La perla vesuviana


La torre del Greco
cromosomica

di
Giovanni Ruotolo

"Sono io la Napoli di cui raconto
e
 
altre non ne conosco perché solo
di me so qualcosa se lo so..."
Da "L'oro di Napoli" Giuseppe Marotta

Pag. 43
 

Viaggio nella terra
dei briganti

Avevamo trascorso buona parte della notte sotto i portici a fare, come si suole dire, mille progetti. La data della partenza era oramai imminente. Mancava ancora da definire qualche dettaglio: le provviste sarebbero bastate?E la tenda, comprata a Pugliano, a dire il vero un po’ rabberciata, ci avrebbe protetto anche dalla pioggia? Il fondo cassa messo assieme con i nostri sparuti risparmi ci avrebbe permesso di non morire di fame?
Comunque a quell’età, si era nel 1967 ed eravamo tutti adolescenti, un po’ di incoscienza non guastava. Si era organizzato un viaggio ai laghi di Monticchio, in Lucania. 
Oggi la parola viaggio, per un tragitto cosi breve, potrebbe far sorridere. Oggi, che per andare a Parigi, New York, Madrid, il viaggio comporta appena la durata di poche ore, il nostro era come girare appena dietro l’angolo di casa. 
Ma in quegli anni, per noi appena diciassettenni e con pochi mezzi,era un viaggio. Sì, era proprio un viaggio!
Eravamo in cinque,che ricordi: Giovanni, come me, che dopo di allora non avrei mai più rivisto. Partì carabiniere per Carbonia un anno dopo. Tramite un amico comune ho poi saputo che ha avuto una vita sentimentale alquanto travagliata. Oggi è in pensione e vive solo. 
C’era poi Giorgio, oggi è medico. L’ho incontrato recentemente a una gita nelle Marche. Soffre di cuore e l’ho trovato molto depresso. Anche lui vive solo. 
Vincenzo, cuoco provetto e bravissimo fotografo l’ho perso di vista alcuni anni dopo. Ho saputo della sua morte prematura una quindicina di anni fa. Degli altri due,Peppe e Roberto invece non ho saputo più nulla. 
Il giorno stabilito,una splendida giornata di metà luglio, prendemmo il treno alla stazione centrale di Napoli. Esso ci avrebbe condotto fino a Rionero in Vulture. 
Salire sul treno, che poi era una vecchia locomotiva del periodo bellico, non fu moto agevole. Gli zaini, voluminosi, erano pesanti ed ingombravano i corridoi. Comunque riuscimmo a trovare posto a sedere. 
Non so dire i nomi dei posti che attraversammo. Era campagna libera con covoni,mare di spighe di grano ondeggianti al vento, casette con cortili, giardini ed orti. Mucche al pascolo, libere di scorazzare nei prati, greggi di pecore e tanti uccelli, nugoli di uccelli a disegnare geometrie nel cielo azzurro. 
Era ancora l’Italia contadina, la stessa che in quegli anni Mario Soldati percorreva in lungo e in largo per documentare un mondo che lui stesso sapeva morente, al declino. L’Italietta rurale di Pier Paolo Pasolini che nel suo saggio “Lucciole, voci e pale d’altare” cerca di mostrare come l’integrità del paesaggio rurale ed artistico rifletta anche l’integrità morale delle persone che vi ci abitano. 
Ci volle molto tempo a che si arrivasse a Rionero. Nel frattempo l’aria del vagone era divenuta completamente irrespirabile per il fumo di sigari e sigarette e per gli olezzi che si sprigionavano dai panini con salame, formaggio e Dio sa cos’altro. Scendemmo barcollanti e storditi, con i fardelli pesanti sulle spalle. 
Rionero in Vulture è in provincia di Potenza. È stata insignita della medaglia d’argento per atti eroici della popolazione civile durante l’ultimo conflitto. È famosa per le sorgenti di acque minerali. Per dire la Gaudianiello viene di lì’. È altresì famosa per la produzione dell’aglianico del Vulture e di un ottimo olio d’oliva. 
Eravamo disorientati ed entrammo in una tabaccheria a chiedere informazioni. Il gestore era un vecchio signore dalla figura austera e con i baffi a manubrio. Era la prima volta che vedevo dal vivo quel tipo di baffi. 
A dire il vero,fino da allora li avevo visti solo in qualche libro di storia, forse qualche ufficiale austroungarico. 
Ci accolse con allegria. Ormai vecchio, vedeva in noi la sua gioventù trascorsa e un po’ si rammaricava
come il tempo si fosse bruciato frettolosamente nelle giornate sempre uguali dietro il bancone. Pertanto ci elogiò:beati voi che lo potete fare! E poi in dialetto: guagliù godetevela, che a vita è nu morz. A distanza di tanti anni, a volte, provo lo stesso gusto amarognolo del tempo, come si dice, ah sì, del tempo perduto.. 
Per andare ai laghi di Monticchio dovemmo prendere una vecchia corriera, se vi ricordate quelle azzurre
con la scaletta sul retro per riporre i pacchi sul tetto. Quelle che si vedevano nei film neorealisti ed anche di Totò degli anni del dopoguerra. Non molto affidabile, dunque. 
Il veicolo salendo verso i laghi rasentava il ciglio della strada. Sotto il precipizio. Ci prese Il terrore, il sudore freddo imperlava la fronte. In cuor nostro si diceva: ah,non fossimo mai partiti! 
Come Dio volle arrivammo a destinazione: ai laghi di Monticchio. 
Essi sono due piccoli laghi, di origine vulcanica, incastonati nel verde intenso del monte Vulture e si distinguono in lago grande e lago piccolo. Si racconta che qui era solito cacciare Federico secondo di Svevia,
con il suo falco. Inoltre come vedremo in seguito fu rifugio di briganti negli anni che seguirono l’unità d’Italia. 
Scendendo verso la riva del lago piccolo, ci apparve, riflessa nelle acque, tra gli alberi del bosco, un bellissimo monastero che in seguito sapemmo trattarsi della Badia di San Michele.
 Ci accampammo con la tenda a poche decine di metri dal lago. Dopo una cena alquanto frugale andammo a dormire. In piena notte fummo però svegliati da un temporale: lampi, tuoni e pioggia battente. Fu in questo frangente che scoprimmo che la tenda non era affatto impermeabile. L’acqua entrava ovunque e, in men che non si dica, eravamo tutti inzuppati. Il giorno appresso provvedemmo a ripararla con delle buste di plastica nere, le stesse che vengono utilizzare per la spazzatura. Ma la sosta in quel posto non doveva durare molto poichè mancava l’acqua, i servizi igienici e subimmo anche qualche furto. Decidemmo cosi di trasferirci in un vicino campeggio. 
Finalmente potemmo dedicarci alla pesca delle carpe e a qualche escursione nei dintorni. E fu cosi che conoscemmo alcuni ragazzi del posto. Essi ci raccontarono come quelli erano i luoghi che i briganti prediligevano per sfuggire alle truppe piemontesi. 
Per campi riarsi, storditi dalla calura e dal cicaleccio assordante delle cavallette, ci

condussero alle grotte dove trovava rifugio Crocco, il brigante di Rionero, che con la sua banda combattè una battaglia disperata contro le truppe sabaude. Tutto l’ambiente rifletteva un che di misterioso, di magico:le travi ancora al soffitto, cesti di vimini appesi al muro e finanche cespi d’aglio inchiodati all’ingresso. A dire il vero il luogo incuteva un po’ di timore. 
A un tratto vedemmo i ragazzi farsi in disparte a confabulare tra loro in modo animato. Poco dopo quello che dava l’impressione di essere il capo ci propose di condurci in un luogo segreto che pochi conoscevano. Però dietro un piccolo compenso. Ci guardammo in faccia: eravamo alquanto poveri in canna. Ma la curiosità era così tanta che acconsentimmo. 
Oramai s i era all’imbrunire. Per un viottolo delimitato da arbusti di ginestre dal giallo intenso e oltremodo odorose giungemmo nei pressi di un altura brulla, spoglia. In essa c’era un’ ampia crepa. Timorosi vi entrammo. C’era ancora un po’ di luce, gli ultimi raggi al tramonto. 
Grande fu lo sconcerto quando all’improvviso ci si parò davanti una collinetta di ossa sormontata da tanti teschi. Rimanemmo impalati. Per non dare soddisfazione a quei compagni occasionali facemmo buon viso a cattivo gioco: non scappammo. 
Ci spiegarono poi che erano quel che rimaneva dei briganti uccisi dai piemontesi e poi bruciati. Erano circa duecento e tra loro i bersaglieri non si erano fatto scrupoli di trucidare anche donne e bambini, tra cui anche la donna del brigante Crocco, che era uno dei capi. 
In un angolo c’erano alcune foto fatte dai piemontesi: erano le vittime messe in posa assieme ai carnefici, prima della fine. C’era anche un donna. La moglie di Crocco, ci dissero i ragazzi: molto bella e con uno sguardo fiero e sfrontato. 
La sera del giorno appresso, chi sa come fu,riuscimmo ad intrufolarci in una festa di matrimonio. Quelle ancora contadine con la fisarmonica e le ballate campagnole. 
Subito notai una ragazza, aveva un viso orgoglioso, un bel volto da contadina. Sembrava che su quel viso vi fossero impressi le memorie di tempi molto lontani. Gli occhi nerissimi avevano gli stessi riflessi blu dei capelli. 
M a sì, era lei! La donna della foto, la moglie del brigante. Poteva mai essere ?un fantasma?
Eccomi quindi precipitare, in pieno, in un romanzo gotico di Edgar Allan Poe. 
Non mi persi d’animo e la invitai a ballare. Credetemi, non mi sono mai sentito un don Giovanni, ma subito lei si strinse a me. Avvertivo il calore del suo ventre stretto al mio corpo. Era lei!…. ma non era possibile. I suoi occhi sembravano frugarmi nell’anima. Ero confuso ed eccitato. Quegli occhi, lo stesso sguardo di mia nonna morta che dal quadro, quando in casa ero da solo, mi incuteva un terrore atroce. La paura era tale che mi precipitavo subito a girare il quadro. 
Lei, la ragazza, si chiamava Assunta……………………. Terminata la festa, ci dicemmo addio con un bacio. Non ci saremmo mai più rivisti. 
L’indomani andai in cerca di quei ragazzi che ci avevano accompagnati in quello strano cimitero. Li trovai e chiesi al capo come si chiamasse la donna morta ritratta sulla foto. Mi disse lo stesso nome. 
Adesso tutto ciò mi fa sorridere, ma a quel tempo, un ragazzo di diciassette anni, con il candore di allora, poteva benissimo credere a un fantasma. E a dire il vero rimasi confuso e frastornato per diverso tempo. 
L’importanza di tutta questa vicenda però non era tanto se questa ragazza fosse stata o meno un fantasma. Probabilmente era semplicemente una discendente di quella donna. Era invece importante il fatto che eravamo venuti a conoscenza di una storia mai raccontata sui nostri libri di scuola, che poi era la storia scritta dai vincitori. 
La storia dei vinti, come poi crescendo abbiamo scoperto, è quella impressa sulle tante lapidi che costellano il nostro Paese e non solo:come quelle di Anna di Stazzena, Marzabotto e soprattutto l’ Olocausto che ancora oggi tanti idioti continuano a negare. 
La vera storia del brigante Crocco, a onor del vero, èstata splendidamente raccontata dal regista Pietro Germi nel suo film “Il brigante di Tacca di Lupo” del 52. La storia è appunto ambientata a Melfi, dunque non molto lontano dai detti laghi, e illustra senza alcuna retorica i metodi spicci e alquanto spietati che i piemontesi usarono nel reprimere i moti di ribellione nel Sud Italia. 
Si può senz’altro affermare che fummo trattati alla stessa stregua dei pellerossa in America. 
Il resto della vacanza,che duro cinque giorni,la trascorremmo piacevolmente:gite in barca,tanto nuoto, abbuffate grazie ai manicaretti del nostro cuoco e qualche buona lettura. 
I giorni volarono e venne infine il giorno della partenza. 
Arrivammo a casa che era notte fonda, stanchi ma felici. Ci lasciammo con la promessa che avremmo ripetuto l’esperienza. Invece così non fu. 
Questa storia mi è tornata alla mente quando scartabellando tra le tante foto di cui oramai sono piene le nostre case mi è capitata tra le mani una in bianca e nero. Era quella della vacanza al lago, nel paese dei briganti: noi, che assieme ad altri amici trovati nel campeggio, allegri ed entusiasti mandiamo saluti. 
Questa foto in me ha scatenato una ridda di sentimenti, ma so benissimo che in mano ad altri non rappresenterà altro che una banale gita ai laghi di Monticchio. 
La morale del tutto, che poi nel tempo ho elaborato, è un po’ quella che Hannah Arendt, filosofa ebrea tedesca, descrive nel suo libro”La banalita del male”a proposito del processo di Gerusalemme: II carnefice Eichmann alla fine risulta essere semplicemente un burocrate limitato ed appunto banale. In poche parole si può concludere asserendo che spesso la ferocia è la compagna prediletta dell’ignoranza e dell’insipienza. Tutto qui!

G. Ruotolo 28-03-2013