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La tradotta
Oggi, nella livida luce di una mattinata fredda ed uggiosa,
così come stabilito da un ordinanza del Sindaco, sono
iniziati i trasferimenti di buon parte dei cittadini torresi
verso non ben precisati paesini, ma anche villaggi,
svizzeri. Essi sono stati strappati al tepore del letto
prima che iniziasse ad albeggiare, in ore antelucane.
In men che non si dica l’aria si è riempita di pianti ed
urla strazianti “ nun ci vogli i, vogli sta ca, a casa mi,
tantu bello” Ma gli sgherri, con terribili cani al
guinzaglio, sono stati irremovibili e non hanno lesinato
calci e pugni, e neanche hanno provato compassione davanti
ad una vecchia ultracentenaria, spinta selvaggiamente giù
dalle scale.
Questi poveracci sono stati poi, sotto una pioggia battente,
radunati nel campo sportivo A. Liquori e qui brutalmente
ammassati nell’attesa che arrivino i convogli che li
tradurranno nelle fredde contrade elvetiche.
Il tutto fa parte di un piano elaborato dall’assessore alla
cultura, notoriamente amante della teoria marxisista-maoista
la quale contempla campi di rieducazioni per estirpare
vecchie e logore abitudini e quindi creare i presupposti per
cambiare le condizioni socio culturali della realtà nella
quale si vive.
Quindi questi disgraziati dovranno vivere lontani da casa,
in Svizzera,per un anno intero, per cercare di acquisire,
sebbene in un contesto tutt’altro che piacevole, i modi e le
usanze del paese transalpino per completare la metamorfosi
di Torre in un borgo svizzero così come il Sindaco ha
promesso,forse impudentemente, circa un anno fa.
E così, dopo il restyling del centro storico, che ha
regalato alla nostra città un aspetto più che piacevole tale
da poter rivaleggiare, in bellezza, con la stessa Ginevra,
non restava che espletare l’ultima fase ovvero la
rieducazione in cattività.
I malcapitati torresi verranno sottoposti al metodo Pavlov
che si basa sulla teoria del riflesso condizionato. Tanto
per essere più chiari, faccio un esempio: se un nostro
concittadino, dopo reiterate ed inutili prove, riesce ad
intuire che una cartaccia va buttata nell’apposito cestino e
non per terra,verrà gratificato con una semmolella od un
piatto di spaghetti a vongole. Nella disgraziata ipotesi
contraria di un fallimento, dovrebbe, per punizione,
continuare a sorbirsi il solito intruglio di cavolo e
patate, uno schianto di sbobba.
Ecco il treno che arriva. Vengono, tra pianti e stidor di
denti, fatti salire tutti,e qualche recalcitrante con modi
alquanto spicci. Si è poco dopo pronti a partire per un
altro mondo, il regno della raclette.
Come un temile deus ex macchina, il Sindaco, acquattato
negli spogliatoi sotterranei, con un leggero velo di
perfidia che gli offusca il bel volto da terrazziere, da il
fischio di partenza. Un ululato lugubre, tramite gli
altoparlanti, si propaga nell’aria. Parte il treno così
,destinazione Svizzera, tra urla e lamenti che solo
gradualmente si spengono quando esso sbuffando è nei pressi
di Portici………………. Adieu ed a presto.
Giovanni Ruotolo.
Il fatto
E dopo tanti anni che ci provavo e sempre,
dopo reiterate e cocenti delusioni, desistevo dal
fare,oramai affranto, ulteriori tentativi, oggi finalmente
una vittoria, seppur flebile, mi ha sorriso.
Confesso che quanto successo ha
dell’incredibile. Io tesso non volevo credere ai miei occhi.
Eppure altri ci erano riusciti ed io invece dopo quaranta
anni e passa ero rimasto al palo. Di che sto parlando?
Niente, semplicemente che poco fa ho levitato. Sì, mi sono,
seduto a gambeincrociate,
staccato dal divano. Cose da non crederci: aleggiavo
nell’aria come un consumato maestro yoga.
Il
fatto è che pratico meditazione trascendentale da una vita.
Sempre ogni mattina ho dedicato venti minuti a coltivare
questa pratica ascetica nella speranza che prima o poi mi
sarei librato nel blu dipinto di blu.
Fu un nipote di Lauro nel
lontano 1980 ad insegnarmela, prima che la pazzia gli
sconvolgesse la mente al punto da darsi un colpo di pistola
alla tempia.
Sono stato in India per
alcuni mesi nel 1983 a cercare, come Hermann Hess, il mio
Siddharta, la mia pace interiore. Ma invano! Quantunque
bagnassi i piedini nel Gange,tutto rimaneva così com’era.
E invece
stamane…è incredibile, ancor non posso crederci! Nel dubbio
che possa trattarsi di un sogno, di uno scherzetto onirico,
mi sono anche pizzicato le guance… e sono proprio sveglio!
(...)
Mia
madre,
una giovane donna
A vederla oggi così indifesa ed anche
invecchiata, a stento si potrebbe immaginare come era bella
mia madre da ragazza. Ed è stato solo guardando foto oramai
prese in un tempo distante che ho potuto riscoprire la sua
grazia di giovane donna.
Oggi lei ha più di ottanta anni e porta nel cuore le ferite
del tempo ma ancora conserva intatto sul viso la dolcezza
del vivere. “ Gaziè, tien a vocc i zuccher” così dicevano di
lei i clienti del negozio di giù a mare che rifuggendo i
modi sbrigativi ed urticanti di mio padre amavano farsi
servire da lei che sempre non ha mai lesinato un sorriso o
un parola buona a nessuno.
Di quel tempo vecchio e remoto, in una delle rare foto di me
piccolissimo, avrò avuto una decina di mesi, mi si vede in
braccio a lei , all’aperto, in strada, forse davanti al
negozio. Allora lei aveva già un bimbo di qualche anno, mio
fratello Ciro, e sul bel viso portava già una flebile
traccia della fatica del vivere.
Mia madre era una donna instancabile, riusciva a coniugare
la conduzione del negozio e nel frattempo a far crescere
quattro figli poiché altri due, a distanza di pochi anni uno
dall’altro, poi sono venuti, Anna e Carmine. |
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Ne avrebbe voluto tanti altri,ma dice lei, il destino non ha
voluto, anzi “ u signor nun a volut”
A pensarci adesso mai ho sentito urlare mia madre, mai un
imprecazione, una parola aspra, un battibecco. Ma non era
per debolezza o remissività, anzi lei era una donna forte di
carattere e, quand’era il caso sapeva il fatto suo.
Solo una volta, rivedo tuttora la scena come in un vecchio
film in bianco e nero,l’ho vista infuriata. Pensando che mio
padre avesse imbastito una tresca con una vicina, presa
dalla gelosia, una sera, ricordo, lo rincorse con una scopa
in mano, a mo’ di clava, attorno al tavolo. Lui , mio padre,
che impaurito ed anche sorpreso da questa furia inaspettata,
scappava avanti in tondo e lei, correndo, lo incalzava
dappresso. E noi piccoli, non affatto impauriti,seduti
attorno al tavolo,divertiti, ci godevamo la scena che in
fondo, come in un film di Totò, aveva un che di esilarante.
In altre foto poi mi si è disvelata la sua bellezza che
tuttora le ingiurie del tempo non hanno completamente fatto
svanire ed anzi ancora oggi conserva tracce di quell’antica
grazia. Alcune di queste la ritraggono, quasi felice, sul
vaporetto in gita a Capri, in uno dei rari momenti di
libertà dalle incombenze quotidiane. Aleggia sul viso
sorridente la speranza di un futuro carico di promesse.
Mentre scrivo mi pervengono come fotogrammi immagini di lei.
Eccola dietro al “bancone”, avrà avuto una trentina d’anni,
mentre serve una cliente. Ha come un che’ di luminoso sul
viso leggermente abbronzato e sulla fronte una frangia
ribelle di nerissimi capelli le impreziosisce la fronte.
Ed ancora la rivedo, mentre alle prime luci dell’alba,
traffica con la farina e le pentole per poi friggere” i
zeppul i San Giuseppe”. Al risveglio, in quell’amalgama di
odori di zucchero e cannella, vedere sul tavolo, quei vassoi
ricolmi di quel ben di Dio era per noi piccoli una festa
dell’anima.
Mi rivedo poi io stesso, adolescente,a pomeriggio inoltrato,
che tornando da scuola, allora frequentavo l’istituto
tecnico di Bagnoli, rientravo in una casa vuota, ed ad
attendermi spesso un piatto di pasta al pomodoro “gnassat”
sormontato da una polpetta. Lo divoravo senza neanche
passarlo in padella, poi in quel silenzio tombale, sempre da
solo, facevo i compiti fino a che poi i miei, chiuso il
negozio intorno alle nove, facevano rientro. Ed era per me
un sollievo. Presa com’era dalla conduzione del negozio, ho
molto sofferto per la sua assenza in casa. Quando mi recavo
a casa di un amico era per me una sofferenza indicibile
vedere come le loro mamme li servivano in tutto e per tutto.
Malgrado avesse poco tempo da dedicare alla cucina, era
comunque una cuoca impareggiabile. Leggendario il suo
calamaro, di quelli grossi e polposi, ripieno ed immerso nel
sugo di pomodoro. Nel tempo a venire mai ne ho mangiati di
così buoni.
Ecco, questa graziosa e giovane donna era mia madre in un
tempo oramai antico. Chiuso il negozio negli anni ottanta,un
sipario calò sulla parte più bella della sua vita, perché in
fondo amava stare in mezzo agli altri. Oggi con tutti gli
acciacchi della vecchia, con abnegazione ed anche stoicismo
, assiste mio padre nelle sue asperità caratteriali e a noi,
figli, anche noi non più giovani, non manca mai di regalarci
una carezza sulla guancia.
(...)
Il tesoro
Giù a mare, negli anni 50, la
scuola elementare del quartiere era ubicata in un palazzo
del primo novecento sul corso Garibaldi. L’edificio,
fatiscente fino a poco tempo fa, è stato recentemente
restaurato e, a dire il vero, mantiene, sebbene essenziale
nelle linee architettoniche, una sua grazia, una certa
eleganza, sebbene austera. Noi, ragazzini d’allora, a scuola
si andava rigorosamente a piedi e non poteva essere
diversamente, non esistevano auto. Voglio dire che solo
pochi, i più agiati, ne possedevano qualcuna, per il resto
non era infrequente imbattersi in carrette trainati da asini
ed anche cavalli. I maestri, e qui per carità cristiana non
faccio nomi, sebbene siano da non molto tempo morti,
conservavano un atteggiamento alquanto autoritario, retaggio
del farsesco regime fascista da pochi anni tracollato. I
metodi di insegnamento erano alquanto spicci, ed era la
bacchettata la loro arma prediletta. Allo scopo si
utilizzava una verga di legno duro, qualcuno con un certo
sadismo addirittura di ferro, che veniva sferrata con una
certa virulenza sulla mano del malcapitato che, quasi come
un vezzo, cercava di ritrarla. Inutilmente, un dolore
lancinante lo piegava in due fin quasi a togliergli il
respiro.
Ma, fortunatamente, era a
fine lezione, nella tarda mattinata, che arrivava ciò che
fin dalla mattina, si desiderava ardentemente, tale da
inficiare la dovuta concentrazione. Il tesoro lo portavo un
bidello in un sacco di juta. Cosi’, all’improvviso, i
battiti, all’unisono, acceleravano, il respiro si faceva
pesante, gli occhi tutti concentrati sull’oggetto agognato,
ed un silenzio irreale calava così sull’aula.
Era in quel preciso momento
che il maestro diveniva un deus ex macchina: poteva disporre
come voleva, nella più assoluta discrezionalità, a chi
distribuire o meno il tesoro. Con una certa sacralità
scioglieva lo spago ed ecco fuoruscire il prezioso
contenuto: erano panini, sì, panini, con marmellata, con
mortadella e a volte, per me, con la tanto desiderata carne
in scatola.
Iniziava a chiamare chi, secondo lui, per motivi di
indigenza, ne potesse avere più bisogno. E cosi’ man mano
che i panini diminuivano tanto più scemavano le mie
speranze. Niente, mai avuto uno. Il maestro, sapendo che mio
padre era commerciante mi considerava appartenente ad una
categoria non sull’orlo della fame. Il mio stomaco, però di
tutto questo non ne sapeva alcunchè e bofonchiava.
In definitiva tornavo a casa incavolato e con una fame da
lupi e che fino all’ora di pranzo non sapevo affatto come
lenire. |