ASSOCIAZIONE CULTURALE "PROMETEO"
Via Nazionale, 964 – 80059 Torre del Greco (NA)
LICEO GINNASIO STASTALE "G. DE BOTTIS
Viale Campania, 4 . 80059 Torre del Greco (NA)
     Venerdì 3 dicembre 1999                                                            Torna indietro

Nell'ambito del ciclo di conferenze "Il Miglio d'Oro -
Ritratti di autori" e in occasione del 70° anniversario dell'istituzione del Liceo Ginnasio Statale "G. De Bottis", conferenza su:

 Gaetano De Bottis

(Torre del Greco 1721- Napoli 1790)  

Relatore:

  prof. Raffaele Cirillo
  Ordinario di Storia e Filosofia   
  Liceo Classico Statale "G. De Bottis"

  Torre del Greco

 Il settecento a Napoli:
Gaetano De Bottis

    Gaetano De Bottis visse la sua avventura di sacerdote e di studioso a Napoli in un secolo di grandi e interessanti trasformazioni: in campo politico la fine della secolare dominazione spagnola, la breve dominazione austriaca, la creazione di un regno autonomo con la dinastia borbonica. Anche la chiesa, che aveva grande potere in tutto il Regno, conobbe momenti particolari che possono essere considerati come conclusione di cicli precedenti ed inizio di nuovi assai più influenti: il Sinodo diocesano, il Concordato con la nuova Casa regnante, la soppressione del Tribunale del S. Officio, l'espulsione della Compagnia di Gesù, le nuove leggi sul clero regolare, la fine della cosiddetta Chinea, simbolo della sottomissione feudale del Regno alla S. Sede ed infine la nascita delle nuove idee e la rivoluzione.

   Gaetano De Bottis nacque nella notte del 27 luglio 1721 a Torre del Greco e fu battezzato nella chiesa parrocchiale di S. Croce il 28 luglio(1). La famiglia De Bottis non era originaria di Torre del Greco, ma proveniva dalla cittadina di Montella (AV), diocesi di Nusco. Il primo dei De Bottis che giunse a Torre del Greco fu Orazio che nel 1681, all'età di trentacinque anni circa sposò una ragazza locale, Grazia Di Donna che al momento del matrimonio dichiarò di avere "decem et octo anni". Orazio firmò la sua dichiarazione affermando di vivere a Torre da circa nove anni. Non dichiarò la sua professione(2). Da questo matrimonio nacquero tre figli, Salvatore, Nicola e Carmine. Salvatore, rimasto vedovo della prima moglie sposò in seconde nozze Teresa Borriello. Da questa unione nacque Gaetano, il cui padre, Salvatore, come professione era "spetiale in Medicine".

   Napoli da circa due secoli era un possedimento spagnolo, divenuto tale durante la lotta per la supremazia in Italia fra Francia e Spagna all'inizio del Cinquecento, ed era governata da un viceré.

   All'inizio del Settecento si crearono condizioni nella storia dell'Europa che portarono ad alterare le condizioni di equilibrio che si erano consolidate dopo numerose guerre. Il potente re di Spagna moriva senza lasciare eredi diretti, questo portò ad una competizione tra le varie Potenze europee in cerca di nuove conquiste e desiderose di antiche rivincite. Si scatenò la guerra per la Successione spagnola, che interessò anche Napoli. Il Vicereame fu invaso da truppe straniere, e con la pace di Utrecht (1713) venne affidato a nuovi padroni. Napoli che aveva tanto sperato in un'autonomia fu assegnata, insieme agli altri possedimenti spagnoli in Italia, all'Austria.

   La politica internazionale europea della prima metà del Settecento sarà ancora piegata agli interessi delle grandi potenze che opposero al principio della preponderanza di una sola potenza egemonica, come era stato per due secoli per la Spagna e per la Francia, il principio dell'egemonia parziale in precise sfere d'influenza. Questo principio ruppe il vecchio equilibrio portando mutamenti sostanziali alla carta geopolitica europea stravolta continuamente nel tentativo di bilanciare le forze. In questa prima spartizione Napoli andò agli Austriaci, mentre la Sicilia fu assegnata ai Savoia che poi la scambiarono con la Sardegna assumendo il titolo di re.

   Gaetano De Bottis  nacque  quando  il viceré austriaco  era il  principe  Borghese.

L'arrivo degli Austriaci deluse molti napoletani convinti che i gravi e molti mali che affliggevano il Paese piegato da una lunga sottomissione, potessero essere affrontati e avviati a qualche soluzione solo da una monarchia indigena. La nuova amministrazione non portò significativi mutamenti: i ceti privilegiati, la nobiltà ed il clero, continuarono a mantenere i loro privilegi, bloccando ogni spinta innovativa ed accumulando favolose ricchezze.

   Contro la condotta mondana della chiesa e la sua forte pressione fiscale, che aveva fortemente impoverito il paese si era formato un movimento di pensiero nella società civile che vide nella pubblicazione della "Istoria civile del Regno di Napoli" (1723) di Pietro Giannone il momento polemico più acuto. L'idea di fondo che l'autore propone e l'assoluta autonomia dello stato sciolto da ogni influenza della chiesa, cui negava ogni giurisdizione, tranne l'ufficio spirituale da esercitarsi in armonia ed all'interno delle leggi dello stato. Questo orientamento intellettivo arrivò fino alla corte di Vienna portato dallo stesso Giannone che si era rifugiato in quella capitale in cerca di protezione perché colpito da scomunica da parte della chiesa ed oggetto di fiere persecuzioni.

   L'imperatore Carlo, mentre proteggeva Giannone, preso da necessità economiche, conduceva una politica di compromesso con la chiesa ed i baroni.

   La chiesa da parte sua, condusse contro Giannone e gli intellettuali suoi amici sostenitori dei diritti dello Stato una lotta di difesa a colpi di scomunica e persecuzioni che finì per fiaccare l'animo di molti. L'imperatore, da principio, ascoltò la voce di quanti videro nel comportamento della chiesa, nella prepotenza della Curia e nella avarizia del clero le cause principali della miseria, ma quando le condizioni politiche cambiarono, in seguito a nuovi avvenimenti, cambiò atteggiamento e gli uomini che si erano esposti furono abbandonati e costretti a conoscere la miseria più nera ed il carcere.

   Durante I'amministrazione austriaca Napoli rimase sostanzialmente quella che era stata con gli Spagnoli: un paese periferico e largamente dipendente, utile ai dominatori per ricavarne introiti fiscali e soldati per gli eserciti. Anche i tentativi di riforma chiesti fortemente dal ceto civile e che portarono alla costituzione di una Giunta per il Commercio e di una per le Arti finirono in breve tempo e miseramente. Risultò chiara l'impossibilità di dare l'avvio ad una nuova politica economica per le condizioni del paese il cui forte disavanzo del bilancio statale e l'asfissiante pressione fiscale determinavano continue proteste ed agitazioni da parte delle forze produttive.

   Le condizioni non migliorarono neppure quando il governo di Vienna tentò un cambiamento di uomini nel Consiglio Collaterale che affiancava il viceré, soprattutto perché questi uomini non ebbero mai la forza di giocare un ruolo rinnovatore dello stato sia per le condizioni oggettive del paese sia per la politica di Vienna le cui direttive oscillavano tra la volontà riformista e l'esosità fiscale.

   Alcuni provvedimenti adottati dall'amministrazione vicereale di politica ecclesiastica, portarono all'ampliamento della polemica sui privilegi goduti dalla Chiesa, sull'immunità locale ed il diritto d'asilo che avevano i tanti luoghi appartenenti ai beni ecclesiastici, sulla condotta del clero beneficiario dei tanti privilegi ed immunità. L'ampia estensione del diritto d'asilo sottraeva al controllo dello stato molta parte del territorio che dava rifugio a rei di omicidio, di furto, di contrabbando. Anche quando la polizia ed i tribunali chiedevano la consegna del fuorilegge, spesso veniva negata affermando che solo al vescovo spettava il diritto di accertare la colpevolezza del reo, o la consistenza della refurtiva. Inoltre quelle volte che i colpevoli venivano consegnati alle autorità civili, il vescovo poneva gravi condizioni e forti limitazioni. Questo stato di cose portava come conseguenza che colpevoli di omicidio, di furto, di contrabbando, di bancarotta, di falsificazione restavano impuniti e protetti nei monasteri e nelle chiese con grave danno per la dignità dello Stato e delle sue leggi. Alcuni tentativi operati dagli sbirri di penetrare di sorpresa in quei luoghi protetti per arrestare i colpevoli, fallirono per la forte resistenza armata operata non solo da parte dei rifugiati ma soprattutto degli uomini addetti a quei luoghi, e dagli stessi religiosi.

  La polemica sulle immunità conobbe fasi alterne ed originò momenti di frizioni nei rapporti tra la corte di Vienna e la S. Sede e provocò anche brutalità e violenze.

  L'amministrazione austriaca non seppe neppure trovare un rimedio al grave problema dell'edilizia religiosa che con la sua notevole estensione aveva ridotto Napoli ad una "città-convento"; apportando danni sul piano economico in quanto sottraeva spazi al commercio ed all'artigianato oltre che sul piano urbanistico. Alla grandiosità di chiese, conventi, luoghi pii con annessi orti, giardini, boschi, facevano riscontro quartieri intensamente popolati, senza strade, senza spazi e soffocati dai grandi edifici religiosi che con la loro ombra toglievano ai tanti bassi luce e aria.

   Non fu tentata neppure una riforma dello Studio napoletano che avrebbe dovuto essere il luogo naturale dove formare i funzionari necessari per una più efficiente burocrazia ed iniziare a far nascere una scuola laica.

   La corte di Vienna, sempre bisognosa di denaro, adottò la politica dei "donativi" che sancì il fallimento di ogni progetto riformista. Non venivano aboliti i privilegi ed i benefici, viceversa venivano riconfermati e rafforzati i poteri degli Eletti in materia annonaria e giudiziaria ed allargate le possibilità di successione feudale. Non ebbero successo alcuni progetti che prevedevano il riordino delle dogane, la concessione di incentivi per avviare il potenziamento del naviglio mercantile sia per la complessità dei problemi da risolvere e dei privilegi da abbattere, sia per le circostanze esterne, come la guerra e l'incertezza del destino del Vicereame, ma soprattutto per l'opposizione violenta dei nobili contrari ad ogni mutamento che potesse diminuire il loro potere e colpire i loro privilegi.

   Di fronte ad un sistema fiscale ingiusto, il viceré austriaco propose una numerazione dei fuochi per una più equa distribuzione del carico fiscale, ma l'opposizione dei nobili fece fallire il progetto perche lesivo dei loro interessi. Anche il progetto della costituzione del banco di S. Carlo, che nelle intenzioni del viceré doveva costituire la riserva per la ricompensa delle rendite fiscali alienate, per la ricostruzione del patrimonio regio, per la liquidazione della manomorta, per il recupero dei beni abusivamente acquisiti dai nobili e dal clero, non ebbe successo. Il patrimonio del banco doveva essere alimentato anche dalle somme ricavate dagli ecclesiastici per la vendita dei beni.

   Contro questi progetti reagirono la Deputazione dei Capitoli, la Piazza del Nilo, che era formata dalla nobiltà più antica, e lo stesso ceto civile che vedeva nella politica del viceré un tentativo di ridurre i poteri dei ministri napoletani ed un avvicinamento alla politica della chiesa.

   In questo clima di dissenso generalizzato tra il viceré, il Collaterale, il ministero togato e l'opposizione dei nobili, vedeva la luce l'opera di Pietro Giannone, la "Istoria civile del Regno di Napoli". L'autore, acceso fautore dell'autorità laica dello stato, accusava la chiesa cattolica di esercitare sul Regno un potere che non aveva alcuna origine divina, ma che era frutto di soprusi accumulati attraverso i secoli a danno dell'autorità civile. Il vescovo di Napoli di fronte all'accusa di esercitare un potere illegittimo, lanciò contro il Giannone la scomunica costringendolo a fuggire in esilio per evitare arresti e processi. La posizione di Giannone e dei suoi amici risultò, per la sua radicalità, scomoda a quanti, compresa la corte di Vienna, volevano evitare uno scontro frontale con la S. Sede nella speranza di trovare un possibile accordo.

   La Chiesa reagì e lo scontro che si era voluto evitare arrivò puntualmente durante il Sinodo Romano del 1725 dove vennero riconfermate le rigide posizioni della Curia circa l'immunità ecclesiastica, il diritto di asilo ed il potere del vescovo di accertare e decidere autonomamente se il reo dovesse o meno godere dell'immunità e stabilire la qualità del reato (3).

   Contro questo atteggiamento di intransigenza assunto dalla S. Sede, ferma sulle sue posizioni, reagì il Consiglio Collaterale del vicereame napoletano, stabilendo di non concedere il regio "exequatur" per la pubblicazione della Bolla pontificia. Nacque un ulteriore diverbio tra il Collaterale ed il viceré che ricorse a Vienna nella speranza di un annullamento del provvedimento, ma l'imperatore approvò il comportamento del Consiglio.

   La disputa coinvolse anche la vita della città che conobbe caldi momenti di polemica. Mentre il dibattito raggiungeva punte elevate, il vescovo di Napoli, Cardinale Francesco Pignatelli, convocò, per la Pentecoste del 1726, un Sinodo della chiesa napoletana. I lavori del Sinodo si mossero in un'ottica che agli occhi dei contemporanei apparvero anacronistici, conservatori e rigoristi, affermando e ribadendo i privilegi che la Chiesa godeva. Quando i lavori del Sinodo finirono si ebbe una coalizione di forze tra gli Eletti delle piazze e i membri del Consiglio Collaterale che ritenendo la posizione della Curia lesiva dell'autorità regia vietava la pubblicazione dei decreti sinodali (4).

   Ancora una volta il viceré si oppose alle decisioni del Collaterale e questi si rivolse nuovamente all'imperatore, il quale stabilì che i decreti sinodali non potessero essere pubblicati fino a quando il delegato della Real Giurisdizione non avesse preparato al sua consulta (5).      

   Al potere della Curia faceva eco quello feudale con la sua giurisdizione, causa di errori e violenze. Ma mentre nell'opposizione anticuriale convergevano interessi come il potere regio colpito nel suo prestigio e nella possibilità di una diversa politica fiscale, i forensi in continua opposizione con quelli del foro ecclesiastico e le alte magistrature, sul fronte antifeudale le forze erano frantumate soprattutto poiché l'aspirazione prima dei togati era quella di saltare nel rango dei baroni. L'Ajello scrive: "Gli esponenti più fortunati dei ceti nuovi non resistevano raramente alla tentazione di entrare in quelli antichi"(6).

   Le assenze delle supreme magistrature e quello del ceto forense sul problema della giurisdizione feudale, facevano sì che le condizioni della giustizia restasse all'arbitrio dei baroni e nelle mani delle magistrature e del Consiglio Collaterale. Ebbene queste forze: baroni, ceto togato e ceto forense che erano continuamente in opposizione tra loro e con il viceré, trovarono l'unità nel condurre azioni anticuriali, come nell'opporre un forte divieto alla ristampa di un ufficio di Gregorio VII che riproponeva le antiche polemiche sull'exequatur regio e nell'approvare l'operato del Collaterale, che condannava la confutazione delle tesi di Pietro Giannone fatta dal padre gesuita Giuseppe Sanfelice.

   I trent'anni circa della dominazione austriaca non portarono, sul piano delle riforme, alcun risultato sia per l'opposizione dei regnicoli sia per l'ambiguità dell'azione austriaca che mentre andava a ledere interessi antichi e consolidati tornava poi ad una politica fiscale oppressiva ed asfissiante. Se mettessimo a confronto la dominazione spagnola e quella austriaca scorgeremmo che mentre i viceré spagnoli, attraverso un lungo tempo, erano riusciti a sottrarre autorità ai baroni, ed avevano contemporaneamente tolto ai regnicoli la capacità di autogovernarsi, ostacolando la nascita di una classe dirigente locale, gli austriaci avevano permesso la crescita di una classe di burocrati, magistrati e avvocati a cui si rivolgerà poi Carlo di Borbone per portare avanti il suo progetto riformista.

   Il Galasso afferma che durante “il periodo austriaco il gruppo giannoniano con Gaetano Argento, Ventura, Contegna, Riccardi svolse nell'amministrazione dello Stato un'opera molto importante di tutela del potere laico e diede una fisionomia definitiva a  la tradizione laicista napoletana su questo problema."

   Gli accesi contrasti, le lunghe e violente polemiche sulla politica interna e sulla opposizione portata dalla S. Sede e dalla Curia arcivescovile, impegnata a difendere privilegi ed interessi, certamente interessarono il giovane Gaetano De Bottis che riceveva la sua educazione in un ambiente confessionale per la mancanza di una scuola pubblica laica che costringeva chi voleva intraprendere gli studi a rivolgersi a scuola private o a quelle confessionali o conventuali.

   Gaetano De Bottis mostrò, sin da piccolo, buone capacità intellettive, volontà e interesse per lo studio. Di queste sue doti "se ne avvide, fin dai suoi primi albori, un illuminato prelato, Monsignore Giannini e se ne invaghì al punto che negli anni più freschi lo strappò dai teneri amplessi dei genitori per trapiantarlo in quel Seminario che di tutte faceva le delizie dello industrioso pastore."

   Monsignor Giannini era vescovo di Castellammare e di Lettere ed aveva fondato proprio a Lettere un seminario per l'educazione dei fanciulli.

   In quel luogo Gaetano fu avviato prima allo studio del latino poi a quello del greco raggiungendo una padronanza nella lingua dei romani ed un'originalità di stile che meravigliò anche i suoi maestri. Ancora adolescente passò allo studio della filosofia e della teologia senza mai abbandonare la sua preferenza per gli studi classici. Mentre nel seminario di Lettere andava affinando le sue conoscenze alimentando il suo amore per il sapere, maturò in lui la decisione di scegliere la via del sacerdozio.

   Aveva appena tredici anni quando vide cambiare le sorti politiche del Regno. La pax asburgica era durata poco a causa di nuovi conflitti dinastici che scatenarono nuove guerre tra le potenze europee e coinvolsero anche il. Regno di Napoli.

   Il difficile equilibrio creato dalla pace di Utrecht non ebbe lunga durata, sia per la rilevante presenza di altre due potenze, la Prussia e la Russia, sia per quanto accadeva in Polonia. In quel paese dopo la fine della dinastia degli Iagelloni si era formata una monarchia elettiva che portò come conseguenza immediata ed inevitabile, l'accrescimento del potere dei nobili, elettori della monarchia. In breve tempo il paese cadde in un'arretratezza e in una miseria spaventose sia per lo strapotere e le violenze dei nobili, sia per le continue devastazioni apportate dalle guerre, sia per le continue carestie ed epidemie.

   Alla morte del re di Polonia, Augusto II di Sassonia, gli elettori polacchi scelsero come loro re Stanislao Laszczynski, suocero del re di Francia, in opposizione a Federico Augusto III, figlio del defunto. I1 partito filosassone impose, con l'aiuto dell'esercito russo, Federico Augusto III. La Polonia venne ad avere due re in lotta tra loro. Nacque una guerra che vide schierate da una parte la Russia e l'Austria, che non accettavano la nascita nell'Europa continentale di una monarchia filofrancese, e dall'altra i Borboni di Francia e di Spagna legati da un patto di famiglia, e Carlo Emanuele III di Savoia.
   La guerra fu combattuta in Italia dove gli eserciti franco-piemontesi ottennero notevoli vittorie ed un esercito spagnolo ritornò a Napoli (15 maggio 1734).

   Le potenze vennero ad un accordo con la pace di Vienna dove si cercò di trovare un nuovo equilibrio europeo; Filippo Augusto III venne riconosciuto re di Polonia, la Lorena andò a Stanislao Lazczsynski, il Granducato di Toscana a Francesco Stefano di Lorena, Novara e Tortona a Carlo Emanuele di Savoia, il Regno di Napoli e la Sicilia andarono al re di Spagna Filippo V che devolse il possedimento italiano a favore del figlio Carlo III, avuto dalla seconda moglie Elisabetta Farnese. La grande novità di questa pace fu costituita dal Regno di Napoli che, dopo più di due secoli di sottomissione, divenne regno autonomo, con un re proprio, come al tempo degli aragonesi.

   La pace di Vienna legittimò il possesso di Napoli che Carlo aveva conquistato con le armi già quattro anni prima.

   II nuovo sovrano prima di entrare a Napoli emanò un proclama con il quale concedeva un'amnistia e l'indulto a favore di quanti, durante la guerra, avevano operato contro la Spagna. Entrato in città il giovane re ricevette l'omaggio di tutti i rappresentanti accreditati presso la sua corte ed una delegazione di siciliani. All'appuntamento marcava il rappresentante de!la S. Sede che addusse come motivo l'illegittimità della investitura del regno fatta dal re di Spagna, sottolineando che "L'unico vero signore e padrone del Regno di Napoli" era del Pontefice.

   Questo atteggiamento della S. Sede aprì un nuovo contenzioso aggravando ancor di più le relazioni tra Napoli e Roma, cosa che il re Filippo aveva già previsto tanto che nello stesso giorno in cui Carlo era entrato a Napoli aveva incaricato il vescovo di Cordova di guidare un'ambasceria dal papa Clemente XII per chiedere l'investitura del Regno per il proprio figliolo Carlo. Il pontefice non perse l'occasione per lamentarsi di alcune azioni lesive degli interessi della S. Sede. Fece notare l'illegittimità della cessione dei ducati di Parma e Piacenza, feudi della chiesa, della concessione a Carlo dei titoli di Castro e Ronciglione, anch'essi territori della curia romana, e la grande scorrettezza di Carlo che si era fatto incoronare a Palermo, ricordando che le incoronazioni erano, secondo la tradizione, sempre avvenute per mano del Nunzio ed in nome del papa.

   Da parte sua Carlo, appena insediatosi compose una commissione formata dal Tanucci, Galiani e dal duca di Laurenzana nella speranza di regolare i rapporti con la S. Sede. Fu pure chiesta, a titolo di cortesia, la presenza a Napoli di un Nunzio. La vertenza non ebbe esito positivo e la commissione rispose alle osservazioni del Pontefice che l'incoronazione non era un sacramento e che perciò non era necessaria la presenza di un Nunzio, aggiungendo inoltre che la Chiesa è signora delle cose sacre e considerare un'incoronazione sacra era una vera e propria superstizione.

   L'arrivo di Carlo a Napoli fu salutato con grande piacere dagli spiriti più consapevoli che ritenevano che solo una rinnovata monarchia autonoma avrebbe potuto affrontare le più importanti riforme necessarie per far rinascere il Regno. Antonio Genovesi scrisse: "Piacque a Dio restituire il re, la pace è la nostra vera libertà e grandezza, perché niun popolo può dirsi veramente libero il quale non abbia un principato domestico".

   La creazione di un Regno nel Mezzogiorno eliminò, in campo europeo, un motivo perenne di lotta tra le potenze per il possesso di Napoli e procurò all'Italia meridionale la pace e la tranquillità per liberare energie di sviluppo fino ad allora soffocate ed avvilite da due secoli di dominazione straniera.

   Tutti i ceti videro in Carlo l'uomo della svolta. i nobili gli resero omaggio nella speranza di una rivalsa contro i “togati", cioè le Magistrature, che durante il vicereame austriaco, avevano abusato della lontananza del principe ed erano diventati tanti despoti; gli ecclesiastici nella speranza di riconquistare a pieno i loro privilegi negati dai togati resosi rei di gravi colpe e sostenendo la libertà di pensiero, incoraggiando l'ateismo ed affermando che l'autorità del principe e dei suoi tribunali era superiore a quella della Chiesa.

   All'arrivo a Napoli di Carlo era arcivescovo della città il vecchio e stanco cardinale Francesco Pignatelli che nel pomeriggio del 9 maggio 1734 accolse Carlo nel Duomo con una liturgia solennissima non diversa tenuta dai suoi predecessori per i re, i viceré e legati in tutte le diverse variazioni. Il prelato era cosi vecchio da non rendersi conto che per il Regno si apriva un'epoca nuova e che la sua età avanzata gli negava la capacità e la forza di governare la diocesi in mano ai suoi curiali. Queste condizioni erano note anche a Roma, tanto che appena giunse la notizia della morte dell'arcivescovo, venne designato vescovo di Napoli Giuseppe Spinelli, di appena trentanove anni, già Nunzio nei Paesi Bassi, persona di mentalità aperta con una spiccata predilezione per le scienze positive. Questi venne a Napoli pieno di tanta buona volontà e pronto ad offrire tutto per la vita del suo gregge. A Napoli trovò il re Carlo, uomo pio ma con un'indipendenza di coscienza e non disposto a svolgere il ruolo di braccio secolare del potere ecclesiastico.

   I problemi del regno non erano questioni teoriche, ma cose concrete che esigevano un intervento forte ed immediato. La maggior parte degli omicidi che avvenivano nel Regno erano da imputare a chierici ed a "patentati".

   Per diventare un soggetto di diritto per godere del privilegium fori, bastava farsi rilasciare, dietro compenso, la patente da chi realmente o in maniera fittizia dipendeva. Era comune che gli ecclesiastici, il Nunzio, il Vescovo, prelati inferiori, amministratori di luoghi pii e tanti concedevano patenti non solo per avere uomini per !a difesa e per svolgere il servizi cui erano delegati, ma per procurarsi una fidata guardia personale e per lucrare danaro.

   L'immunità e l'esenzione dalle gabelle permetteva inoltre agli ecclesiastici il frequente ricorso al contrabbando che privava lo stato di cospicue somme e paralizzava ogni iniziativa di riforma. Al problema delle immunità locali, dei patentati e dei privilegi personali del clero andava aggiunto quello dell'exequeatur regio ai documenti curiali. Questi atti permettevano potenti violazioni della sovranità regia ed il re non era disposto a dare il suo assenso affinché quanto era detto nei documenti diventasse operante.

   Tutte queste questioni che da anni avevano reso difficile la vita a Napoli e mantenevano lo Stato in un arretratezza spaventosa, rendevano difficili i rapporti tra la Corte, decisa ad affermare la sua giurisdizione, e la S. Sede ostinata a voler mantenere i suoi privilegi. Al fine di trovare una soluzione fu formata una commissione mista di cardinali e di funzionari regi. Ai lavori della Commissione prendeva parte anche il Cardinale Spinelli, vescovo di Napoli.

   Dopo cinque anni di lunghe e faticose trattative, intervallate da crisi e da momenti di concordia, si giunse alla fine alla firma di un concordato che significò solamente una prima tappa, perché durante tutto il Settecento non mancarono altri momenti di scontro che quasi sempre finirono con altri "accomodamenti".

   Pietro Colletta nella sua "Storia" scrive: "Il concordato diede motivo e principio a più grandi riforme: il Governo interpretando, estendendo e talora soprausando quei fatti, ordinò la giurisdizione laicale, restrinse le ordinazioni dei preti a dieci per mille anime, negò effetto alle Bolle papali non accettate dal re, impedì nuovi acquisti, bandì impotenti le censure dei vescovi, se i regnicoli vi incorressero per adempimento di leggi o comandi del principe"(7). Riducendo le immunità dei luoghi pii e quelle personali del clero, organizzando i catasti e tassando i beni ecclesiastici e quelli feudali, Carlo triplicò l'entrata pubblica, negò la licenza ai gesuiti di fondare nuovi collegi e di acquisire nuovi beni.

   I tentativi della Chiesa di riacquistare potere non finirono, perché la S. Sede, approfittando delle condizioni storiche particolari, dovute alla guerra tentò di introdurre in città il Tribunale dell'Inquisizione. Il papa Benedetto XIV, dopo aver fondato un nuovo ordine monastico, i Chierici scalzi, invitò il cardinale Spinelli, quale vescovo di Napoli ad introdurre in città il Tribunale dell'Inquisizione. L'arcivescovo organizzò il tutto ed imbaldanzito dal silenzio del popolo e dall'acquiescenza del re organizzò anche due cerimonie di pubblica abiura, Ma improvvisamente scoppiò un tumulto generale. P. Colletta scrive: “Il popolo credente, superstizioso ed ignorante, al semplice sospetto di inquisizione levasi a tumulto, sconosce e minaccia l'autorità del principe, assedia e vince nelle proprie stanze numerose milizie"(8). Alle minacce del popolo si unirono quelle degli altri ceti ed il re fu costretto con un editto a vietare a Napoli la giurisdizione del Tribunale. Furono momenti difficili per l'arcivescovo di Napoli, cardinale Spinelli, che vide vacillare il suo seggio arcivescovile. In esecuzione del Concordato il cardinale Spinelli portò avanti una politica di ritorno delle istituzioni ecclesiastiche ed adottò una serie di provvedimenti che cercavano di moralizzare la vita del clero. Abbandonò l'antica concezione che aveva fatto pensare ai suoi predecessori che il grande numero di ecclesiastici, regolari e secolari, rappresentasse potere e puntò tutto sulla qualità della preparazione del clero; organizzò, servendosi di un personale selezionato, una visita pastorale cercando di conoscere le condizioni locali delle varie parrocchie e quale impegno veniva profuso per la cura delle anime. Dagli atti di questa S. Visita avvenuta nel 1741 veniamo a sapere che Gaetano De Bottis aveva preso gli ordini minori ed era “accolitato".

   Lo stesso cardinale organizzò il Seminario diocesano e stabilì che ad esso potevano accedere i giovani votati al Sacerdozio previo un esame al fine di valutarne il merito e la fondatezza della vocazione. Il giovane De Bottis sostenne alla presenza del cardinale Spinelli una brillante prova tanto da meritare la lode da parte degli esaminatori ed in particolare dell'arcivescovo che apprezzò nel giovane la prontezza di spirito nelle risposte, la preparazione dottrinale e la purezza del latino. (9)

   L'amministrazione borbonica riportava Napoli al ruolo di capitale capace di competere con Parigi e Vienna. Fiorirono in seguito alta scoperta delle antiche città di Pompei ed Ercolano, distrutte dal Vesuvio nel 79 d.C., gli studi classici, mentre nuovi interessi nascevano per lo studio della filosofia e della teologia. Anche in campo scientifico si assistette con l'arrivo e lo studio delle opere di Galileo e Newton ad un nuovo interesse per la matematica e la fisica

   Il De Bottis in seminario si dimostrò assiduo nello svolgimento dei compiti e degli uffizi del suo stato clericale, pieno di pietà sincera e nemico dell'ozio e per questo fu sempre amato e stimato dai suoi amici, ed apprezzato dai suoi superiori. Seguì con interesse i corsi di teologia tenuti da Giuseppe Simeoli di cui diventò amico e le lezioni di storia naturale dei professori Orlando e Martino interessandosi sempre più allo studio della matematica e della fisica senza, però, trascurare lo studio del latino e del greco. Fu amico carissimo di due grandi letterati del tempo: Alessio Simmaco Tarocchi che fu anche il suo parziale mecenate e Giacco che gli fu guida e il direttore dei suoi studi.

   Il 19 settembre del 1743 Gaetano De Bottis venne ordinato diacono e due anni dopo nella stessa chiesa di S. Restituta della Cattedrale di Napoli, sacerdote (19 settembre 1745).

   Ricevuto l'ordine sacro non abbandonò i suoi studi di teologia e i suoi nuovi interessi per la fisica e la matematica, tanto che apprezzato da tutti per la sua cultura venne chiesto da più parti come educatore. Alla fine il cardinale Spinelli che aveva sempre rifiutato, cedette alle insistenti richieste di Monsignor Leone, vescovo di Avellino, che volle il De Bottis tra i docenti del suo seminario. Il permesso fu concesso a condizione che l'arcivescovo di Napoli poteva in qualsiasi momento richiamare a Napoli il De Bottis. (10)

   Don Gaetano, in ubbidienza si portò ad Avellino ma l'impegno didattico assunto presso il seminario di quella città non riuscì a tenerlo lontano da Napoli, dove aprì una scuola che si occupò  non solo di logica, di metafisica e di diritto ma anche di fisica sperimentale. Presso la sua casa organizzò un'accademia che chiamò "Arboscello" dove vennero tenute dotte dissertazioni scientifiche da parte di valenti giovani studiosi. Sempre a Napoli crescevano gli interessi per la fisica sperimentale e con tanto interesse collaborò con il Duca della Torre, Ascanio Filomarino, che a quel tempo conduceva studi sull'elettricità. Il Duca aveva trasformato il suo palazzo di Napoli in museo-laboratorio ed aveva installato in una stanza il suo nuovo sismografo.

   A Napoli si respirava aria nuova, anche se non mancarono fatti che ridimensionarono i disegni riformisti del re e del suo ministro Tanucci: un violento terremoto, la peste scoppiata a Messina, la dispendiosa partecipazione alla guerra di successione austriaca.

   Il primo Borbone avviò un piano di lavori pubblici che dotò Napoli e dintorni di monumenti grandiosi, di palazzi e di ville, senza risolvere tuttavia uno solo dei problemi urbanistici che angustiavano la capitale dove la popolazione enormemente cresciuta era costretta a vivere nei "bassi" privi di aria e luce.

   La morte prematura e la demenza del suo primogenito Filippo, costrinsero Carlo a tornare in Spagna per occuparne il trono ed a trasferire la successione al suo terzogenito Ferdinando, un bambino di otto anni. Nell'ottobre del 1759 Carlo lasciò Napoli affidando il proprio figlio ad un consiglio di reggenza in cui gran parte avrà Bernardo Tanucci.

   Carlo lasciò Napoli più bella e più moderna di quella che aveva ereditato dai viceré austriaci: gli architetti del re avevano trasformato la città portandola a rivaleggiare con le capitali più belle e più importanti d'Europa; le aperture mentali e la tolleranza del re favorirono la formazione di spiriti avveduti capaci di allacciare i fili con le correnti più avanzate del pensiero europeo. Invece ben poco cambiò nelle condizioni della plebe che si differenziava ancora di più dalle minoranze elitarie.

   Anche il cardinale Spinelli in seguito ai suoi insuccessi, e costretto a lasciare Napoli: nuovi personaggi occupano la scena politica: il cardinale Antonio Sersale, già vescovo di Taranto, il re Ferdinando, o meglio il suo consiglio di reggenza.

   Intanto mentre la vita culturale a Napoli cresceva e maturava, la vita della diocesi e del clero andava sempre più scadendo. Significativo fu il comportamento dell'arcivescovo Sersale in un momento difficile durante la vicenda della soppressione della Compagnia di Gesù. Il De Majo scrive: "Egli (Sersale), che al contrario dello Spinelli frequentava assiduamente la corte, ebbe parte non lieve nella manovra governativa di far trovare Roma davanti al fatto compiuto, nonostante che avesse avuto opposte istruzioni".(11)

   Anche il clima politico era diverso, le grandi battaglie per la difesa delle immunità ecclesiastiche erano ormai un ricordo di altri tempi. E se del Cardinale Sersale si disse: "che aveva sempre difeso le immunità ecclesiastiche", del suo successore Serafino Filangieri si può dire che egli fu "tutto l'opposto di un assertore dei diritti giurisdizionali della Chiesa, ma un acceso regalista”.

   Nessun arcivescovo napoletano fu cortigiano quanto lui e quando lasciò Napoli non rimase di sé alcunché di pastoralmente valido in opposizione a quanto trionfava nella cultura: un regalismo anticlericale ed il deismo.

   Sensibilmente importante fu l'opera e la funzione del cappellano maggiore del Regno monsignor Celestino Galliano che cercò di coinvolgere un numero sempre maggiore di intellettuali non conformisti alle nuove idee, proponendo una riforma universitaria ed istituendo cattedre di Chimica, Fisica, Botanica, Astronomia, e chiamando Antonio Genovesi a tenere i corsi di "Commercio e Meccanica".

   Il successore del Filangieri fu Giuseppe Capece-Zurlo, che pur non possedendo le energie necessarie per fronteggiare gli eventi che agitavano la vita politica di Napoli, in quegli anni drammatici, riuscì a portare nella diocesi uno zelo pastorale che manifestò anche nella sua semplicità di vita e in una particolare dedizione verso i poveri bisognosi.

   Durante quegli anni il De Bottis espletò con cura la sua attività di studioso e ricercatore guadagnando sempre più stima tra i suoi amici. Certamente i suoi legami con Giuseppe Orlandi, amico del Tanucci e di Bartolomeo Intieri agevolò molto la carriera di Gaetano De Bottis, tanto che il re Ferdinando lo chiamò a far parte dei docenti del Collegio per l'educazione della nobiltà del regno. Successivamente lo nominò membro della Reale Accademia delle Scienze, che il re stesso aveva istituito ed infine lo chiamò a reggere la cattedra di Storia Naturale nel regio studio, allora istituita.

   Intanto la città si animava "ed una folla di illustri viaggiatori stranieri da Goethe a Swinburne, da lord Tynley al principe di Brunswich accorse a visitare i teatri, le ville, gli scavi, i dintorni, abbandonandosi con nordica esaltazione al richiamo di una natura che non aveva confronti".

   Molti forestieri specialmente inglesi eleggono Napoli come dimora e si raccolgono intorno all'ambasciatore di Sua Maestà britannica, Lord Hamilton, un umanista di varia cultura.

   La cultura scientifica trovò molti cultori basta ricordare Francesco Serao, autore di una relazione all'Accademia delle Scienze sulle frequenti eruzioni del Vesuvio, l'eccentrico Raimondo di Sangro, principe di Sanseverino, lo stesso Lord Hamilton, il nostro De Bottis e tanti altri. Fioriscono geni come il filologo Alessio Marrocchi, l'abate Galiani che fu tra gli spiriti più eminenti ricco dei pregi e dei difetti propri della sua napoletanità. Egli produsse delle opere di un certo valore per il rigore scientifico, come i trattati sulla moneta  o  sul commercio dei grani, mentre si impegnò distrattamente nella composizione di un saggio sul dialetto e nella stesura del Socrate Immaginario insieme al Lorenzi.

   Anche la cultura non accademica fiorì, emblematiche furono le figure di Pietro Trichera che rivolse la sua satira amara alla stupidaggine dei gonzi e al loro bigottismo di cui approfittavano preti e frati, alla condotta dei dotti che con la loro erudizione sono sempre pronti ad ingannare i poveri ed adulare i potenti, di Francesco Carlone, scrittore di teatro assai versatile, autore del tipico personaggio napoletano, costretto a campare alla giornata, Vincenzo Cammarano, il maggior Pulcinella del Settecento e tanti altri. Nella musica eccelse Paisiello.

   Seppure brevemente pare necessario mettere in evidenza come le avventure di Pulcinella e le sue buffonerie e le gesta stravaganti dei cavalieri di Francia cantate dai cantastorie sulle vie del molo, "queste fiabe per adulti immaturi sono le più adatte a colpire i pronipoti di Masaniello, insieme con le prediche apocalittiche dei Gesuiti con le processioni dell'arcivescovado e le farse del rinnovato San Carlino", dove “non solo lazzaroni, ma anche gli spettatori di più alto lignaggio, si divertono senza ritegno alle oscenità, ai lazzi, alle improvvisazioni di Pulcinella, di Coviello e del dottore, notaio o don Fastidio di turno". Re di Napoli era Ferdinando che visse dagli otto ai sedici anni sotto la tutela del Tanucci o la guida di don Domenico Cattaneo, principe di San Nicardo, suo istitutore.

   II giovane re, ricco di una rozza vitalità passa il suo tempo in scherzi puerili e. prepotenze canagliesche. Con un gruppo di giovinastri si diverte a fare l'oste, il pescivendolo o altro parlando solo il dialetto. Su questo "re lazzarone", esiste un'aneddotica corposa. Non superò il livello mentale della plebe di Napoli anche se non fu privo di un certo buon senso.

   Durante la minore età del re, il Tanucci continuò con la sua politica tenendo fermezza nei rapporti con la Chiesa, migliorando l'amministrazione della giustizia e rendendo possibile lo sviluppo della cultura.

   Furono soppresse le decime ecclesiastiche, vietati i "testamenti dell'anima” definito il matrimonio "per natura" contratto e sacramento per "accessione", si abolirono tutte le immunità personali e s'impose di ridurre il numero dei ministri del culto alla percentuale di cinque per ogni mille abitanti. Nel 1767 fu abolita la "chinea" che era l'omaggio al Santo Padre, e fu bandita dal Regno la Compagnia di Gesù ed incamerati i suoi beni. Meno brillante fu la conduzione della carestia del 1764 e la conseguente epidemia.

   La cacciata dei Gesuiti spinse il governo ad una riforma nel settore dell'istruzione che attraverso l'opera di funzionari lungimiranti come il Palmieri, il De Gennaro e pensatori come il Conforti e il Galanti portarono alla separazione tra scuole pubbliche e seminari, al miglioramento degli studi universitari ed all'incremento delle accademie, quella scientifica e quell'ercolanese.

   Le nuove idee, anche nei campo della giustizia entrarono nella cultura napoletana che rimase sterile di innovazioni per l'indifferenza del re Ferdinando e l'ignoranza della moltitudine. La saggia direzione dello Stato da parte del Tanucci cominciò a trovare qualche difficoltà non quando il re raggiunge la maggiore età, cioè il 12 gennaio 1767 ma quando bisognò scegliere per Ferdinando una moglie, che per volontà di Carlo, la scelta doveva avvenire tra numerose arciduchesse austriache, figlie di Maria Teresa.

   L'arrivo a Napoli di Maria Carolina "il contrasto tra la finezza degli austriaci e l'ottusa volgarità della corte borbonica si rivelò in maniera lacerante agli occhi della corte di Vienna. Ferdinando apparve quasi come un ritardato mentale, ostile ad affrontare qualsiasi discorso serio sui doveri del proprio Stato. La Corte di Vienna considera con interesse l'odio del re borbonico per tutto ciò che è nuovo e soprattutto per tutto ciò che è francese.

   La differenza di stile, di cultura e d'apertura morale tra moglie e marito è notata ben presto dai napoletani che guardano con simpatia ed apprezzano i moderni principi di Maria Carolina. Gli intellettuali amano la regina per la sua fedeltà ai principi illuminati che reggono la corte di Vienna. La regina abbaglia tutti, tranne il vecchio Tanucci, che non è disponibile a farsi affascinare dal gioco del potere. Il vecchio statista sbagliò, perché Maria Carolina era decisa a svolgere un ruolo determinate. Il suo progetto si realizzò quando, in osservanza ad un preciso articolo del contratto matrimoniale, la regina entrò a far parte del Consiglio di Stato, cioè quando diede alla luce, nel 1775, un figlio maschio.           

   La regina avendo in suo completo possesso il re ottenne il licenziamento del Tanucci, che fu sostituito, prima con il diplomatico siciliano, il marchese della Sambuca, poi con il marchese Caracciolo ed infine con John Acton. Questi cercò di assicurare alla sua politica una base solida migliorando le attrezzature portuali, fondando cantieri navali, istruendo una nuova classe dirigente inviandola a corsi di perfezionamento anche all'estero, fortificando le coste e migliorando la viabilità interna. Acton era un soldato e non si preoccupò di riforme sociali, se ne occupò invece il re che, con un'originale e stravagante trovata, nel 1789, cercò di dar vita alla comunità socialista di San Leucio, dove viveva come regola fondamentale la perfetta uguaglianza tra i cittadini nei diritti e nei beni, l'unica differenza era data dal merito. Passeranno pochi mesi dalla istituzione della comunità di San Leucio quando in Francia i sanculotti assalteranno e distruggeranno la Bastiglia. Qualche mese prima nella casa a Vico della Candelora moriva Gaetano De Bottis che per trenta anni era vissuto vicino alla corte ottenendo la protezione di uomini illustri e potenti come lo stesso Tanucci.

   Durante gli anni che tenne la cattedra di Storia Naturale, il De Bottis intensificò i suoi studi e la sua attività culturale, approfondì le sue osservazioni scientifiche interessandosi in modo particolare di vulcanologia e non, a caso, basti pensare, che durante il Settecento il Vesuvio ebbe una particolare attività dando luogo a spaventose eruzioni ed a tante fenomeni collaterali.

   La vicinanza al vulcano permise al De Bottis di osservare direttamente e nel momento stesso in cui certi fenomeni avvenivano, descriverli con precisione cercando di spiegare scientificamente le cause che li determinavano.

   Il Vesuvio che dopo un lungo periodo di riposo si era svegliato con una disastrosa eruzione nel 1631, aveva dato 1'avvio ad un ciclo di attività vulcaniche che interessarono la vita dei paesi vesuviani per quasi due secoli. Le continue minacce del vulcano e le conseguenti distruzioni avevano fatto nascere nell'animo delle popolazioni vesuviane il sospetto che su questa terra cosi bella e tanto fertile fosse caduta una maledizione celeste. Nella fantasia popolare nacquero storie e leggende che cercavano di spiegare con alcune credenze il fenomeno naturale di un'eruzione vulcanica, non avendo nessuna spiegazione scientifica. Si diffusero storie di diavoli e di santi protettori capaci di operare prodigi. Non mancarono predicatori improvvisati e monaci fanatici che invitavano le popolazioni a fare penitenza per placare il Dio irato per i tanti peccati degli uomini. Nacquero nelle vicinanze del vulcano cappelle votive, edicole di santi protettori e durante le eruzioni venivano moltiplicati i riti penitenziali, le devozioni, le processioni.

   La nascita della scienza moderna non poteva accettare certe spiegazioni e sentì la necessità di studiare e capire scientificamente le cause di quel fenomeno naturale che si presentava sempre in forme suggestive e diverse. Il problema pratico era dato dalla necessità di saper capire ed interpretare alcuni segni premonitori di imminenti sciagure e questo non poteva essere fatto seguendo le antiche concezioni che pretendevano fare scienza con teorie filosofiche e teologiche. Il De Bottis durante la sua attività ebbe modo di osservare numerose eruzione fece delle interessanti osservazioni stabilendo un rapporto tra la fluidità della lava e la sua velocità.

   Ma, come era giustamente corretto, la descrizione degli effetti portava ad interrogarsi sul le cause ed innanzitutto a cercare di capire il perché ed il come si origina un eruzione vulcanica.

   Questa ricerca, che aveva come fine la formulazione di una teoria vulcanologica, stimolò tanti ingegni ed appassionò scienziati italiani e stranieri chiamati a Napoli, durante il XVIII secolo sia dai grandi e spaventosi spettacoli delle continue eruzioni, sia dalla notizia della scoperta delle antiche città romane di Ercolano e Pompei, distrutte dall'eruzione del 79 d.C. La campagna di scavi portò alla luce antichi monumenti, strutture di casa e di altari, oggetti domestici dell'epoca classica conservati sotto le ceneri del Vesuvio che coprendoli e nascondendoli li aveva preservati dalla violenza degli agenti atmosferici e dalla incuria degli uomini.

   Gli scienziati si posero precise domande: da dove si origina quell'immenso calore capace di provocare un'eruzione? Che cosa bruciava nel sottosuolo? Quali forze spingevano verso l'esterno quelle grandi quantità di materia, come le colate laviche, i materiali infocati e le ceneri?

   Varie furono le risposte circa la fonte di calore responsabile di quei fenomeni, alcuni sostennero che all'interno del pianeta in una zona molto profonda ci fosse un fuoco che sottoposto alla forte pressione dei vapori venisse spinto verso l'esterno. Altri ritennero che la presenza del fuoco non fosse così profonda e lontana, ma che stesse nelle prossimità del vulcano e che i fenomeni eruttivi erano prodotti dalla combustione di sostanze come lo zolfo, il bitume, la pirite. Altri ancora pensarono che il sottosuolo terrestre fosse solcato da una lunga rete di canali, attraversati da forti correnti d'aria che alimentavano la combustione dello zolfo, del bitume, dell'allume. Quando per cause diverse questo mondo sotterraneo veniva a contatto con l'esterno avevano luogo i fenomeni vulcanici.

   Intanto anche la chimica moderna faceva i suoi progressi indagando sulla natura e sulla struttura dei corpi, sui loro componenti e sul modo di comportarsi quando venivano a contatto tra loro. Questi studiosi cominciarono a pensare che il grande calore fosse alimentato dalla combustione del carbon fossile o del petrolio.

   Un'importante comunicazione fu fatta alla società scientifica dal chimico francese Nicolas Lemery che portava a conoscenza i risultati di alcuni suoi esperimenti.

   Egli voleva dimostrare che la causa delle eruzioni fosse la combustione della pirite cioè il solfuro di ferro. Il chimico francese sperimentò che ponendo sotto uno strato di terra una certa quantità di limatura di ferro mischiato a zolfo e bagnando con acqua, dopo poco tempo, la terra cominciava a gonfiarsi per poi spaccarsi permettendo l'uscita di sostanze fluide fumiganti.

   Questa teoria influenzò le ricerche di tanti studiosi del fenomeno e tra questi il De Bottis che pensò di spiegare i fenomeni vulcanici sostenendo che il forte calore era provocato dalle reazioni delle "solfuri pirite, a contatto con l'acqua e sotto l'azione dell'aria e dei vapori".
   Il dibattito sulla profondità del focolaio vulcanico si accompagnò a quello delle origini delle sostanze vulcaniche. Alcuni studiosi tra cui Giovani Maria della Torre sostennero che i fenomeni vulcanici avvenivano sulla cima della montagna. Un vulcano era simile ad altri monti solo che nelle sue visceri aveva miniere di pirite che al contatto con l'aria e acqua si incendiavano. Il De Bottis ritenne che il fenomeno vulcanico doveva interessare l'intero monte e non solo la superficie e di conseguenza il focolaio doveva essere profondo.

   Nella sua opera "Ragionamento istorico intorno all'eruzione del Vesuvio", che cominciò il 29 luglio dell'anno 1779", racconta che quella eruzione ebbe una potenza particolare, ma, per fortuna ebbe una brevissima durata. Egli dice che durante la sera dell'agosto il Vesuvio sembrava dormiente, ma improvvisamente si svegliò lanciando in aria una colonna di fumo e di fuoco alta circa quattrocento metri dando luogo ad uno spettacolo spaventoso che, per fortuna si esaurì nel giro di una sola notte. Il De Bottis osservando il materiale eruttato durante questa eruzione trovò dei sassi che sembravano levigati per l'azione dell'acqua. Dedusse che quel materiale doveva provenire da una zona posta superiormente a quella del focolaio principale anche perché quei sassi non presentavano alcuna alterazione lasciata dal forte calore e che quindi quei prodotti erano stati espulsi dalla violenta ed improvvisa salita delle sostanze vulcaniche che si originavano in zone molto profonde. Questo gli fece affermare che il fenomeno vulcanico dovesse interessare l'intero monte e non solo la cima. Egli scrive: "dall'anno poi 79 della nostra Era... e fino al corrente 1779 (il vulcano) ha versato una strabocchevole quantità di materia. Ora chi si potrà ragionevolmente persuadere che tutta la sopraddetta materia sia venuta fuori di sotto quel piano su cui sollevarsi? Che vasta orribilissima cavità non vi sarebbe sotto di esso! E chi potrà eziandio credere che tutte queste diverse accendibili sostanze che hanno prodotto tanti e tanti incendi, stavano sotto il medesimo ammassate e raccolte, e che ve ne siano ancora, giacché arde al presente? Dunque egli è naturale il pensare che tutta la materia, che ha versato il nostro vulcano, e che continua a versare l'abbia tratta da diversi sotterranei luoghi e la tragga ancora; e che da diversi sotterranei luoghi pure abbia ricevuto e riceva alimento il suo fuoco ".

   Il De Bottis raccolse le sue numerose osservazioni sulla diversità di un'eruzione rispetto ad un'altra sulla lunghezza dei fronti lavici, sulla velocità delle colate ed i percorsi diversi seguiti dalle lave sul fenomeno delle mofete e sulla conformazione e composizione delle rocce e delle ceneri in alcune opere che andò pubblicando a cominciare dai 1761.

   I suoi lavori furono molto apprezzati dagli studiosi francesi ed inglesi, da quelli che lo conobbero personalmente nei loro viaggi in Italia e quelli che lessero i suoi lavori di appassionato storico dei Vesuvio. Pubblicò nel 1761 "Ragionamento istorico intorno ai nuovi vulcani comparsi alla fine dell'anno scorso 1760 nel territorio di Torre del Greco”, e nel 1768 "Ragionamento istorico dell'incendio del Vesuvio accaduto nel mese di ottobre 1767". Tutte e due le opere sono dedicate alla sacra reale Maestà di Carlo III per ringraziarlo della sua infinita bontà mostrata in diverse occasioni e soprattutto nelle sciagure pubbliche. "imperocché voi ci amate come più e più volte abbiamo chiaramente conosciuto; e massimamente conoscemmo nel luttuoso anno 1764 quando dalla rabbiosa fame e dalla micidiale crudelissima epidemia fummo lacrimevolmente trafitti” .

   Nello stesso anno 1768; il De Bottis dava alle stampe "Istoria dei vari incendi del monte Vesuvio” in questa opera raccolse osservazioni fatte durante prima e dopo alcune recenti eruzioni. I1 Vesuvio era in una fase di attività molto forte le lezioni vulcaniche e fenomeni collaterali avvenivano continuamente. Nel 1776 lo studioso napoletano pubblicò "Ragionamento istorico dell'incendio del Vesuvio che cominciò nell'anno 1770 e dalle varie eruzioni che ha accompagnate". Durante questa eruzione ebbe luogo uno spettacolo mai osservato durante le eruzioni vulcaniche vesuviane.

   La notte del 16 marzo del 1770 il vulcano incominciò a dare segni particolari: rumori sotterranei, fumo abbondante dall'apertura terminale, riverberi rossicci. Il giorno dopo si aprì sul lato del vulcano una grande bocca dalla quale cominciò ad uscire abbondante lava che velocemente si riversò in un grande vallone conosciuto con il norme di Atrio del Cavallo dal lato che guarda la cittadina di Ottaviano. La colata continuò il suo cammino con moto vario fino a fermarsi verso il tramonto del giorno 20. L’eruzione pareva finita, ma il vulcano non dava segni di tranquillità. Appena un anno dopo, il 1° maggio, senza che si fossero potuti osservare segni particolari da una seconda apertura cominciò a sgorgare lava che avanzava lentamente. Ma il giorno 9 del mese di maggio del 1771 da quella stessa apertura cominciò a venire fuori un torrente di lava fluida e veloce che rapidamente dilagò nella località detta Piana delle Ginestre, dopo aver distrutto terreni coltivati e vigneti, precipitò in un fosso detto Collolla dando luogo ad una cascata di fuoco alta circa ventisette metri. Lo spettacolo fu eccezionale e chiamò sul posto molte persone tra cui studiosi, ambasciatori, uomini di Stato ed altri. L'eccezionale spettacolo fu visto anche da un gruppetto di gentiluomini che, partiti dalla Reggia di Portici, raggiunse la Piana delle Ginestre, tra questi l'arciduca Massimiliano d'Austria, il conte di Wilzek, l’inviato straordinario dell'Imperatore d'Austria, presso la corte di Napoli, il conte monsignore de Herzan, uditore della Sacra Rota, il conte Ugarte, il signor de Weingarten, il signor Francesco Antonio Caracciolo. Lo spettacolo fu osservato nella notte dallo stesso re Ferdinando IV e dalla regina Maria Carolina. I gruppi furono sempre guidati da due affermati studiosi, Sir Willian Hamilton, ambasciatore britannico a Napoli, studioso di vulcanologia e don Gaetano De Bottis, docente di Storia Naturale presso lo Studio Napoletano. La spaventosa scena fu ritratta dal pittore inglese Peter Fabris in un quadro che appartiene alla raccolta Lemmerman in Roma. Studiando le eruzioni gli studiosi osservarono che insieme al fenomeno eruttivo o subito dopo si verificavano piogge violente che provocavano alluvioni devastatrici più che le eruzioni stesse. Inoltre si osservò pure che sul cratere in eruzione si produceva la formazione di venti centripeti che costituisce la forza che sposta continuamente le masse d'aria e causa la formazione e lo sviluppo della colonna eruttiva. G. Bottis cerca di spiegare il fenomeno dicendo "I forti venti che traggono nell'alta regione dell'aria trasportano a considerevoli distanze le pietre, le pomici, le ceneri che gettano i vulcani. A parer mio, ciò cosi succede. Le suddette materie conservano per lungo tempo il fuoco. Il fuoco, dunque, che con se   porla   le menzionate materie riscaldano e conseguentemente diradano tutta l'aria circostante. Questa fatta più leggera, fugge in una parte più sublime, e nel luogo ch'ella abbandona accorre, da tutte 1e parti, 1'altra. Dunque l'aria da lati urta e stringe e unisce insieme le suddette materie sicché tutte lontano quasi un corpo solo: e l'aria che viene impetuosamente di giù la regge e sostiene a galla e fa che elle per il proprio peso non cadono a basso, mentre l'altra aria sovrastante la preme. E in questo modo si da tempo e luogo agli impetuosi venti di spingerle verso quella parte dove spirano". Ancora il De Bottis aggiunge che in queste esplosioni grande e la quantità di vapore d'acqua che durante l'ascensione perde temperatura, condensa e cade sotto pioggia torrenziale. Gli studi e le competenze di don Gaetano furono molto apprezzate  e la stima verso di lui fu

 

tanta che lo studioso veniva consultato dalla Corte tutte le volte che bisognava intraprendere opere pubbliche, cave, miniere.

   Il De Bottis pur vivendo, per i suoi molteplici incarichi a Napoli non ruppe mai i legami con la sua città natale dove era molto apprezzato tanto che l'università di Torre del Greco affidò proprio a lui l'incarico del restauro della porta di Capo Torre. Egli curò l'esecuzione dell'opera con interesse e con perizia rendendo la porta ancora più bella. Ai due lati vi pose due statue che rappresentavano una la Giustizia e l'altra la Prudenza ricevute in dono dal re Ferdinando nel 1760. Curò la sistemazione della vecchia fontana pubblica sita sotto il castello, aggiungendovi i lavatoi ed un mulino ad acqua, diresse i lavori per la costruzione della Dogana della Farina e di un mercato pubblico. Dotò l'antica chiesa parrocchiale di S. Croce di un organo e donò alla stessa chiesa diversi artistici quadri. Quando Gaetano De Bottis morì nella sua casa sita a vico Candelora  il 10 maggio del 1790 all’ età di 69 anni  tutta la cittadina di Torre del Greco lo pianse con sincero dolore." Il chiarissimo don Gaetano De Bottis e per le sue pubbliche luminose incompenze, e per la sua volgare letteratura, e specialmente per la dolcezza del suo bel costume sia sempre stato presso tutti assai reputato ed amato; quando però nello infausto dì 11 dello scorso maggio con breve malattia di tre giorni cel tolse dalle mai la morte; qual si destò cordoglio universale e quali encomi per tutto risuonarono, non è oggi d'uopo di esprimerlo come cosa troppo conta e famosa".

   Fu convocato un consiglio comunale straordinario dove fu stabilito che, come segno di gratitudine, in onore dell'illustre cittadino, si celebrasse un sontuoso funerale a spese del pubblico peculio e che l'elogio che doveva essere tenuto fosse stampato e divulgato ed infine fosse messa sulla pubblica piazza una lapide di marmo".

   Il 28 giugno del 1790 nella chiesa madre di Torre del Greco fu "solennizzata la funebre pompa."Il centro della chiesa fu eretto un "Mausoleo" fregiato "di tutte le insegne di Conte Palatino, che godono i professori della celebre università di Napoli. Sul catafalco fu posto un naturale ritratto del De Bottis di proprietà del signore Marchese Berio che possedeva una collezione degli uomini "più illustri". Sulla porta maggiore della chiesa ed ai quattro lati del "Mausoleo" furono poste cinque scritte composte dal signor D. Emanuele Campolongo, mentre sotto il ritratto del defunto c'era una sesta scritta composta, questa, da D. Gennaro da Vico

   L'oratore che tenne l'elogio funebre, don Francesco Saverio Loffredo pose tra le altre cose in evidenza le doti del defunto don Gaetano. "Il meglio però che gli appartiene, fu accorta e studiata educazione, che ben impiegata con le sue naturali doti di prontezza di spirito, vastità di mente, modestia di portamento, contribuì dassai a formarlo quel grand'uomo che ei divenne".

   La Comunità di Torre del Greco ha intitolato a Gaetano De Bottis una strada ed il Liceo cittadino.

                                        

    Le cinque scritte poste sulla porta della chiesa di S. Croce ed ai quattro lati del mausoleo eretto nella stessa chiesa durante il funerale di Don Gaetano de Bottis, cosi come ci vengono riportate da Francesco Saverio Loffredo nel suo: Solenne funerale Don Gaetano de Bottis, Professore di Storia Naturale nei regi studi di Napoli, socio pensionista nell'Accademia reale delle scienze e delle lettere, etc. etc. celebrato nella Torre del Greco, sua Patria, Napoli M.D.C.C.X.C., nella stamperia di Michele Migliaccio.

 Una lapide composta dallo stesso Francesco Saverio Loffredo che il Comune avrebbe dovuto collocare in un luogo pubblico, una via o una piazza. Non sappiamo se ciò fu fatto, in quanto la terribile eruzione del 1794 distrusse 1'intera città.

                                          

Delibera del Consiglio Comunale
 e nota di spese per lo funerale
del q.m. Rev.do Don Gaetano De Bottis

 Delibera Consiglio Comunale

 L'Università rappresentata dagli eletti e deputati, previo consenso del Sovraintendente D. Francesca Peccheneda, per riunirsi, deliberò di onorare la memoria di D. Gaetano de Bottis con un solenne funerale addì 23 maggio 1790.

 Acciò servisse al Posteri non solo incomprova del dolore risentito per la sua morte ma eziandio, per atto di gratitudine a lui troppo ben dovuto, e finalmente per un sincero attaccamento, nella sua morie che indicasse apertamente il suo disinteresse dimostrato verso la Patria in tutto il tempo di sua vita.

 Nota di spese per lo funerale del q.m. Rev.do D. Gaet~no de Bottis.

    Al M.ro Francesco d'Orlando e Mattia Sorrentino, Apparatore per la costruzione                 
dell'Orchestra e per la Castellana                                                           duc.  10
                                                                       
   Al Rev. Clero per l'Ufficio dei morti, assistenza alla messa solenne, libera, e limosina
di d. a messa                                                                                       duc. 5,50

   Al Magnifico Michele Migliaccio, Stampatore Napoletano, per la stampa della
Orazione funebre e dell'iscrizione di cui si tirano copie num.o d                duc.  12    

   Al Rev.do D. Salvatore Raiola per aver copiato in grande cinque iscrizioni affisse
a d.a Castellana e sopra la porta e carte quattro per d.e iscrizioni               duc.   2                    

   Al Rev do Sebastiano Panariello Sag.no Mag.re della d.a Chiesa di S. Croce per
consumo di cere lib.e sedici alla rag. di g.na quarantuno la libra duc. sei e g.r.
cinquantasei per altre cere occorse che si sono poste da d.a. Chiesa, che non si portano  in questo conto                                                                                         duc.  6,56

   A Pietro Vitiello Serviente di d.a Chiesa e suoi compagni per suono delle Campane,
tirare li mantici dell'organo ed altro                                                         duc.  0,4
                                                                                                          ---------------                                                                                      In tutto sono  duc. 36,50

Torre del Greco, 26/7/1790

 Exqueatur 

                 Peccheda                Giuseppe  D'lstria         eletto
                                               Aniello     Brancaccio    eletto
                                               Antonio    Giobbe         eletto
                                               Giuseppe  Palomba       eletto

 Note  bibliografiche

      1)   S. Loffredo, Turris Octavae alias del Greco, Napoli, 1983, pag. 343.  L'autore riporta    
            una sua ricerca di archivio: "nel libro 10° dei Battezzati della Parrocchia di S. Croce di
            Torre del Greco al 15° foglio si trova annotato Gaetano, Giuseppe, Procopio, Nazario,  
            Innocenzo de Bottis di Salvatore e di Teresa  Borriello, battezzato il 28 luglio 1721,   
            nato la notte precedente, il battesimo fu amministrato dal parroco D. Giovanni,   
            Domenico Cartuccio".

2)  S. Loffredo, op. cit. pag. 341. Il Loffredo scrive "Orazio de Bottis della terra di Montella (Avellino) diocesi di Nusco, e figlio di Giuseppe e Aurelia Vernacchio, ha 35 anni circa abita a Torre dei Greco da circa 9 anni (1681)".
"Firma la sua dichiarazione, ma non dichiara la professione".
"Vuole sposare Grazia Di Donna di Francesco e Vittoria Cocozza, nata il 3 febbraio che dichiara di avere decem et octo anni, non sa firmare".

3) Il Concilio Romano del 1725 confermò, senza tenere presente i cambiamenti storici avvenuti, quanto era scritto nella Costituzione di Gregorio XIV "Cumalias". Per un approfondimento vedi: R. De Maio, Società e vita religiosa a Napoli nell'età moderna, Napoli, 1971. F. Strazzullo, Dietro le grate del Divino Amore, il Settecento religioso a Napoli, Napoli, 1978. E. Papa, Consensi e contrasti intorno al  Concilio Romano del 1725 in Civiltà Cattolica, 1960, I pp. 146-157; G. Recuperati, Napoli e i viceré austriaci, 1707-1734 in Storia di Napoli, 251, vol. VI e VII. L. Fiorani, il Concilio Romano dei 1725, Roma, 1978.

   4)  F. Miccolini, Uomini di spada, di chiesa, di toga, di studio al tempo di Giovabattista Vico,
         Milano 1942. R. Colapietro, Vita pubblica e classi politiche del viceregno napoletano
         1656-1734) Roma 1961. G. Recuperati, L'esperienza civile e religiosa di Pietro Gian-
         none - Milano-Napoli 1970. Aldo Caserta, Sinodi della Chiesa di Napoli 1983.

   5)  A. Ajeilo, Giuristi e società al tempo di Pietro Giannone, Napoli 1980.

   6)  F. S. Loffredo, Solenne funerale di Gaetano De Bottis, Napoli 1790.

   7)  P. Colletta, Storia dei Reame di Napoli, Milano, 1967, libro I, cap. III, XXXVII.

   8)  P. Colletta, op. cit. libro I, cap. IV, LIV.

   9)  S. F. Loffredo, op. cit. pag. 16 scrive: "L'impareggiabile cardinale Giuseppe Spinelli
         ...al vedersi la  prima volta innanzi il bravo garzone, che non ancora della prima
         lanugine aveva ornate le guance, e si  esponeva a rispondere in tutta la teologia, per
         lunga pezza di tempo si diede il piacere di ammirarne la prontezza dallo spirito,
         lo scioglimento delle più indrigate quistioni, la purità del latino linguaggio; e si racconta
         ancor fra noi il motto dei gran cardinale. Questo esame, ci disse, varrebbe per un 
         eccellente concorso di Parrocchia.
 
   10)  Vedi F. S. Loffredo, op. cit., pag. 22.

   11)  R. De Maio, op. cit. pag. 210.

   12)  R. De Maio, op. cit. pag. 211.

   13)  A. Ghirelli, Storia di Napoli, Einaudi, 1972.

   14)  A. Ghirelli, op. cit., pagg. 135-136. Sul regno di Ferdinando IV si vedano: R. Moscati,
        I Borboni di Napoli, CXittà di Castello, 1973 pp. 65-79; A. Wandruska, Il "principe
        filosofo" e il "re lazzarone".Le lettere del granduca Pietro Leopoldo sul suo soggiorno
        a Napoli, in Rivista storica italiana, 1960 pp.501-510.

   15)   Sulla cacciata dei Gesuiti si vedino: P. Colletta, op. cit., Libro II, cap. II, VIII.

   16)   A. Ghirelli, op. cit., pag. 132.

   17)   Cfr. A. Ghirelli, op. cit., pag. 139.

   18)  Lamery Nicolas, Explication, physique et chymique des Feux souterrains des
          Trembiements de terre, des Aeragans, des Enclairs et du Tonnerre.
Hostoire de
          l'Accademie Royale de Sciences.

   19)  G. M. Della Torre, Storia e fenomeni del Vesuvio - Napoli, 1768; scienza della natura
          generale, parte seconda, Napoli, 1777.

   20)   G. De Bottis, Ragionamento istorico intorno all'eruzione del Vesuvio che cominciò il 29
           luglio dell'anno 1779, Napoli.
   21)  G. De Bottis, Ragionamento istorico dell’incendio del Vesuvio accaduto nel mese di
            ottobre 1767, Napoli, 1768.

   22)  G. De Bottis, Ragionamento istorico dell'incendio del Vesuvio che cominciò nell'anno
           1770 e delle varie eruzioni che ha accompagnate, Napoli 1776.

   23)  Cfr. R. Raimondo, Itinerari Torresi, Ed. La Torre, 1973, pag. 353-354.

   24)  G. De Bottis, Storia dei vari incendi del Monte Vesuvio, Napoli, 1786

   25)  F. S. Loffredo, op., cit., pag. 4.

   26)  F. S. Loffredo, op., cit., pag. 14.

   27)  Idem, pag. 14- 15.