I GIOCHI DEL DOPOGUERRA


La torre del Greco
cromosomica

di
Giovanni Ruotolo

"Sono io la Napoli di cui racconto e altre non ne conosco perché solo di me so qualcosa
se lo so..."
               
                             Giuseppe Marotta

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U prufumo ’i ll’ammore

“Teré, t’aggio vuluto bbene assaie, e ttu u ssaie, ma tanto tanto ca l’ammore mio neppure u mare u puteva tené”. La sera dal lavoro, tramortito, tornavo a casa e tu stavi lì ad attendermi, sul pianerottolo. Mi venivi incontro quasi gridando – Michè- e mi abbracciavi. Poi mi carezzavi la nuca e, ad un tratto, svaniva la stanchezza e un vigore mi assaliva. Così ti prendevo sulle braccia e ti portavo in casa.
Ci siamo tanto amati tra quelle pareti azzurre come il cielo, poi, ebbri di felicità, ci affacciavamo dalla piccola finestra che dava sull’orto. Ci sporgevamo tra i gerani rossi che tanto hai amato. E da giù, ricordi, saliva il profumo dei gelsomini. Ecco, quell’odore che allora tanto mi inebriava, io quanno u sento, penzo a tte, penzo â vocca toia, e î mmane toie ca m’accarezzavano.
Di sera, d’estate, scendevamo in riva al mare e pure lì ci siamo amati, di una passione furente tra i mille colori delle barche tirate a secco, sotto una luna complice e con il suono della risacca.
Eravamo tanto felici e pensavamo che sempre lo saremmo stati. Ecco se qualcuno, passando di lì, ci avesse detto “chisti so’ i mumenti cchiu belli r’a vita vosta”, noi di sicuro avremmo riso. E mi sembra ancora di sentirla la tua risata e a vocia toia ca diceva -Michè, ma chisto che ddice?-.
E invece chillo aveva raggione; nui èramo felici, tenévamo tutto ma nunn u ssapévamo. E cosi il tempo è volato via, iuorno roppa a gghiuorno , tra cose belle e cose brutte, ma quei giorni lì, che noi ingenuamente pensavamo che non sarebbero mai finiti, non son tornati più.
Ecco oramai sono vecchio ma u ssaie, Teré, io nu’ mme scordo ’i te. Pure oggi t’aggio purtato i sciuri, i gesummini e, pure si stai llà ssotto, tu u siénti u prufumo. Non puoi non sentirlo, chisto era u prufumo ’i ll’ammore nuosto. 

RICORDI 

E dopo tanti anni che ci provavo e sempre, dopo reiterate e cocenti delusioni, desistevo dal fare,oramai affranto, ulteriori tentativi, oggi finalmente una vittoria, seppur flebile, mi ha sorriso.
Confesso che quanto successo ha dell’incredibile. Io tesso non volevo credere ai miei occhi. Eppure altri ci erano riusciti ed io invece dopo quaranta anni e passa ero rimasto al palo. Di che sto parlando? Niente, semplicemente che poco fa ho levitato. Sì, mi sono, seduto a gambeincrociate, staccato dal divano. Cose da non crederci: aleggiavo nell’aria come un consumato maestro yoga.
Il fatto è che pratico meditazione trascendentale da una vita. Sempre ogni mattina ho dedicato venti minuti a coltivare questa pratica ascetica nella speranza che prima o poi mi sarei librato nel blu dipinto di blu.
Fu un nipote di Lauro nel lontano 1980 ad insegnarmela, prima che la pazzia gli sconvolgesse la mente al punto da darsi un colpo di pistola alla tempia.
Sono stato in India per alcuni mesi nel 1983 a cercare, come Hermann Hess, il mio Siddharta, la mia pace interiore. Ma invano! Quantunque bagnassi i piedini nel Gange,tutto rimaneva così com’era.
E invece stamane…è incredibile, ancor non posso crederci! Nel dubbio che possa trattarsi di un sogno, di uno scherzetto onirico, mi sono anche pizzicato le guance… e sono proprio sveglio!

Mia madre,
una giovane donna

A vederla oggi così indifesa ed anche invecchiata, a stento si potrebbe immaginare come era bella mia madre da ragazza. Ed è stato solo guardando foto oramai prese in un tempo distante che ho potuto riscoprire la sua grazia di giovane donna.
Oggi lei ha più di ottanta anni e porta nel cuore le ferite del tempo ma ancora conserva intatto sul viso la dolcezza del vivere. “ Gaziè, tien a vocc i zuccher” così dicevano di lei i clienti del negozio di giù a mare che rifuggendo i modi sbrigativi ed urticanti di mio padre amavano

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farsi servire da lei che sempre non ha mai lesinato un sorriso o un parola buona a nessuno. Di quel tempo vecchio e remoto, in una delle rare foto di me piccolissimo, avrò avuto una decina di mesi, mi si vede in braccio a lei , all’aperto, in strada, forse davanti al negozio. Allora lei aveva già un bimbo di qualche anno, mio fratello Ciro, e sul bel viso portava già una flebile traccia della fatica del vivere.
Mia madre era una donna instancabile, riusciva a coniugare la conduzione del negozio e nel frattempo a far crescere quattro figli poiché altri due, a distanza di pochi anni uno dal’altro, poi sono venuti, Anna e Carmine. Ne avrebbe voluto tanti altri,ma dice lei, il destino non ha voluto, anzi “ u signor nun a volut”
A pensarci adesso mai ho sentito urlare mia madre, mai un imprecazione, una parola aspra, un battibecco. Ma non era per debolezza o remissività, anzi lei era una donna forte di carattere e, quand’era il caso sapeva il fatto suo.
Solo una volta, rivedo tuttora la scena come in un vecchio film in bianco e nero,l’ho vista infuriata. Pensando che mio padre avesse imbastito una tresca con una vicina, presa dalla gelosia, una sera, ricordo, lo rincorse con una scopa in mano, a mo’ di clava, attorno al tavolo. Lui , mio padre, che impaurito ed anche sorpreso da questa furia inaspettata, scappava avanti in tondo e lei, correndo, lo incalzava dappresso. E noi piccoli, non affatto impauriti,seduti attorno al tavolo,divertiti, ci godevamo la scena che in fondo, come in un film di Totò, aveva un che di esilarante.
In altre foto poi mi si è disvelata la sua bellezza che tuttora le ingiurie del tempo non hanno completamente fatto svanire ed anzi ancora oggi conserva tracce di quell’antica grazia. Alcune di queste la ritraggono, quasi felice, sul vaporetto in gita a Capri, in uno dei rari momenti di libertà dalle incombenze quotidiane. Aleggia sul viso sorridente la speranza di un futuro carico di promesse.
Mentre scrivo mi pervengono come fotogrammi immagini di lei. Eccola dietro al “bancone”, avrà avuto una trentina d’anni, mentre serve una cliente. Ha come un che’ di luminoso sul viso leggermente abbronzato e sulla fronte una frangia ribelle di nerissimi capelli le impreziosisce la fronte.
Ed ancora la rivedo, mentre alle prime luci dell’alba, traffica con la farina e le pentole per poi friggere” i zeppul i San Giuseppe”. Al risveglio, in quell’amalgama di odori di zucchero e cannella, vedere sul tavolo, quei vassoi ricolmi di quel ben di Dio era per noi piccoli una festa dell’anima.
Mi rivedo poi io stesso, adolescente,a pomeriggio inoltrato, che tornando da scuola, allora frequentavo l’istituto tecnico di Bagnoli, rientravo in una casa vuota, ed ad attendermi spesso un piatto di pasta al pomodoro “gnassat” sormontato da una polpetta. Lo divoravo senza neanche passarlo in padella, poi in quel silenzio tombale, sempre da solo, facevo i compiti fino a che poi i miei, chiuso il negozio intorno alle nove, facevano rientro. Ed era per me un sollievo. Presa com’era dalla conduzione del negozio, ho molto sofferto per la sua assenza in casa. Quando mi recavo a casa di un amico era per me una sofferenza indicibile vedere come le loro mamme li servivano in tutto e per tutto.
Malgrado avesse poco tempo da dedicare alla cucina, era comunque una cuoca impareggiabile.
Leggendario il suo calamaro, di quelli grossi e polposi, ripieno ed immerso nel sugo di pomodoro. Nel tempo a venire mai ne ho mangiati di così buoni.
Ecco, questa graziosa e giovane donna era mia madre in un tempo oramai antico. Chiuso il negozio negli anni ottanta, un sipario calò sulla parte più bella della sua vita, perché in fondo amava stare in mezzo agli altri. Oggi con tutti gli acciacchi della vecchia, con abnegazione ed anche stoicismo, assiste mio padre nelle sue asperità caratteriali e a noi, figli, anche noi non più giovani, non manca mai di regalarci una carezza sulla guancia.