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La fame
Si parla,oggi, tanto di miseria,d’indigenza, di mal de
vivre. Certo non saro’ io a voler negare questo diffuso
senso di malessere. Ma cio’ che imbarazza e’ il piagnisteo
corale e l’ostentare le presunte poverta’ quasi come se
fossero delle stimmate purulenti.
Negli anni cinquanta, io ero appena un bambinetto,al
contrario di oggi, chi non aveva nulla, pur di non far
risaltare la propria indigenza, simulava un benessere
inesistente. Pertanto la domenica pomeriggio, a
testimonianza di un lauto pranzo, ci si macchiava la
camicia, spesso bianca, con una stilla di un ipotetico sugo
di pomodoro. Non si diceva alcunche’, la macchia parlava da
se’: oggi mi sono consolato con un sontuoso piatto di
maccheroni al ragu’ e perdipiu’ finanche con una braciola,o
con una cotica morbidissima o addirittura con due o piu’
polpette lussuriose. Sforzandosi, si cercava , mentre la
fame lacerava brutalmente le pareti dello stomaco, di
assumere un espressione di sazieta’. Era una fame
atavica,endemica, quasi ancestrale. Ma , abituati a ben
altre ingiurie, i nostri genitori, i nostri nonni non si
piegavano. Erano tosti, di tutt’altra fibra che la nostra,
che e’ per lo piu’ imbolsita.
Mia madre ama ricordare che la nonna,povera, obbligava i
suoi figli a non accettare cibo da nessuno. Anzi, malgrado
la pancia bofonchiasse paurosamente, dovevano far intendere
che erano gia’ sazi. Che decoro! Che dignita’! Io stesso fui
redarguito dalla mia severissima nonna per aver accettato,
ero appena un adolescente, un boccale di birra da un
congiunto.
In quei tempi amari, il cibo era un convitato di pietra
perenne. Esso affollava i nostri sogni, per lo piu’ da
svegli. Davanti agli occhi ci balenavano lunghe file di
salsicce, cosciotti di pollo ben dorati, tagliatelle al
ragu’, braciole stillanti sugo, capretto al forno con patate
e piselli…Ma questi piatti proibiti raramente ci deliziavano
il palato, al massimo nelle grandi occasioni. Cosi’ nel
quotidiano, il menu’ giornaliero era costellato dai piatti
della tanto,oggi, sbandierata dieta mediterranea : pasta e
lenticchie o fagioli, pasta e cavolo o riso e verza….
Insomma tanti legumi,ortaggi e carne, in genere pezzi
plebei,ogni tanto. Come colazione pane, zucchero ed un
goccio d’olio d’oliva o, quand’era il tempo, pane e fichi o
con pomodori e basilico. Non volendo avevamo adottato uno
stile salutistico, ma il tutto era a nostra insaputa.
Poi nei primi anni sessanta inizio’ a spirare un leggero
vento di benessere . Prodotti inusitati iniziarono a fare
capolino sulle nostre sparute tavole: aragoste, ananas,
burro, latte concentrato e carne, tanta carne. Era grazie ai
nostri parenti marittimi se potevamo gustare queste
prelibatezze.
Comunque altri tempi, altre storie, altra gente, certamente
più dignitosa di quella di oggi.
(…)
La decisione
Era caduto come in un baratro,
quasi come in un vicolo cieco, di quelli che ti si parano
davanti quando proprio non te lo aspetti. Da
bambino,ricorda, come a volte, scappando inseguito da altri
ragazzi, si era trovato davanti un muro invalicabile, senza
alcuna via di scampo se non quella di soccombere. E così,
Vittorio, seduto sul letto, appena sveglio, dopo una notte
travagliata, rivedeva quell’antico baluardo, quel vicolo
senza scampo.
Ma, malgrado, le umiliazioni
che sempre la vita non ti lesina, era addivenuto ad una
decisione, non si sarebbe arreso, avrebbe imperterrito
continuato a girare in tondo sulla giostra della vita senza
alcun cedimento, senza mai barcollare. Ma poi, rimuginava
tra sé, come un oste insensibile, la vita, prima o poi, ti
rifila brutalmente il conto da pagare e tu non hai
alternative se non quella estrema di rifuggire da essa.
In
fondo aveva vissuto,e tanto. Aveva assaporato tutto il bello
che c’è, le albi radiose di quelle mattine estive quando il
mare ti accoglieva con i suoi riverberi dai colori
struggenti, le armonie di un pianoforte che venendo chissà
da dove , in certi assolati meriggi estivi, ti alleggeriva
l’anima e ti |
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trascinava in un lieve torpore, Il carezzare le pietre
variopinte che la risacca ti donava , lisce, odorose, e dai
colori rubati all’arcobaleno.
E poi aveva amato e tanto. E come in una serie di fotogrammi
incollati alla men peggio, rivedeva i volti delle donne che
gli avevano donato un po’ di felicità. Rivedeva quella sera,
quando, sdraiato con il suo primo amore, sulla rena ancora
tiepida di sole, mentre i bagliori dei fuori pirotecnici si
spegnevano nella vastità del cielo, aveva assaporato il
primo bacio. E poi nel tempo erano venuti i figli che tanto
ha amato e che tuttora sono il fulcro della sua vita. Non
poteva, non doveva deluderli. In fondo noi tutti siamo come
delle foglie ingiallite e basta un refolo di vento per
essere scaraventati nell’imponderabile, trascinati
brutalmente nei pantani del vivere.
Oramai
aveva deciso,anche se sbattuto nell’angolo, non avrebbe
ceduto, avrebbe preso la vita a morsi fino all’ultimo
respiro.
Un amore sofferto
Era una vita, una lunghissima vita che
stavano assieme. Un amore iniziato che era ancora ragazzina.
Un amore a dispetto di tutto: a dispetto della mamma, che
non voleva, dei parenti di lui , della furia di un mondo che
sembrava impazzito. Si erano sposati appena dopo la guerra,
erano entrambi giovanissimi, piu’ o meno diciotto anni. Un
lavoro duro, quattro figli da far crescere, e sempre con il
sorriso, mai una lamentela.
Ora ,a ottantaquattro anni,che a dire il vero nessuno glieli
dà, siede sola e amareggiata a un tavolino del bar
dell’albergo. Lui non è mai cambiato, sempre livoroso,
arrabbiato,come se il mondo, tutto, ce l’avesse con lui.
L’ha lasciata di nuovo sola,per un nonnulla. Di scatto si è
alzato ed è andato via.
Lei sta ancora lì, imbarazzata. I camerieri passano e
guardano. Non sa che fare, dove andare, piange
sommessamente. Vorrebbe scappare via, ma dove?
Ma e’ una donna forte, a dispetto del candore. Si alza e si
dirige verso di lui che siede, indifferente, poco distante.
Gli si avvicina per rabbonirlo. Ma niente, e’ irremovibile!
Corre in camera,e ci rimane per tutta la sera. La sua vita
scorre come un film. Mai un po’ di tenerezza da parte di
lui,sempre sbrigativo ,sempre preso dagli affari, e a volte
dimentico anche dei figli.
Scende giù che è sera, all’ ora di cena. Lo trova lì, al
tavolo, da solo. Gli si siede accanto, e così senza una
parola, iniziano a mangiare. Come sempre….senza una parola.
(…)
Zio Pasquale
“Signó, u figlio vuósto è ttale e qquale ú
frate vuósto.” Quando così dicevano a mia madre , riferendo
in tal modo una mia presunta somiglianza con mio zio
Pasquale, io, in cuor mio, me ne compiacevo. Eh, sì, perchè
in fondo lo zio era un bell’uomo, fisico prestante,
dinoccolato e dai lineamenti regolari sebbene con gli zigomi
un po’ accentuati.
Come in “ Uno, nessuno, centomila” di Pirandello ognuno di
noi è a seconda dalla percezione di chi lo vede e quindi
quello che vado a raccontare è ciò che per me è stato zio
Pasquale.
C’è una foto, che non sono riuscito a reperire, che lo
ritrae assieme a mio padre che camminano per una strada di
una livida Napoli appena liberata. I due, leggermente
trafelati e dal viso emaciato, così come mi ha raccontato
mio padre, vanno, in quel tempo di ristrettezze, in cerca di
occasioni per sbarcare il lunario.
Ma mentre mio padre, Piripì, aveva la mentalità di un
bucaniere, una scaltrezza innata, lo zio era persona
riservata al limite, a volte, della timidezza. Incompatibile
quindi con l’arte di arrangiarsi così in voga in quei tempi
di magra.
Mio zio era una persona dolce e non ricordo mai che abbia
mai alzato la voce. Forse solo una volta, e fu quando io,
bambino, lo feci andare fuori dai gangheri, lui che voleva
dormire ed io che schiamazzavo. Mi diede forse qualche
scappellotto di cui non serbo alcun ricordo. A volte nei
meriggi estivi, per trovare ristoro ed un po’ di quiete,
andava a rifugiarsi nella mansarda del negozio di mio padre,
posto proprio sull’ingresso. |