro.
Le legatorie industriali campane, invece, dispongono di macchine complesse, si tratta di combinate che raggruppano in un solo congegno meccanico piegatrice, cucitrice e tagliatrice, come le brossuratrici, le quali compiono il ciclo completo della legatura di un libro. Il dorso talvolta non viene cucito, ma rifilato e fresato perché la colla speciale penetri in più punti in maniera da rendere l’apertura più tenace. Il libro brossurato viene incassato in una copertina di cartoncino di media grammatura, come è ben noto a tutti coloro che hanno acquistato almeno una volta un libro delle collane economiche. Le legatorie industriali dispongono di tagliacarte trilaterali, i quali provvedono alla rifilatura dei libri intonsi in un solo colpo sui tre lati. Le copertine rigide in tela, o vilpelle, e talvolta di vera pelle o bazzana, sono riservate alle oramai esigue edizioni di lusso, opere importanti come enciclopedie di valore, pubblicazioni artistiche, e via dicendo.
I libri vengono stampati generalmente su fogli distesi nei formati 70 x 100 o 64 x 88; ciascun foglio, a seconda del formato della pagina, contiene otto, sedici o trentadue pagine. Nell’ultimo caso si provvede a stampare meta foglio, cioè 50 x 70 anziché 70 x 100 cm. per evitare fastidi di piegatura, o anche nei casi in cui non si possiede una macchina da stampa superiore alla metà foglio, come nel caso del libro che state leggendo, che è stato stampato in una pianocilindrica tipografica, otto pagine per volta, sulla metà del 64 x 88. Piegando il foglio sempre a metà risulta il sedicesimo del formato: 16 x 22, non rifilato. Ciascun sedicesimo che avrà la sequenza progressiva delle pagine, verrà cucito al successivo; quinterni, quindi, successivamente incollati sul dorso ed incassati nella copertina, nel caso di legatura semplice, come la presente. Il libro si rifila sui tre lati, ed è pronto per la lettura. Nel caso di copertina rigida esso verrà rifilato dopo la dorsatura e poi incollato nella copertina, non gia sul dorso, ma sui risguardi (primo e ultimo foglio di due quartini più resistenti) e la coperta.
Diremo, intanto, legare un libro e non rilegare, come fa l’artigiano quando ripara e riveste un vecchio libro. Alcuni volumi di lusso vengono dorati sui tre tagli, ciò per evitare l’infiltrazione di polvere, ma l’accorgimento serve più a migliorarne l’aspetto estetico e dare prestigio al prodotto. Il procedimento è sempre più in disuso, tranne che per una buona parte di agende personali di buona qualità con, appunto, il taglio oro.
Si sono molto diffuse, negli ultimi tempi, le moderne legature dette a fogli sciolti, che prevedono la foratura del dorso e 1’unione dei fogli con anelli sia paralleli che a spirale, anche se spirale non è ma ne ha solo l’aspetto. Questi tipi di legature, molto semplici e pratiche, non si addicono al libro propriamente detto, ma a pubblicazioni come appunti di studio, cataloghi, campionari, ecc. dove è consentita l’eventuale sottrazione o aggiunta di fogli per aggiornamenti o altri motivi.

LA STAMPA A CALDO

La decorazione dei libri moderni viene eseguita con la stampa a caldo, cioè col trasferimento di un pigmento colorato (prevalentemente oro) disteso su di un sottile nastro di cellophan “foil” e trasferito sulle copertine dei libri attraverso punzoni riscaldati. I punzoni possono essere sostituiti con i comuni clichè di zinco, il sottoscritto usa le stesse composizioni tipografiche a caratteri mobili. Nei casi di lunghe tirature ricorro alle lettere componibili di ottone, resistentissime al calore e all’usura. Ci sono diversi sistemi che consentono la «stampa a dorare», alcuni riguardano la punzonatura manuale degli antichi indoratori praticata irreversibilmente sui dorsi dei libri gia legati o rilegati in periodi precedenti la decisione dell’indoratura, con punzoni riscaldati sulla candela. Poi vi è il sistema più usato dagli artigiani legatori, che consiste nell’indorare attraverso presse a caldo simili a piccoli torchi azionabili da leve manuali. Il piano superiore contenente il punzone stretto in telaio si abbassa su quello inferiore, freddo, su cui è poggiato il supporto da decorare. I caratteri riscaldati premono sul nastro pigmentato interposto tra i due piani, cosicché il calore, sciogliendo il colore solo lungo i tratti del disegno o delle lettere, lascia nitida e brillante l’intera decorazione sul supporto. Io uso una macchina del genere per tesi di laurea e per decorare agende relative alla strenna natalizia.
Negli ultimi tempi si è diffuso un sistema completamente automatizzato, che comunque sfrutta il principio gutenberghiano della rilievografia. La stampa a caldo una volta interessava solo il settore librario, oggi sconfina in quello grafico ed in special modo in quello cartotecnico. Molti flaconi di plastica flessibile, astucci cartacei, oggettistica di fintapelle elettrosaldata, vengono decorati a caldo per la caratteristica di ottima brillantezza che consente il sistema sperie per i colori metallizzati. La stampa a caldo viene anche praticata su oggettistica promozionale di plastica, legno, tutti quei materiali, insomma, duttili al calore e non totalmente duri.

TOTONNO PALLAPPESE, TIPOGRAFO IELLATO

La sosta letteraria questa volta non ci induce a soggiacere spauriti sotto le occulte ed enimmatiche teorie come l’Eros-Thanatos freudiano, e via dicendo, ma ci invita ad una pausa distensiva, dove, comunque sesso e morte non sono esclusi, dal. momento che si parla di essere umani. Chi dovesse cogliere solo trivialità e scurrilità nell’argomento che segue e meglio che volti pagina, con tutto il rispetto per le sue idee. Ma credo che nessuno si scandalizzi con la storia di Totonne Pallappese, perché una cosa è la villania da portuale e un’altra l’umorismo erotico, anche se licenzioso. E poi, come posso ovviare al dato di fatto che tutti i colleghi tipografi della cintura vesuviana siano in un modo o nell’altro avviluppati nella problematica psicosessuale. Infatti il caso di Totonno è affine, anche se diametralmente opposto, a quello di Giorgio scarafone, precedentemente narrato.
La storia di questo tipografo vesuviano, la cui virilità, appunto ignea, si rivelava insufficiente, e patetica ed ilare nel contempo. Un giorno, nella mia bottega di Via Purgatorio dichiarò pubblicamente che la sua coglia fungeva da guanciale, oramai, alla sua mentula logorata ed in avanzato stato di atrofia, e gli epididimi completamente aridi come le dune del Sahara. Non sarebbe il caso di ironizzare, dileggiando un momentino il povero Totonno, ma il sesso e il peto sono i temi centrali dell’umorismo vesuviano, quindi prendiamo la cosa sotto l’aspetto del beneficio sociale di carattere evasivo a base di flatulenza e sessuomania.
Veniamo al sodo, anche se non sarebbe proprio il caso di usare questa frase fatta, perché Totonno pallappese veniva insidiato dalla consorte ventiquattrore su ventiquattro, non escluso le feste comandate, anzi. Lo possedeva fisicamente sempre e dovunque, molto spesso nella sua bottega, ad est del Vesuvio, contro le pianocilindriche, sulle pedane impilate, là dove definire ninfomania, quella della donna, equivarrebbe ad aggettivare piccolo l’Universo. L’ossessa, e non sono iperbolico, si rivelava un’autentica megagalassia erotica in espansione. E poiché non rientrava nel suo ordine di idee la trasgressione monogamica, essendo stata educata dalle teste di pezza, pretendeva il legittimo dovere coniugale solo dal malcapitato, minacciando, spesso, la richiesta d’intervento della Sacra Rota.
Quando, ahilui, mi vidi apparire sull’uscio della mia tipografia Totonno, pallido, emaciato, bacucco che più non si può, venticinque chilogrammi abito e scarpe compresi, prognosticai la, quando prima, raccolta dei suoi resti dal suolo, col cucchiaino, per dirla in gergo. Gli dissi che, purtroppo, era condannato a soccombere sotto un assioma legislativo. Nessuna normativa sociale planetaria si oppone all’ottemperanza del dovere coniugale del maschio, da secoli detentore di priorità erotica attiva, anche se in misura da sanatorio. Doveva agire d’astuzia. Una volta falliti anche i tentativi, suggeritile, della pratica onanistica o del bambolo gonfiabile, doveva inevitabilmente ripiegare con un cavillo da paglietta, diventare, ad esempio, pazzo, a cui tutto e tollerato.
«Con l’aiuto di Santa Veronica, protettrice anche dei tipografi, caro Totonno, dovrai divenire pazzo, e risolvi la cosa, tutto ti sarà consentito e tua moglie si guarderà bene dall’usarti violenza». «Io sono 1’unico uomo al mondo
- rispose Totonno con un fil di voce - che non saprei simulare mai la pazzia, con tutta la debolezza che mi ritrovo addosso mi scapperebbe da ridere... No, non e cosa». «Non devi simulare la pazzia, Totonno caro, devi diventare pazzo sul serio. Lo so che non è facile, ma a parte il fatto che sei sulla strada, basta una spinta e ti verremo a trovare a Capodichino o ad Aversa». Totonno Pallappese al solo udire la parola spinta si afflosciò su di una sedia dietro il mio banchetto d’accettazione: «Solo una spinta ci vuole e poi esco dalla porta coi piedi avanti... No... io non discerno più, scambio i testicoli di ciuccio per lampadine elettriche e prendo le sputazze per monete d’argento. Sono un uomo finito, ormai. Mi sono rassegnato, mi piange il cuore, però, pensando ai ventidue figli miei, potenziali orfanelli».
Io postulavo la mia tesi e gli suggerii di coricarsi per qualche giorno, onde guadagnare la giusta energia per mettere in atto l’espediente, ma alla parola letto reagì con un mancamento. Non potevo usare parole come: letto, duro, seno perché si sentiva male all’istante. «Allora fai una cosa - insistevo - va’ in riva al mare e, ravvivato dalla brezza, mettiti a pensare all’Universo. Quante sono le galassie, Totonno? - L’uomo, o ciò che rimaneva d’esso, scosse la testa. - Sono migliaia - ripresi - se non milioni, o miliardi, chi sa. A che distanza da noi sta 1’ultima galassia sperimeritata dall’uomo? - Totonno Pallappese aveva dei lampi di luce negli occhi, poi delle contrazioni maxillo facciali, quindi i primi sintomi frenopatici. - Milardi di anni luce - aggiunsi. - Toto’ la chiave per diventare pazzo a breve termine è questa. Abbandonati a queste elucubrazioni, intensamente: cosa c’e oltre 1’Universo, ammesso che abbia una fine, e oltre 1’oltre cosa c’e, Toto’, e oltre 1’oltre dell’oltre cosa ci sarà mai?».
Questo episodio rivela un inedito. Nessuno sa che la barzelletta del pazzo e della mazza di scopa, fu ispirata dal caso di Totonno Pallappese, che da quando, quel giorno, l’accompagnai al pronto soccorso, non s’è più ripreso. Ma non mi sento colpevole per avergli insegnato il modo per imparare a volare, non già per tener fede al luogo comune che la pazzia è più vicina alla verità, o per avallare la tesi di Michel Foucault: Mai la psicologia potrà dire sulla follia la verità, perché è la follia che detiene la verità sulla psicologia, ma perché è meglio, tutto sommato, un pazzo vivo che un iper-eterosessuale morto. Avrei voluto dire, però, a Totonno, ma non feci in tempo, che avrebbe dovuto spogliare il suo stato dall’elaborazione culturale dell’idea di pazzia, che alimenta la stessa proprio con il timore diabolico esorcizzante che la gente mostra nei confronti di essa e che si riallaccia sempre al thanatos freudiano, quindi all’angoscia primaria dell’uomo. Avrei voluto dirgli, antifreudianamente, che attraverso la paradossale libertà della follia, senza, pero, l’angoscia culturale ad essa connessa, aveva adoperato la fuga dal sesso e non la sublimazione, per scongiurare l’angoscia della morte.
Avrei ancora voluto dire a Totonno che anche la solitudine, l’emarginazione, scevre da qualsivoglia elaborazione culturale angosciante, sono tollerabili, anche se mai consigliabili, perché eludono il concetto del sociale, quindi dell’amore come inverso della paura. Forse aveva ragione il filosofo quando diceva: Nulla accade a un uomo che la natura (e non la cultura) non l’abbia fatto capace di sopportare.
Appena Totonno Pallappese comincio la spola tra le case di cura, secondo la legge 180, la moglie prese i voti, ritornando alle origini di quelle che erano state le cause dei suoi disturbi sessuali. Ma se i familiari non avessero guardato con sospetto e timore Totonno, egli non avrebbe preferito il covo uterino dell’ospedale per una famiglia di spaventati, perché ancora immersi nell’ignoranza culturale medioevale. Totonno, per dieci anni, ha puntato un asse di scopa verso la Via Lattea all’alba e al vespero. Non ho mai capito se la sua fosse pazzia autentica o scaltrezza napoletana. Quando alla fine gli tolsi la scopa di mano per imitarlo, come tutti sapete mi rispose, come vuole la barzelletta: «Sono anni che non vedo niente io, lui se ne viene fresco fresco e vuole vedere».

LA CARTOTECNICA

Ai nostri tempi la cartotecnica si è scissa dalla legatoria a causa della crescente domanda di materiale precostruito, come buste, sacchetti, registri, rubriche, bloccame e schedame prestampato, scatole, astucci, e un’infinità di altri prodotti derivati della carta. Una volta la fabbricazione di buste e sacchetti avveniva a mano in botteghe artigiane. Solo qualche macchina semiautomatica contribuiva a snellire il lavoro di diecine di ragazze adibite a questo compito. Oltre alle buste, si producevano manualmente cartelline per atti, raccoglitori per documenti, custodie, quaderni, ecc., questo sino a qualche decennio fa. La cartotecnica ha raggiunto 1’entità industriale odierna anche dietro 1’esigenza di una società consumistica, che vuole selezionati e confezionati tutti i prodotti merceologici. La cartotecnica legata al settore commerciale produce astucci, involucri, sacchetti, tutti quei prodotti ottenuti con la trasformazione di carta e cartone. Gli astucci fustellati di cartoncino policromo prestampato vengono prodotti in misura notevole per tutti i settori merceologici, specie in Italia, dove anche gli alimenti devono far bella mostra di sé per trovare chi si interessi a loro. Questo è uno dei motivi perché anche in Italia si fa tanto abuso di medicinali.
Le industrie cartotecniche generalmente stampano in proprio i loro prodotti. In alcuni casi, invece, la cartotecnica è abbinata ad un’officina grafica il cui lavoro viene svolto in stretta collaborazione. Inoltre vi sono ditte che concentrano il loro lavoro su di un solo settore della cartotecnica, così abbiamo gli astuccifici, i sacchettifici, gli scatolifici, ecc. I grossi complessi industriali merceologici hanno in seno all’azienda tipografica la cartotecnica, ed alimentano direttamente il settore confezionamento dei loro prodotti. Non mi soffermo sui prestampati per ufficio, in pratica la cancelleria prefabbricata perché esula dalla cartotecnica, la quale si è inserita, invece, nel settore pubblicitario con la produzione di oggettistica cartacea, quali i calendari, le agende, gli elettrosaldati e tutti quei prodotti la dove vi è la presenza di carta e cartone. Le macchine per la cartotecnica sono tra le più svariate e numerose, come è facile intuire, visto la vastità di prodotti che interessa il settore. Le moderne macchine per la fabbricazione di buste in genere sono dei veri mostri produttivi, che compiono il ciclo completo di lavoro. Alcune macchine vengono progettate per la fabbricazione di un solo prodotto. Ma la principale macchina della cartotecnica è la fustellatrice.
Fustellare significa tagliare singolarmente in sequenza attraverso una lama sagomata secondo la forma di un disegno. A differenza del taglio lineare multiplo effettuato con il tagliacarte, che al massimo può eseguire un taglio trilaterale, di un blocco di carta. La fustellatura avviene per foglio singolo. Le fustellatrici in genere funzionano col principio delle platine tipografiche, infatti io fustello con una di queste macchine. Anche con le pianocilindriche di fabbricazione tedesca e facile fustellare pure i formati grandi. Basta escludere i rulli di forma e posizionare la fustella al posto dei caratteri tipografici. All’atto dell’impressione il cartoncino viene tagliato secondo la sagoma. La fustella ha l’aspetto di un clichè tipografico dallo zoccolo di legno ed al posto del rilievo zincografico emergono le lame taglienti. L’astuccio sagomato, secondo la preventiva progettazione, viene spogliato dallo sfido di contorno ed è pronto per divenire, con le pieghe, una scatola. Noi siamo abituati sempre ad accartocciare gli astucci usati e buttarli nella pattumiera, ma se proviamo ad aprirli con cautela, staccando qualche eventuale lato incollato, avremo sotto gli occhi un cartoncino disteso, sagomato soprattutto nei contorni, e noteremo che al centro della fustella erano state inserite delle lame dette cordoni, che solcano soltanto quei tratti la dove è destinata la piegatura. Alcuni scatolifici producono solo astucci, altri, scatole di vario genere, compresi quelli trasparenti in PVC o acetato, con o senza base vellutata. Tal’altri sono specializzati per la produzione di involucri o cassette di cartone ondulato, i quali hanno snellito e reso pratica ogni tipo di spedizione. La cartotecnica avrebbe avuto uno sviluppo maggiore se non ci fosse stato l’avvento della plastica, che ha in parte sostituito carte trattate e cartone, nonché molti materiali come, ad esempio, i manici dei timbri, tanto per rimanere in tema di arti grafiche. La plastica si è inserita nel settore cartotecnico per la produzione di rubriche telefoniche, custodie, copertine di ogni genere, portatessere, cartelle per atti, ecc. Prodotti che una volta venivano fabbricati rivestendo il cartone con tele o con carte trattate per la legatoria.

LE INVENZIONI...CULTURALI

Pian pianino mi avvio alla conclusione di questo viaggio con itinerario incerto e sregolato con voli pindarici, elucubrazioni e la massima eterogeneità di argomentazioni, però, misteriosamente connesse anche perché non ho compiuto nessuno sforzo per le cuciture e la continuità. Mi rendo conto di aver sfiorato argomenti che con le arti grafiche, sul piano pratico, avrebbero da spartire poco meno che niente, questo apparentemente; ma se si considera che la stampa tipografica, per cinque secoli, si è asservita parzialmente al business, ma essenzialmente alla letteratura, la quale è l’immagine speculare della ragione umana, allora si penserà non solo che vi è un nesso con le argomentazioni, ma si determinerà che l’arte applicata costituisce il braccio, e la cultura la mente dell’uomo. A prescindere dal sentore sincretico dell’affermazione che può cadere accomodante, una cosa è certa, che le arti grafiche rappresentano la concretizzazione più antica del pensiero umano, la materializzazione delle idee e il maggiore strumento di diffusione della cultura, la quale, sotto certi aspetti, è un mostro di traslazione più o meno astratta della realtà, ammesso che la realtà possa concretizzarsi nella dimensione umana della ragione, mai appagata sul mistero della vita e della morte.
La speculazione di pensiero ha messo su gigantesche impalcature inventive che, come torri babeliche, si propongono da secoli se non di risolvere, almeno di dare una dimensione razionale a ciò che si trova al di là della soglia della ragione umana. L’uomo non si rassegnerà mai della sua impotenza rispetto al mistero. Le più grosse invenzioni dell’uomo, dunque, sono proprio in seno alla cultura. Al di là della religione queste cattedrali assiomatiche si sono così incancrenite nei secoli, che la loro essenza è entrata a far parte delle cellule e dei geni.
L’incesto, ad esempio, era una cosa aberrante anche per Freud, come lo è per tutte le persone civili, come noi tutti; una più audace riflessione, però, ci chiarisce che esso, a prescindere dalle Sacre Scritture, è un tabù che fa perno anche sui problemi concezionali causati dai rapporti tra consanguinei, cosa che non inibisce gli animali non dotati di ragione e di cultura se non quella meramente istintuale, materializzata solo nel DNA.. Ma l’angoscia dell’uomo, legata al timore di una probabile assenza salvifica, è strettamente connessa alle pulsioni inconsce gia dalla “sessualità prenatale” lubrico-uterina e post-natale epidermico-mucotica del complesso rapporto mamma-neonato. Fisicità naturali ed innocenti che, elaborate e censurate poi dalla cultura, provocano negli immaturi, cioè i non domati, i più devastanti sensi di colpa che la sfera emotiva dell’uomo possa incamerare e sfociano inevitabilmente nell’unico drenaggio dell’angoscia, perché richiamano costantemente l’idea dell’inferno.
Le sospettate o coatte idee incestuose mai chiaramente manifeste restano quasi sempre istintuali e mai chiare pur se morbose, e deprimenti perché aberranti; ma nella quasi totalità dei casi i sensi di colpa relativi ad idee incestuose inesplicabili perché latenti, legate all’età evolutiva, non lasciano rivelare la loro natura in superficie e si manifestano come un’angoscia indefinita, precludendo ogni tentativo di rimozione.
Tempi duri per sublimare arti e professioni cosiddette nobili, o rifugiarsi nell’ascetismo, nella poesia, che quasi sempre riflettono l’infermità esistenziale. Il lavoro, vasto terreno di sublimazioni della massa, atto a scongiurare la problematica esistenziale approfondita, viene compromesso dall’alternativa robotica. Il lavoro a misura d’uomo, spersonalizzato sul parametro del potere economico, assorbe l’energia mentale al popolo onde garantire il supporto per reggere i compromessi psichici con la realtà esterna.
Altre invenzioni culturali sono quelle relative alle idee della bellezza e della ricchezza, che condizionano l’esistenza di miliardi di persone, pur appartenenti alla priorità numerica. Se si tien conto che la massa planetaria è in netta maggioranza non bella e non ricca, non è vero, allora, che sempre la maggioranza vince, forse non vince quasi mai. Ma il bello e il successo sono un potere caduco, e oltre a ledere i brutti e i poveri, finisce, in fondo, col danneggiare i propri detentori, che, se non compiono sforzi sostenuti onde evitare il decadimento, finiscono col cadere in un’angoscia maggiore. Diceva Daniel Mussy: La bruttezza ha un vantaggio sulla bellezza, dura per sempre. Io aggiungo pure la povertà.
Un’altra elaborazione culturale di un’idea, nel maschio, e il concetto dell’eroe, molto diffuso nella terra vesuviana, portato su nel tempo dai lazzaroni prima e dai malavitosi loro discendenti, dopo, si rifà ai moduli. classici della letteratura romanza e provenzale. Concetto esportato anche nel Nuovo Mondo, dove si può attingere dalla letteratura western. Oggi, grazie a Dio, il concetto dell’eroe e stato rivisitato in chiave psicologica. Gia i napoletani meno incoscienti, non codardi, beninteso, hanno sempre detto: “Il miglior guappo e quello che torna a casa”. L’eroe è tale solo se inconsapevole. Solo un soggetto condizionato dall’opinione altrui e dotato di una buona dose di incoscienza rischia la vita per un ideale le cui basi perdono acqua da tutte le parti. Non è vero che l’eroe non si ama, egli trabocca di amor proprio a tal punto da sfidare la morte, quasi sempre convinto di cavarsela perché obnubilato dall’orgoglio; ma da una confusa valutazione di se stesso, perché ignora la propria potenzialità umana se non nella misura dell’irruenza e dell’irrazionalità. Un uomo equilibrato, legato ai mille interessi che la vita gli ha proposto non rischia di morire solo per tener fede all’elaborazione culturale di un’idea. Diceva Pirandello: E’ più facile essere un eroe che un galantuomo, eroe si può essere una volta tanto, galantuomo si dev’essere ogni giorno. Nella cintura vesuviana, come in tutto il sud, il concetto dell’eroe e anche strettamente connesso alla virilità maschile.
Alle donne, per contro, vengono concesse tutte le debolezze e le paure, più che in ogni altra parte del globo. Anzi, il coraggio e l’intraprendenza in una donna sono sintomi di mascolinità. Il maschio vesuviano che non si difende dalle minacce ingiuriose o, semplicemente dal dileggio sente non solo di perdere la dignità, ma vede compromessa la propria virilità sedicente ed ostentata sin dall’infanzia come per scongiurare ogni sospetto. L’obnubilato subito annulla l’istinto di conservazione, nonché affetti, averi, timori di assenza salvifica e si precipita come un kamikaze sulla nave dell’incoscienza. L’atteggiamento è modificato, però, nei casi di vis-a-vis, questo dimostra come gli occhi del mondo e l’opinione altrui influiscano sulla nostra esistenza. Anche, soprattutto, nella corsa al successo tradotta in potere-danaro. Non desidero far passare per caratteriali delle condizioni mentali presenti in molti gruppi sociali, voglio solo sottolinearne la frequenza, a costo di essere tacciato, dai miei cari circumvesuviani, di psicopatia, bruttezza, codardia, che giustificherebbero il movente delle considerazioni esposte.

I TIMBRI

L’ultima nota tecnica di questo lavoro riguarda la fabbricazione di prodotti abbastanza a margine delle arti grafiche, ma che ne assumono molte peculiarità. Non tutte le botteghe artigiane si cimentano nella fabbricazione di timbri. Il motivo del dissenso è poliedrico. Alla base vige il convincimento che la produzione di timbri non eseguita a tempo pieno rappresenti una perdita di tempo prezioso da sottrarre ad operazioni più remunerative. Intanto il sistema classico per la produzione dei timbri ne prevede una quantità minima per giustificare la convenienza economica in relazione al lavoro da svolgere, che resta quasi immutato rispetto ad un numero esiguo o nutrito di timbri da realizzare, perché le fasi di lavorazione rimangono invariate, indipendentemente, appunto, dalla quantità di timbri. La composizione linotipica non fa pesare nemmeno alla mia persona il numero delle righe destinate alla trasformazione in gomma. Bisogna confessare che noi altri fabbricanti di timbri ci strofiniamo le palme delle mani in vista di leggi e riforme di natura fiscale, perché in quelle occasioni sforniamo, è proprio il caso di dire, centinaia di nuovi timbri. A sollevare la precarietà stagnante delle botteghe artigiane di provincia è proprio tale mago della pioggia, concretizzato nei provvedimenti legislativi, riforme fiscali o sanitarie, consultazioni elettorali, ecc. In questi casi la bottega artigiana concentra l’attenzione sulle richieste del momento, vincendo un po’ la precaria situazione delle commesse legata ad una domanda sempre più labile, riscattando, infine, anche se per pochi giorni da leone, la dignità professionale, compromessa dalla concorrenza nei tempi di magra.
Un altro momento buono, per le botteghe artigiane e la primavera. Almeno nella mia Torre del Greco, marzo è provvidenziale per i tipografi. Gli sposi, sortiti dalle loro tane compaiono, sebbene incerti, sull’uscio della bottega, già spalancato al primo tepore di primavera. Quando i colombi sono accompagnati dai genitori, allora la scelta delle partecipazioni si tramuta in una vera farsa. E’ oltremodo malagevole conciliare le parti. Si troverà la mamma di lei, professoressa di lettere, che esigerà il carattere stile inglese, mentre la genitrice di lui laureata in informatica, preferirà il carattere byte dei display. In alcuni casi la controversia origina una vera e propria guerra fredda. Le suocere, indispettite, ragionano oramai per partito preso. Tutto ciò che va bene ad una fazione, inevitabilmente va male all’altra. Immaginate dieci persone agitate, accalcate in quei due metri quadrati di pavimento che dispongo all’ingresso, innanzi al banchetto di accettazione. In breve si odono mugugnii e ciancicherie. Non è raro che i Montecchi e i Capuleti comincino anche a trascendere verbalmente; in qualche raro caso si è verificata una vera e propria rissa, in qualche caso cruenta, dopo di che i colombelli, per quanto mi risulta, non si sono mai più uniti in matrimonio.
I timbri e le targhe provengono quasi sempre dalla stessa bottega artigiana, almeno nel Napoletano, sebbene siano prodotti rispettivamente con attrezzature per nulla attinenti tra loro. Ma come tutti i sistemi di lavorazione pure i timbri e le targhe sono indirizzati verso processi di fabbricazione trasformati o diversificati. I timbri, ad esempio, sono stati sempre ottenuti con la realizzazione di una copia in gomma della composizione tipografica, in pratica il processo stereotipico ampiamente descritto in precedenza. La composizione tipografica, stretta ed impugnata, è essa stessa timbrabile, pur se rigida, analogamente il cliché di zinco. Se montiamo su di un’impugnatura una piccola composizione tipografica od un cliché abbiamo ottenuto un rudimentale timbro di metallo come quelli che si usano in banca o alla posta, destinati a durare nel tempo. I timbri di metallo richiedono, però, un piano morbido per ottenere una timbratura uniforme. La cosa si ovvia con l’utilizzo di un rettangolo di feltro o di gomma disposto sotto il foglio da timbrare. Questo accorgimento permette di ammortizzare la pressione irregolare che esercita la mano dell’uomo, in più consente la leggera impressione, caratteristica della rilievografia. Non sempre, però, si dispone di feltro o gomma, quindi si pensò di invertire i fattori, si lasciò la scrivania dura e si rese morbido il timbro.
Se i cliché, in passato, anziché di zinco l’avessero potuti realizzare in gomma a copiatura vulcanizzata dei timbri da una composizione tipografica, non sarebbe sussistita. Anche se in ritardo, oggi questo è ccaduto. Con le sostanze fotopolimeriche morbide èpossibile fabbricare timbri di ogni genere, compreso quelli figurativi, la dove, col procedimento tradizionale, necessita il cliché di zinco. La pellicola negativa di ciò che deve divenire timbro, la si mette a perfetto contatto con la lastra fotopolimerica morbida presensibilizzata, (oggi in resina liquida che si solidifica durante il processo), indi la si espone alla luce attinica ultravioletta. Dopo pochi minuti la lastra viene immersa in acqua tiepida per essere spazzolata fino a che le parti non colpite dalla luce, ancora solubili si sciolgano, lasciando affiorare solo il rilievo delle lettere o dei disegni costituenti i vari timbri, da tagliare e montare sui manici.

LE TARGHE

L’incisione è una tecnica scrittoria molto antica. Lo sviluppo del sistema, però, si è avuto con l’avanzare della meccanica nei secoli scorsi. Furono così ideati e realizzati dei pantografi a copiare, completamente evoluti con l’avvento, poi, dell’energia elettrica, quando queste macchine furono motorizzate. Le targhe, ancora oggi, vengono in parte incise con pantografi manuali, e la copiatura da matrici sistematiche, cioè piastrine di metallo su cui sono stati preventivamente incisi i solchi delle varie lettere dell’alfabeto. I pantografi semiautomatici, automatici fino ai modernissimi modelli elettronici interfacciati al computer, che non si sono ancoradiffusi in maniera capillare.
Col sistema tradizionale le lettere-matrici, generalmente di ottone, vengono disposte nel compositoio secondo le diciture da incidere. Il compositoio viene fissato al pantografo sotto il dito guida. Tutti sappiamo cos’è un pantografo da disegno, quindi è superfluo spiegarne il principio di quello per incidere che è pressoché uguale solo nel principio. Quello per incisione è realizzato in lega, e le sue parti mobili vengono montate con una precisione meccanica che rispetta il millesimo di millimetro, ciò, innanzitutto, per garantire la regolarità dei solchi eseguiti dalla fresa. Il dito guida provvede a scorrere nei solchi delle matrici disposte nel compositoio. Dall’altro lato la fresa compie gli stessi identici movimenti penetrando nel supporto da incidere con un sistema di discesa a regolazione micrometrica. In più vi è la possibilità di ridurre (qualche macchina, come quella che adoperi io, consente pure l’ingrandimento) la dimensione delle scritte composte, attraverso, come è noto, la regolazione dei bracci meccanici, servendosi delle scale graduate.
Le targhe comuni sono realizzate in ottone, alluminio, plexiglas, ecc. Alcune sono guarnite da cornici fuse prefabbricate in serie, altre sono trasformate in ovali convessi, in rettangoli con bordo, ecc. I caratteri sono limitati rispetto ad un campionario tipografico. Oltre le comuni serie di bastone condensato, normale od espanso, gli incisori napoletani dispongono appena dello stile inglese e del gotico. Caratteri speciali o disegni vengono realizzati attraverso la copiatura da un clichè tipografico negativo che si adatta al dito guida, cosi pure per realizzare disegni.
La fresa-pantografo interfacciata al computer non ha nessuna limitazione grafica e consente di riprodurre sui supporti qualsiasi elemento grafico, nessuno escluso, sempre, chiaramente nella dimensione del pluri-monocromatico.
Le targhe di plexiglas sono le più diffuse poiché questa materia non richiede manutenzione dall’intestatario. L’incisione avviene a rovescio, nella parte posteriore della targa vista di prospetto. L’ottone ed altri metalli, benché trattati con vernici protettive, prima o poi vanno soggetti ad ossidazione, quindi richiedono se non rispazzolature, almeno lucidature manuali con i comuni prodotti adeguati. La realizzazione di una targa non è un lavoro da sottovalutare poiché, come tutti i lavori grafici, come dire, di presentazione, riflette la personalità, il gusto, la professionalità del suo intestatario. Coloro che realizzano targhe dovrebbero essere in possesso delle medesime cognizioni grafiche di un buon tipografo: senso delle proporzioni, gusto, grazia, equilibrio, in una parola: l’euritmia. Ma ciò non accade sempre. Molte targhe vengono esposte liberamente, nella terra vesuviana, anche quando rappresentano degli aborti di composizione grafica. Infine, per concludere, bisogna dire che molte targhe, specie quelle di grande formato, o quelle prodotte in serie, vengono realizzate in serigrafia, con ottimi risultati, anche perché si possono ottenere maggiori finezze di dettaglio, più combinazioni di colori, e la realizzazione di immagini. L’applicazione di prodotti ad intaglio si è rivelata utile per targhe di grande dimensioni, anche se si prende in prestito una tecnica che è specifica per le insegne.

IL LINGUAGGIO OSCURO NELLA LETTERATURA

E così, pagina oggi, pagina domani, tra un avviso di lutto ed una partecipazione di nozze, sono arrivato al termine di questo particolare zibaldone. Tenterò ancora l’ultima divagazione, anche se gli argomenti umanitari esposti con linguaggi moderni finiscono con l’apparire freddi ed asettici anch’essi. Soffermiamoci, appunto, sui linguaggi settoriali, i quali rappresentano un problema per gli stessi linotipisti o fotocompositori, un po’ come le lingue straniere, e ripetiamo pure la massima di Rene Clah: “Diffida dell’uomo e della sua mania di fare nodi”. Una delle tante cause che hanno riallontanato l’uomo medio dalla lettura in genere, creando ostacoli allo sviluppo delle Arti grafiche, è la deliberata ricerca del gergo complicato di molti scrittori sia di testi letterari che tecnici, al di là della prosa sperimentale, della poesia ermetica e della stessa critica letteraria, la quale, a mio modestissimo avviso, serve solo, nelle prefazioni di libri delle collane economiche, a scoraggiare in primis l’uomo medio dal proseguimento della lettura del testo, per la massiccia macchinosità del linguaggio con articolazioni concettuali che definire complesse, intrecciate, astruse ed arzigogolate, e come dire facile 1’arabo... (Senza nulla togliere alla inconfutabile maestria artistico-intellettiva, se pur elitaria). Sara forse l’antica necessita di apparire dotti a tutti i costi, elevandosi a ranghi superiori atraverso una scrittura talmente adulta, che per essere compresa si dovrebbe stare dopo la vita, dove tutti gli enigmi vengono chiariti, almeno presumibilmente.
Spesso ci si trova di fronte ad una scrittura che va al di là dell’aulicità delle dottrine regolate da schemi comunicativi particolari. Ciò compromette, senza dubbio, la chiarezza e l’intellegibilità. Ma il virtuosismo rasenta il sortilegio ed ammalia sé per primi, tanto che pure il sottoscritto, modesto bottegaio tipografo dal colorito olivastro, con gli abiti unti e sdruciti, risente il fascino arcano e ne cade nella malia, incapace di sottrarsene come Ulisse dal coro delle sirene, formulando dottrinarismi e astrusità anche in questo libro per il desiderio irriducibile dell’uomo, eterno bambino, dell’ammirazione, di una sorta di potere che gli altri non hanno. Ma talvolta certe pagine indovinate, anche se sature di tecnica anche contrapposte a pregnanza poetica o a gradevolezza prosastica provocano musicalità ed esaltazione all’autore stesso che vspera di trasmettere queste senzazioni negli altri, spesso in buona fede. Cert’è che la verbosità pomposa del linguaggio, l’uso continuato di neologismi e termini rari sfociano inevitabilmente nell’oscurità concettuale, a prescindere dalla dialettica o dall’ermetismo. E’ peggio che dottrinalizzare il testo con numerose locuzioni latine e proposizioni di lingua straniera, perché ciò, almeno, è lessicamente traducibile.
Questa necessita di oscurare il linguaggio nasce, in altri casi, invece, probabilmente da un bisogno di sopraffazione mestierante, che utilizza tecniche e trucchi settoriali ad uso egemonico ed intimidatorio. Si tratta, d’altra parte di espedienti antichi, adoperati gia da scribi e sacerdoti, che articolavano costrutti ambigui conformi al mistero ed al proibito, per incutere stupore, timore e soprattutto ammirazione. Come se non bastasse, l’italiano d’oggi è una lingua anche purgata dall’invasione della terminologia angloamericana e dagli stranierismi europei, nonché dalla proliferazione di sempre nuovi termini scientifici, non solo, ma dallo sviluppo camaleontico del gergo giovanile. Alcune parole assumono significati diversi non già nell’arco di qualche decennio, ma di appena un biennio o meno.
Pasolini già negli anni sessanta diceva che il nostro era diventato un italiano tecnocratico e strùmentalizzato, a prescindere, chiaramente, dalla sperimentazione del linguaggio gergale della sua dilogia che rimaneva fine a se stesso. Così leggiamo: cosificare e cosalizzare per: trattare come una cosa; gambizzare per: ferire alle gambe; invarianza per: costanza; lupara bianca vuol dire omicidio con volatilizzazione di cadavere; mainframe: grande calcolatore; Nientologo e tattologo come: pseudo onniscente; palista: chi possiede un televisore col sistema PAL; picista: iscritto al P.C.I.; pule: poliziotto, ecc. ecc. Invadono gli stranierismi: medicult: cultura media; eskimo: giaccone tipo eschimese; pop singer: cantante popolare; kitsch: cattivo gusto; strech: minigonna elasticizzata; comics: fumetti; dream car: automobile di sogno, ecc. ecc.
Queste cause, gli audiovisivi, fiction, ecc., hanno dirottato le Arti Grefiche verso il commerciale, hanno contribuito ad abbassare il già scarso interesse degli italiani per la lettura, che non è più stimolatrice della fantasia, ma provocatrice di sforzi interpretativi infruttuosi risolvibili solo con l’alternativa di avere più tempo e pazienza per aggiornamenti settoriali e lessicali. Tempo e pazienza, ciò che l’uomo moderno non ritroverà forse mai più.


Non sempre ciò che viene dopo è progresso.
«Del romanzo storico» - Manzoni

CONCLUSIONE

La lunga chiacchierata a senso unico del vostro modesto bottegaio tipografo si conclude con questi ultimi righi, composti col piombo fuso ideato da nonno Gutenberg. Riconosco che ha influito sul testo pure la componente nostalgica della mia trascorsa età giovanile, e la visione, in chiave psicologica, del caratteriale vesuviano, da un’ottica, chiaramente, soggettiva ed opinabile. Devo, a proposito, aggiungere che, se pur vi è sentore di dissenso o aria di polemica, tutte le considerazioni esposte sono state formulate in buona fede, perché, anche se in maniera desueta ed un tantino apprensiva, non ancora panica, celano una incommensurabile dichiarazione d’amore al mio popolo, che mi dispiace veder mutare sotto le pressioni negative della società.
Gia s’avverte l’intolleranza massificata verso la già, per certi versi, nociva civilizzazione, per dirla col padre della psicoanalisi. Questo non toglie, dunque, che al di là dell’oggettivo si può riscontrare lungo il lavoro una sorta di risentimento personale caratteriale (oltre le eventuali discrepanze e contraddizioni, proprie, comunque dell’uomo comune, fuori dai partitopresismi, caduco d’incertezze e dubbi), un desiderio vago, cioè, di rivalsa inconscia, perché a tutti gli uomini la maturità intacca il primo candore puerile, ed ognuno sente il bisogno di riscattare questo torto ricevuto da tutti e da nessuno. Bisogna tener presente che, tutto sommato, a prescindere dalla minoranza dei popoli ancora oppressi, le masse, oggi, sono governate in maniera, se non ottimale, senza dubbio tollerabile, facendo perno, in linea di massima, sulla grande conquista planetaria in materia di diritti dell’uomo. La crisi, secondo me, non è da ricercare nelle istituzioni politiche, religiose o culturali in genere, che, malgrado ingerenze di varia natura, tentano di fare del loro meglio, anche se apparentemente, in modo tendenzialmente dissacratorio, si è portati a pensare il contrario; ma nell’individuo, oggi più che mai ossessionato dall’intensificarsi dell’ansia relativa all’insoluto esistenziale. Caratteriale che induce all’isolamento affettivo non solo nel contesto urbano, ma nelle mura domestiche, Ogni individuo che attraversa questo stadio costituisce un virus, che insieme agli altri, quando non si riscontra il crollo individuale, rappresentano la cancrena, altrimenti detta nevrosi di massa, senza voler ancora pensare alla psicosi collettiva. Questo fenomeno moderno, quando si supera la politica dello struzzo, è misurabile attraverso le tonnellate di psicofarmaci venduti nel mondo, senza contare la droga e l’alcool. Le statistiche, a riguardo, fanno rabbrividire. Una rancida massima dice: “Tutto si compra col danaro, l’amore solo con l’amore”. Non se ne coglie retorica quando si parte dal presupposto che l’amore e l’inverso della paura e suo scongiuro, oggi più che mai, nella storia dell’umanità.
Durante i cinque secoli di stampa a caratteri mobili, numerosi sistemi paralleli all’invenzione gutenberghiana sono stati sperimentati e messi in opera per coesistere, perché ciascuno dava la risposta ad un’esigenza particolare, ad un’utilizzazione specifica che prescindeva o pertingeva l’arte scrittoria; ma dopo cinque secoli molte tecniche, ed in ispecial modo quella tipografica propriamente detta, diventano, insieme alle loro attrezzature, argomento storiografico e materia da museo, ad appena pochi decenni dal loro massimo perfezionamento. La stampa a caratteri mobili, legata da sempre ad opere letterarie, vuoi teologiche, filosofiche, poetiche, narrative, scientifiche e giornalistiche, a mano a mano si sviluppava, risentendo l’espansione demografica e l’alfabetizzazione, favorendo l’evoluzione dell’editoria. Il progresso industriale legato al consumismo edonistico e quello scientifico del XX secolo hanno dirottato l’indirizzo dell’ arte nera, dall’alfabeto alle cromotipie tetrabasilari relative ai prodotti commerciali, moltiplicando a dismisura i supporti di informazione visiva, dalla pubblicità rotocalcografica a quella da contenimento, come astucci, flaconi, carta da imballo, sacchetti, scotch adesivo e via discorrendo. La scriptura artificialiter si è irrimediabilmente diversificata adattandosi alle nuove tecnologie ed ai moderni prodotti oggettuali da decorare, per non soccombere sotto la crisi editoriale e i concorrenti mass-media di natura elettronica. Nel 1450 Gutenberg inventò la stampa a caratteri mobili destinata a rendere veloce non già la formazione delle pagine, ma la copiatura di esse una volta ultimata. Sistema prioritario per cinque secoli, coadiuvato da tecniche parallele per la riproduzione veloce di immagini, la vecchia xilografia e la calcografia, le cui preparazioni delle matrici, compreso il sistema gutemberghiano, risultavano procedimenti lenti e laboriosi.
Nel secolo scorso i caratteri mobili venivano meccanizzati, le macchine tipografiche godevano della totale automatizzazione, migliorate dopo l’avvento dell’energia elettrica. La scoperta del clichè tipografico, infine, costituiva l’ultima pietra miliare di una strada che sarà subito devastata dall’elaborazione di due vecchie tecniche in letargo da secoli, la litografia, perfezionata in stampa offset, e la calcografia, valorizzata in stampa rotocalco. La stampa offset, più del rotocalco, grazie alla massiccia varietà d’impiego, rappresenta, oggi, grazie pure all’elettronica ed all’informatica, la vera rivoluziane di tutti i sistemi, universalmente accettata quale procedimento planografico duttile, poliedrico e soprattutto veloce, conforme, cioè, alle esigenze, non alle necessita, di una società che corre per il solo scopo di scoprire, in fondo, chi muore prima e male; non guasta ripeterlo.
Le osservanze pratiche della stampa offset sono la climatizzazione degli ambienti, la stabilizzazione dell’energia elettrica, la costanza e la buona conservazione delle materie prime per garantire, non già la buona riuscita delle cure delle infermità, come negli ospedali, dove si rispettano grosso modo le stesse norme, ma la spersonalizzazione collettiva, il disagio psichico, tradotti, nella fattispecie, nella standardizzazione dei risultati grafici, a svantaggio del gratificante lavoro a misura d’uomo, dove è prevista la partecipazione emotiva diretta, epidermica, emicranica post-sollievo, psicologicamente salutare, a mo’ di Petrolini, che portava le scarpe strette per trovare ristoro quando se le toglieva; lavoro umano perché non ingerito dagli asettici cervelli elettronici.
Le macchine fotoriproduttrici devono essere esenti da vibrazioni e dal benché minimo pulviscolo, non parliamo dell’umidità... Questi sono i cervelli artificiali, delicati e vulnerabili come gli ammalati gravi, perciò possono perdere la testa e farci del male. Risentono urti e manipolazioni energiche. Ricordo, a proposito, le revisioni fatte a queste macchine, nel Napoletano, dopo il terremoto dell’80. I locali del computer (la fotocomposizione) devono essere al riparo dalle variazioni termiche, dai vapori chimici, dai campi magnetici. Mia nonna, buonanima, aveva più salute addosso, a ottantacinque anni. Bisogna riconoscere, però, che la vegliarda non consentiva la riproduzione elettronica delle immagini, con la possibilità di eseguire selezioni a tono continuo o retinate, mediante retini a contatto o retinatura elettronica. La poveretta, a mala pena, negli ultimi anni, riusciva a discernere il Vesuvio dal pennacchio, da una vecchia cartolina, ma il suo cuore ancora vibrava.
I fotoapparecchi laser, senza ombra di dubbio privi di cuore, consentono tutta la gamma di riproduzioni dell’immagine in negativo o in positivo. I documenti possono essere memorizzati e archiviati su supporto magnetico, utilizzati subito o trasmessi a distanza. I densitometri, o sistemi di controllo elettronico, eliminano ogni possibilità di errore sia nei lavori a tratto che nelle policromie. Gli assemblaggi, spesso, vengono eseguiti con l’ausilio di schemi anche prefissati in maniera da consentire la massima celerità del lavoro, a svantaggio della salute mentale. La cibernetica oggettualmente concretizzata trionfa vittoriosa, il cervello umano già viene parzialmente sostituito con successo, e superato in certe sue potenzialità, infatti le macchine non sbagliano quasi mai, intanto non soffrono, l’angoscia non rientra nel loro ordine d’idee. L’uomo le invidia per questo, vorrà emularle. Non è lontano il giorno, probabilmente, in cui il tipografo verrà digitalizzato perché sarà una macchina egli stesso, un robot dagli occhi vitrei, la voce metallica e cadenzata, e senza cuore.
Uomo, tu non servi più, altri uomini fabbricano quanti ne vuoi di te, meno costosi, poco esigenti in maniera di diritti. Uomo comune, ti mettono da parte, diventi improduttivo, inutile. Ah, povero Marx, quale utopia la tua! Poveri, bottegai tipografi, quelli onesti, irriducibili e incorruttibili, pressati in Campania da tutte le parti... Sopravviveranno col loro lavoro a misura d’uomo, trasognanti nella fragranza della poesia del piombo fuso, oltre che col proverbiale nutrimento di aria, sole e canzoni? Care, vecchie, fuligginose tipografie artigiane, addio! Non mi dispiace di chiudere in retorica. Le cose che sanno di latte materno, di corse nei prati, di candore ed onestà non sono esprimibili con linguaggi moderni, artificiosi, istrionici e fallaci.
Care botteghe disperse nelle viottole barrocciabili delle contrade rurali vesuviane, o negli anfratti oleografici dei centri storici, nel labirinto dei dedali della provincia prischiana; neri fondachi dell’arte nera, nei quartieri bassi dei paesini campani più antichi. Care botteghe adattate negli stambugi nascosti dei vicoli mai risanati della Napoli povera di delbalziana memoria, o nei tuguri addossati nelle traverse dei numerosi centri urbani abbarbicati alle pendici del Vesuvio, o quelli che vanno da Capo Miseno alla Punta della Campanella, o altri ancora dell’entroterra fino al Casertano, all’Avellinese e al Beneventano, addio!
Tipografie romantiche, prestigiose gemme nere della cultura partenopea, là nei sottoscala, lungo i chiassuoli vocianti, non carrabili, nei cortili, sull’aia, sotto balaustre o balconi addobbati di garofani e rose, tra portoncini, scalette e portelle, negli androni infossati sotto spicchi di cielo azzurro e bucato sciorinato al sole. Addio ! Le tecnologie industriali da multinazionale vi braccano, come i nazisti i poveri ebrei e, afferrate, vi sopprimono, come cose inutili, anzi dannose.
Care, vetuste, cupe botteghe tipografiche, con buona pace di Senefelder, dove i camici neri seraiani digrumavano la colazione meridiana con nient’altro companatico che peperoni arrostiti e cime di rapa, sbirciando dall’uscio della bottega con quel sorriso d’intesa tra colleghi, pacato ed ebete, le compaesane sulla strada, dagli occhi svampiti e il colorito roseo, sempre copiose di forme. Più in là la gaiezza puerile degli scugnizzi, eredi ideali dei lazzaroni, sempre alla ricerca di frivolezze e nullagini per essere felici, come i policromi rifili del tagliacarte, da utilizzare a mo’ di coriandoli in quella lunga carnevalata che è la loro esuberante giovinezza.
Il tipografo artigiano vecchia maniera muore con la Serao, con Marotta, con la Napoli oleografica, sostituita dalla nuova cartografia urbana di una città ed una provincia irriconoscibili, con i falansteri della 167 di Secondigliano, e di tante Cattedrali nel deserto dell’area campana; con gli agglomerati caotici, densissimi di popolazione, urbanisticamente irrespirabili, automobilisticamente infernali della provincia mai più addormentata; con l’ultimo baluardo dell’europeizzazione vesuviana, (il riferimento non riguarda l’Europa unita di fine secolo. N.d.r.) il Centro Direzionale che s’erge turrito e glaciale nella babele dei giorni nostri. Intanto anche l’industria tipografica robotica impera, e spersonalizza!
E’ destino che il popolo, altro che sovrano, in ogni epoca debba subire nuovi malesseri ? Il benessere economico, la corsa ossessiva per accaparrarsi la fetta di potere suggerisce l’illusione di una migliore qualità della vita, edonistica, forse, ma al di la dell’etica e dei sentimentalismi romantici e della morale di stampo religioso, il vero benessere, la salute mentale, quale società, quale reame, quale cultura l’ha mai garantita o la garantirà mai, ammesso che questo sia di loro pertinenza.
Il domani, infatti, viene deciso anche sulle nostre ginocchie di madri, dal nostro seno che nutre, dalla nostra capacità di sconfiggere la paura evitando, spesso, d’amarci nei figli e non credere di amarli, come diceva Nietzsche. Possibile che l’uomo non trovi una strada finalmente idonea per liberarsi dai suoi miraggi di salvezza atti a scardinare i timori del suo insoluto esistenziale, con reazioni difensive diversificate e contrapposte? Nonno Gutenberg, tu che sei nel cosiddetto mondo della verità, illumina l’umanità in questo senso, scagiona, per dirla coi settari, almeno i tuoi fedeli successori, noi tipografi del piombo fuso. Come? Con il danaro, ingenuo di un teutonico. Mandaci una quaterna ciascuno la settimana, diverremo una forza, vedrai. Rimanderemo i computer in Giappone, e rifaremo Napoli l’antica fetta di giardino del mondo. Useremo le stesse armi, il denaro contante. Vinceremo, vedrai. Se occorre il danaro, molto danaro, per ritornare un popolo d’amore, lo troveremo, come ai tempi dei riscatti baronali. Mandaci le quaterne, vedrai…
S’e fatto tardi, sono un po’ stanco, le palpebre si baciano ripetutamente ed ostacolano la visuale della tastiera. Il piombo è finito nel crogiolo. Fuori imperversa una procella. Quasi mi appoggio alla Linotype e mi addormento, ma è maniacale, mi ricorda Quasimodo alla fine del Notre Dame cinematografico. Ah, ecco, ora so da dove insorge la tristezza. Intanto scusami, nonno Gutenberg se ho sfruttato la tua grande scoperta non solo per campare, ma questa volta per esternare quasi arbitrariamente opinioni e gridi di speranza, nella consapevolezza che, in questo mondo di ominidi folleggianti, vi sono ancora milioni di persone a cui non viene dato nemmeno il diritto di rantolare: “Mi lasciano morire”, o peggio, “mi uccidono”. Questi autentici gridi disperati, legati a tutti i tipi di morte umana, comprese le condanne a vivere, vengono accolte dalla stampa essenzialmente per motivi di canard. Io mi vergogno nei confronti di questa gente che non può lasciar leggere nemmeno una parola delle loro legittime rimostranze. Io mi vergogno di aver detto tanto e loro nulla, mi vergogno pure di appartenere alla stessa specie di quella minoranza dannata che non già solo tappa loro la bocca, ma, quale muro di gomma, fa conto che non ce l’abbiano.
A margine del lavoro è doverosa una precisazione. Ricorre nel testo il tema dell’angoscia esistenziale non gia relativo all’Eros-Thanatos, ma all’interrogativo primario di finibilità umana in stretta relazione all’elaborazione culturale dell’assenza salvifica post-mortale. Prima di tutto questa angoscia è quasi mai esplicita, quasi sempre affiora in superficie in maniera del tutto traslata, attraverso, cioè, tutta la scala di toni comportamentali, dall’annichilimento passivo religioso, caratterizzato dal fanatismo intenso, all’esuberanza, all’aggressività socio-politica, fino alla delittuosità. La supposizione di un popolo vesuviano depresso è da interpretare diversamente. Il caratteriale del napoletano e vesuviano per estensione, è stato sempre e rimane prevalentemente reattivo-positivo: ironia, scaltrezza, esuberanza, umorismo e via dicendo. Tutto ciò che eccede, però, lascia denotare un movente di fondo, ipotizzato qui come meccanismo esorcizzante.
Non mi piace, comunque, chiudere in tono leopardiano, tanto meno sul filo della bravura, dell’onniscenza o, peggio, del messianico. Le teorie esposte, solo se condivise in parte o in toto da una sia pur minoranza predisposta all’analisi, vengano prese non come messaggio apocalittico irreversibile, ma come novello metodo di messaggio d’amore. Rovistare, cioè, tra i meccanismi inconsci allo scopo di rimuovere la negatività. Ed il mio popolo, da sempre incline all’ottimismo sarà il primo a sortire dalla conflittualità massificata di ampiezza planetaria. Realtà, le cui manifestazioni esteriori nessuno può confutare. Viva la vita, dunque, e viva l’amore in tutte le sue accezioni. L’unico utile esorcismo atto a sfatare il mistero della vita e della morte, riconoscendo la natura di spauracchio di quest’ultima. La stampa tipografica come meccanizzazione dell’alfabeto potrebbe darci una mano. Dovremmo, pero, prima bruciare tutte le biblioteche, con a capo questo libercolo che, ahivoi, avete appena letto.
Sono finiti i pani di piombo, non ce n’e più un grammo nella caldaia. Vediamo se riesco almeno a comporre la parola:                                                                                  FINE