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U prufumo ’i
ll’ammore
“Teré, t’aggio
vuluto bbene assaie, e ttu u ssaie, ma tanto tanto ca l’ammore
mio neppure u mare u puteva tené”. La sera dal lavoro,
tramortito, tornavo a casa e tu stavi lì ad attendermi, sul
pianerottolo. Mi venivi incontro quasi gridando – Michè- e
mi abbracciavi. Poi mi carezzavi la nuca e, ad un tratto,
svaniva la stanchezza e un vigore mi assaliva. Così ti
prendevo sulle braccia e ti portavo in casa.
Ci siamo tanto amati tra quelle pareti azzurre come il
cielo, poi, ebbri di felicità, ci affacciavamo dalla piccola
finestra che dava sull’orto. Ci sporgevamo tra i gerani
rossi che tanto hai amato. E da giù, ricordi, saliva il
profumo dei gelsomini. Ecco, quell’odore che allora tanto mi
inebriava, io quanno u sento, penzo a tte, penzo â vocca
toia, e î mmane toie ca m’accarezzavano.
Di sera, d’estate, scendevamo in riva al mare e pure lì ci
siamo amati, di una passione furente tra i mille colori
delle barche tirate a secco, sotto una luna complice e con
il suono della risacca.
Eravamo tanto felici e pensavamo che sempre lo saremmo
stati. Ecco se qualcuno, passando di lì, ci avesse detto
“chisti so’ i mumenti cchiu belli r’a vita vosta”, noi di
sicuro avremmo riso. E mi sembra ancora di sentirla la tua
risata e a vocia toia ca diceva -Michè, ma chisto che ddice?-.
E invece chillo aveva raggione; nui èramo felici, tenévamo
tutto ma nunn u ssapévamo. E cosi il tempo è volato via,
iuorno roppa a gghiuorno , tra cose belle e cose brutte, ma
quei giorni lì, che noi ingenuamente pensavamo che non
sarebbero mai finiti, non son tornati più.
Ecco oramai sono vecchio ma u ssaie, Teré, io nu’ mme scordo
’i te. Pure oggi t’aggio purtato i sciuri, i gesummini e,
pure si stai llà ssotto, tu u siénti u prufumo. Non puoi non
sentirlo, chisto era u prufumo ’i ll’ammore nuosto.
RICORDI
E dopo tanti
anni che ci provavo e sempre, dopo reiterate e cocenti
delusioni, desistevo dal fare,oramai affranto, ulteriori
tentativi, oggi finalmente una vittoria, seppur flebile, mi
ha sorriso.
Confesso che quanto successo ha dell’incredibile. Io tesso
non volevo credere ai miei occhi. Eppure altri ci erano
riusciti ed io invece dopo quaranta anni e passa ero rimasto
al palo. Di che sto parlando? Niente, semplicemente che poco
fa ho levitato. Sì, mi sono, seduto a gambeincrociate,
staccato dal divano. Cose da non crederci: aleggiavo
nell’aria come un consumato maestro yoga.
Il fatto è che pratico meditazione trascendentale da una
vita. Sempre ogni mattina ho dedicato venti minuti a
coltivare questa pratica ascetica nella speranza che prima o
poi mi sarei librato nel blu dipinto di blu.
Fu un nipote di Lauro nel lontano 1980 ad insegnarmela,
prima che la pazzia gli sconvolgesse la mente al punto da
darsi un colpo di pistola alla tempia.
Sono stato in India per alcuni mesi nel 1983 a cercare, come
Hermann Hess, il mio Siddharta, la mia pace interiore. Ma
invano! Quantunque bagnassi i piedini nel Gange,tutto
rimaneva così com’era.
E invece stamane…è incredibile, ancor non posso crederci!
Nel dubbio che possa trattarsi di un sogno, di uno
scherzetto onirico, mi sono anche pizzicato le guance… e
sono proprio sveglio!
Mia madre,
una giovane donna
A vederla oggi
così indifesa ed anche invecchiata, a stento si potrebbe
immaginare come era bella mia madre da ragazza. Ed è stato
solo guardando foto oramai prese in un tempo distante che ho
potuto riscoprire la sua grazia di giovane donna.
Oggi lei ha più di ottanta anni e porta nel cuore le ferite
del tempo ma ancora conserva intatto sul viso la dolcezza
del vivere. “ Gaziè, tien a vocc i zuccher” così dicevano di
lei i clienti del negozio di giù a mare che rifuggendo i
modi sbrigativi ed urticanti di mio padre amavano
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farsi servire da lei che sempre non ha mai lesinato un
sorriso o un parola buona a nessuno. Di quel tempo vecchio e
remoto, in una delle rare foto di me piccolissimo, avrò
avuto una decina di mesi, mi si vede in braccio a lei ,
all’aperto, in strada, forse davanti al negozio. Allora lei
aveva già un bimbo di qualche anno, mio fratello Ciro, e sul
bel viso portava già una flebile traccia della fatica del
vivere.
Mia madre era una donna instancabile, riusciva a coniugare
la conduzione del negozio e nel frattempo a far crescere
quattro figli poiché altri due, a distanza di pochi anni uno
dal’altro, poi sono venuti, Anna e Carmine. Ne avrebbe
voluto tanti altri,ma dice lei, il destino non ha voluto,
anzi “ u signor nun a volut”
A pensarci adesso mai ho sentito urlare mia madre, mai un
imprecazione, una parola aspra, un battibecco. Ma non era
per debolezza o remissività, anzi lei era una donna forte di
carattere e, quand’era il caso sapeva il fatto suo.
Solo una volta, rivedo tuttora la scena come in un vecchio
film in bianco e nero,l’ho vista infuriata. Pensando che mio
padre avesse imbastito una tresca con una vicina, presa
dalla gelosia, una sera, ricordo, lo rincorse con una scopa
in mano, a mo’ di clava, attorno al tavolo. Lui , mio padre,
che impaurito ed anche sorpreso da questa furia inaspettata,
scappava avanti in tondo e lei, correndo, lo incalzava
dappresso. E noi piccoli, non affatto impauriti,seduti
attorno al tavolo,divertiti, ci godevamo la scena che in
fondo, come in un film di Totò, aveva un che di esilarante.
In altre foto poi mi si è disvelata la sua bellezza che
tuttora le ingiurie del tempo non hanno completamente fatto
svanire ed anzi ancora oggi conserva tracce di quell’antica
grazia. Alcune di queste la ritraggono, quasi felice, sul
vaporetto in gita a Capri, in uno dei rari momenti di
libertà dalle incombenze quotidiane. Aleggia sul viso
sorridente la speranza di un futuro carico di promesse.
Mentre scrivo mi pervengono come fotogrammi immagini di lei.
Eccola dietro al “bancone”, avrà avuto una trentina d’anni,
mentre serve una cliente. Ha come un che’ di luminoso sul
viso leggermente abbronzato e sulla fronte una frangia
ribelle di nerissimi capelli le impreziosisce la fronte.
Ed ancora la rivedo, mentre alle prime luci dell’alba,
traffica con la farina e le pentole per poi friggere” i
zeppul i San Giuseppe”. Al risveglio, in quell’amalgama di
odori di zucchero e cannella, vedere sul tavolo, quei vassoi
ricolmi di quel ben di Dio era per noi piccoli una festa
dell’anima.
Mi rivedo poi io stesso, adolescente,a pomeriggio inoltrato,
che tornando da scuola, allora frequentavo l’istituto
tecnico di Bagnoli, rientravo in una casa vuota, ed ad
attendermi spesso un piatto di pasta al pomodoro “gnassat”
sormontato da una polpetta. Lo divoravo senza neanche
passarlo in padella, poi in quel silenzio tombale, sempre da
solo, facevo i compiti fino a che poi i miei, chiuso il
negozio intorno alle nove, facevano rientro. Ed era per me
un sollievo. Presa com’era dalla conduzione del negozio, ho
molto sofferto per la sua assenza in casa. Quando mi recavo
a casa di un amico era per me una sofferenza indicibile
vedere come le loro mamme li servivano in tutto e per tutto.
Malgrado avesse poco tempo da dedicare alla cucina, era
comunque una cuoca impareggiabile.
Leggendario il suo calamaro, di quelli grossi e polposi,
ripieno ed immerso nel sugo di pomodoro. Nel tempo a venire
mai ne ho mangiati di così buoni.
Ecco, questa graziosa e giovane donna era mia madre in un
tempo oramai antico. Chiuso il negozio negli anni ottanta,
un sipario calò sulla parte più bella della sua vita, perché
in fondo amava stare in mezzo agli altri. Oggi con tutti gli
acciacchi della vecchia, con abnegazione ed anche stoicismo,
assiste mio padre nelle sue asperità caratteriali e a noi,
figli, anche noi non più giovani, non manca mai di regalarci
una carezza sulla guancia. |