La torre del Greco
cromosomica

di
Giovanni Ruotolo

"Sono io la Napoli di cui racconto e altre non ne conosco perché solo di me so qualcosa
se lo so..."
               
                             Giuseppe Marotta


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La tradotta 
Oggi, nella livida luce di una mattinata fredda ed uggiosa, così come stabilito da un ordinanza del Sindaco, sono iniziati i trasferimenti di buon parte dei cittadini torresi verso non ben precisati paesini, ma anche villaggi, svizzeri. Essi sono stati strappati al tepore del letto prima che iniziasse ad albeggiare, in ore antelucane.
In men che non si dica l’aria si è riempita di pianti ed urla strazianti “ nun ci vogli i, vogli sta ca, a casa mi, tantu bello” Ma gli sgherri, con terribili cani al guinzaglio, sono stati irremovibili e non hanno lesinato calci e pugni, e neanche hanno provato compassione davanti ad una vecchia ultracentenaria, spinta selvaggiamente giù dalle scale.
Questi poveracci sono stati poi, sotto una pioggia battente, radunati nel campo sportivo A. Liquori e qui brutalmente ammassati nell’attesa che arrivino i convogli che li tradurranno nelle fredde contrade elvetiche.
Il tutto fa parte di un piano elaborato dall’assessore alla cultura, notoriamente amante della teoria marxisista-maoista la quale contempla campi di rieducazioni per estirpare vecchie e logore abitudini e quindi creare i presupposti per cambiare le condizioni socio culturali della realtà nella quale si vive.
Quindi questi disgraziati dovranno vivere lontani da casa, in Svizzera,per un anno intero, per cercare di acquisire, sebbene in un contesto tutt’altro che piacevole, i modi e le usanze del paese transalpino per completare la metamorfosi di Torre in un borgo svizzero così come il Sindaco ha promesso,forse impudentemente, circa un anno fa.
E così, dopo il restyling del centro storico, che ha regalato alla nostra città un aspetto più che piacevole tale da poter rivaleggiare, in bellezza, con la stessa Ginevra, non restava che espletare l’ultima fase ovvero la rieducazione in cattività.
I malcapitati torresi verranno sottoposti al metodo Pavlov che si basa sulla teoria del riflesso condizionato. Tanto per essere più chiari, faccio un esempio: se un nostro concittadino, dopo reiterate ed inutili prove, riesce ad intuire che una cartaccia va buttata nell’apposito cestino e non per terra,verrà gratificato con una semmolella od un piatto di spaghetti a vongole. Nella disgraziata ipotesi contraria di un fallimento, dovrebbe, per punizione, continuare a sorbirsi il solito intruglio di cavolo e patate, uno schianto di sbobba.
Ecco il treno che arriva. Vengono, tra pianti e stidor di denti, fatti salire tutti,e qualche recalcitrante con modi alquanto spicci. Si è poco dopo pronti a partire per un altro mondo, il regno della raclette.
Come un temile deus ex macchina, il Sindaco, acquattato negli spogliatoi sotterranei, con un leggero velo di perfidia che gli offusca il bel volto da terrazziere, da il fischio di partenza. Un ululato lugubre, tramite gli altoparlanti, si propaga nell’aria. Parte il treno così ,destinazione Svizzera, tra urla e lamenti che solo gradualmente si spengono quando esso sbuffando è nei pressi di Portici………………. Adieu ed a presto.

Giovanni Ruotolo.

 Il fatto

E dopo tanti anni che ci provavo e sempre, dopo reiterate e cocenti delusioni, desistevo dal fare,oramai affranto, ulteriori tentativi, oggi finalmente una vittoria, seppur flebile, mi ha sorriso.
Confesso che quanto successo ha dell’incredibile. Io tesso non volevo credere ai miei occhi. Eppure altri ci erano riusciti ed io invece dopo quaranta anni e passa ero rimasto al palo. Di che sto parlando? Niente, semplicemente che poco fa ho levitato. Sì, mi sono, seduto a gambeincrociate, staccato dal divano. Cose da non crederci: aleggiavo nell’aria come un consumato maestro yoga.
Il fatto è che pratico meditazione trascendentale da una vita. Sempre ogni mattina ho dedicato venti minuti a coltivare questa pratica ascetica nella speranza che prima o poi mi sarei librato nel blu dipinto di blu.
Fu un nipote di Lauro nel lontano 1980 ad insegnarmela, prima che la pazzia gli sconvolgesse la mente al punto da darsi un colpo di pistola alla tempia. 
Sono stato in India per alcuni mesi nel 1983 a cercare, come Hermann Hess, il mio Siddharta, la mia pace interiore. Ma invano! Quantunque bagnassi i piedini nel Gange,tutto rimaneva così com’era.
E invece stamane…è incredibile, ancor non posso crederci! Nel dubbio che possa trattarsi di un sogno, di uno scherzetto onirico, mi sono anche pizzicato le guance… e sono proprio sveglio!

(...)

Mia madre,
una giovane donna

A vederla oggi così indifesa ed anche invecchiata, a stento si potrebbe immaginare come era bella mia madre da ragazza. Ed è stato solo guardando foto oramai prese in un tempo distante che ho potuto riscoprire la sua grazia di giovane donna.
Oggi lei ha più di ottanta anni e porta nel cuore le ferite del tempo ma ancora conserva intatto sul viso la dolcezza del vivere. “ Gaziè, tien a vocc i zuccher” così dicevano di lei i clienti del negozio di giù a mare che rifuggendo i modi sbrigativi ed urticanti di mio padre amavano farsi servire da lei che sempre non ha mai lesinato un sorriso o un parola buona a nessuno.
Di quel tempo vecchio e remoto, in una delle rare foto di me piccolissimo, avrò avuto una decina di mesi, mi si vede in braccio a lei , all’aperto, in strada, forse davanti al negozio. Allora lei aveva già un bimbo di qualche anno, mio fratello Ciro, e sul bel viso portava già una flebile traccia della fatica del vivere.
Mia madre era una donna instancabile, riusciva a coniugare la conduzione del negozio e nel frattempo a far crescere quattro figli poiché altri due, a distanza di pochi anni uno dall’altro, poi sono venuti, Anna e Carmine.

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Ne avrebbe voluto tanti altri,ma dice lei, il destino non ha voluto, anzi “ u signor nun a volut”
A pensarci adesso mai ho sentito urlare mia madre, mai un imprecazione, una parola aspra, un battibecco. Ma non era per debolezza o remissività, anzi lei era una donna forte di carattere e, quand’era il caso sapeva il fatto suo.
Solo una volta, rivedo tuttora la scena come in un vecchio film in bianco e nero,l’ho vista infuriata. Pensando che mio padre avesse imbastito una tresca con una vicina, presa dalla gelosia, una sera, ricordo, lo rincorse con una scopa in mano, a mo’ di clava, attorno al tavolo. Lui , mio padre, che impaurito ed anche sorpreso da questa furia inaspettata, scappava avanti in tondo e lei, correndo, lo incalzava dappresso. E noi piccoli, non affatto impauriti,seduti attorno al tavolo,divertiti, ci godevamo la scena che in fondo, come in un film di Totò, aveva un che di esilarante.
In altre foto poi mi si è disvelata la sua bellezza che tuttora le ingiurie del tempo non hanno completamente fatto svanire ed anzi ancora oggi conserva tracce di quell’antica grazia. Alcune di queste la ritraggono, quasi felice, sul vaporetto in gita a Capri, in uno dei rari momenti di libertà dalle incombenze quotidiane. Aleggia sul viso sorridente la speranza di un futuro carico di promesse.
Mentre scrivo mi pervengono come fotogrammi immagini di lei. Eccola dietro al “bancone”, avrà avuto una trentina d’anni, mentre serve una cliente. Ha come un che’ di luminoso sul viso leggermente abbronzato e sulla fronte una frangia ribelle di nerissimi capelli le impreziosisce la fronte.
Ed ancora la rivedo, mentre alle prime luci dell’alba, traffica con la farina e le pentole per poi friggere” i zeppul i San Giuseppe”. Al risveglio, in quell’amalgama di odori di zucchero e cannella, vedere sul tavolo, quei vassoi ricolmi di quel ben di Dio era per noi piccoli una festa dell’anima.
Mi rivedo poi io stesso, adolescente,a pomeriggio inoltrato, che tornando da scuola, allora frequentavo l’istituto tecnico di Bagnoli, rientravo in una casa vuota, ed ad attendermi spesso un piatto di pasta al pomodoro “gnassat” sormontato da una polpetta. Lo divoravo senza neanche passarlo in padella, poi in quel silenzio tombale, sempre da solo, facevo i compiti fino a che poi i miei, chiuso il negozio intorno alle nove, facevano rientro. Ed era per me un sollievo. Presa com’era dalla conduzione del negozio, ho molto sofferto per la sua assenza in casa. Quando mi recavo a casa di un amico era per me una sofferenza indicibile vedere come le loro mamme li servivano in tutto e per tutto.
Malgrado avesse poco tempo da dedicare alla cucina, era comunque una cuoca impareggiabile. Leggendario il suo calamaro, di quelli grossi e polposi, ripieno ed immerso nel sugo di pomodoro. Nel tempo a venire mai ne ho mangiati di così buoni.
Ecco, questa graziosa e giovane donna era mia madre in un tempo oramai antico. Chiuso il negozio negli anni ottanta,un sipario calò sulla parte più bella della sua vita, perché in fondo amava stare in mezzo agli altri. Oggi con tutti gli acciacchi della vecchia, con abnegazione ed anche stoicismo , assiste mio padre nelle sue asperità caratteriali e a noi, figli, anche noi non più giovani, non manca mai di regalarci una carezza sulla guancia.

(...)

Il tesoro

Giù a mare, negli anni 50, la scuola elementare del quartiere era ubicata in un palazzo del primo novecento sul corso Garibaldi. L’edificio, fatiscente fino a poco tempo fa, è stato recentemente restaurato e, a dire il vero, mantiene, sebbene essenziale nelle linee architettoniche, una sua grazia, una certa eleganza, sebbene austera. Noi, ragazzini d’allora, a scuola si andava rigorosamente a piedi e non poteva essere diversamente, non esistevano auto. Voglio dire che solo pochi, i più agiati, ne possedevano qualcuna, per il resto non era infrequente imbattersi in carrette trainati da asini ed anche cavalli. I maestri, e qui per carità cristiana non faccio nomi, sebbene siano da non molto tempo morti, conservavano un atteggiamento alquanto autoritario, retaggio del farsesco regime fascista da pochi anni tracollato. I metodi di insegnamento erano alquanto spicci, ed era la bacchettata la loro arma prediletta. Allo scopo si utilizzava una verga di legno duro, qualcuno con un certo sadismo addirittura di ferro, che veniva sferrata con una certa virulenza sulla mano del malcapitato che, quasi come un vezzo, cercava di ritrarla. Inutilmente, un dolore lancinante lo piegava in due fin quasi a togliergli il respiro.

Ma, fortunatamente, era a fine lezione, nella tarda mattinata, che arrivava ciò che fin dalla mattina, si desiderava ardentemente, tale da inficiare la dovuta concentrazione. Il tesoro lo portavo un bidello in un sacco di juta. Cosi’, all’improvviso, i battiti, all’unisono, acceleravano, il respiro si faceva pesante, gli occhi tutti concentrati sull’oggetto agognato, ed un silenzio irreale calava così sull’aula.

Era in quel preciso momento che il maestro diveniva un deus ex macchina: poteva disporre come voleva, nella più assoluta discrezionalità, a chi distribuire o meno il tesoro. Con una certa sacralità scioglieva lo spago ed ecco fuoruscire il prezioso contenuto: erano panini, sì, panini, con marmellata, con mortadella e a volte, per me, con la tanto desiderata carne in scatola.
Iniziava a chiamare chi, secondo lui, per motivi di indigenza, ne potesse avere più bisogno. E cosi’ man mano che i panini diminuivano tanto più scemavano le mie speranze. Niente, mai avuto uno. Il maestro, sapendo che mio padre era commerciante mi considerava appartenente ad una categoria non sull’orlo della fame. Il mio stomaco, però di tutto questo non ne sapeva alcunchè e bofonchiava.

In definitiva tornavo a casa incavolato e con una fame da lupi e che fino all’ora di pranzo non sapevo affatto come lenire.