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Dedicato a mio fratello Ciro.
Il sogno infranto
Si erano alzati presto e dalla finestra Nicola guardava il
lampione sulla strada che ancora fendeva con il suo chiarore
il buio livido di quella fredda mattina di un fine gennaio .
Appena il padre l’aveva chiamato, sommessamente per non
svegliare i fratelli piu’ piccoli, lui in un
battibaleno,malgrado il gelo della casa, era saltato giu’
dal letto. Nicola aveva appena sei anni e in quella grigia
alba invernale finalmente il padre si era deciso a portarlo
con se’ a Napoli. E per lui si realizzava cosi’un sogno per
tanto tempo vagheggiato. Immaginava, nel suo candore, che il
padre a Napoli conducesse una vita brillante fatta di
trattorie trasbordanti di polli arrosti e di piatti
stracolmi di fettuccine stillanti sugo, e non vedeva dunque
l’ora di entrare in quel mondo incantato
Siamo nel 53 e la realta’, a dispetto dei sogni del
ragazzino, era ben piu’ amara. E’ il dopoguerra,la fame e la
miseria imperversano e cosi ognuno per barcamenarsi si
industria per racimolare quel poco che possa dare la
possibilita’ di sopravvivere. E cosi’ anche il papa’ di
Nicola si arrangiava. Il suo lavoro, se tale si puo’ dire ,
era vendere sigarette di contrabbando negli uffici , banche
ed altro.
Giunsero a Napoli con un tram,il cui sferragliare fendeva il
silenzio di quelle ore antelucane. Rimase subito colpito
dalla folla, quasi una fiumana umana. Le strade erano gia’
gremitissime, gente di ogni tipo sciamava dappertutto e le
voci dei venditori di pizze ed altro riempivano l’aria.
Aveva una fame da lupi e cosi’ il papa si fermo’ presso una
pizzeria. Compro’ una pizza fritta ripiena di ricotta e la
divise in due. A pensarci adesso, dopo tantissimi anni,
l’atmosfera sembrava essere quella di un film neorealistico.
Ed anche i ricordi gli pervengono in bianco nero,senza alcun
colore.
Dopo che avevano camminato un bel po’, giunsero in una
galleria grandissima e che in alto, a volta, era coperta da
un enorme vetrata. Era la bella galleria Umberto, in via
Roma. Qui il padre si fermo’, trasse da un borsone di juta
che portava con se’ tanti, tantissimi pacchetti di
sigarette, di tanti colori. Una parte di essi,in un angolo
un pò nascosto, li ficco’ nelle tasche e sotto il maglione
di Nicola. L’altra parte la tenne per se’.
“Nicola senti, papa’ adesso va in quella banca. Vedi, vado a
cercare di vendere un po’ di questa roba,tu stai fermo qui
che torno subito. Per nessun motivo non voglio che tu ti
muova da qui”. Detto cio’, velocemente si allontano’.
Rimasto solo, Nicola si senti,piccolo piccolo in quell’
ambiente immenso. Avverti’ un angoscia,un terrore di
perdersi ed anche l’amarezza di un sogno che si era dissolto
come neve al Sole: capi’ che quella del padre non erra
affatto una vita brillante, ma piuttosto quella di un povero
diavolo che, con mille espedienti, cercava di sbarcare il
lunario. .
Era imbarazzato, era gia’ un’ ora che stava li’ e non
riusciva darsi alcun contegno. Andava su’ e giu’. Ogni tanto
si fermava a sbirciare qualche vetrina. Ma alla fine ,
stanco, si accovaccio’ in un angolo. La presenza di quel
ragazzino smunto, vestito alla ben meglio e con rigonfi
sospetti sotto il maglione e nelle tasche del pantalone non
passo’ inosservata. Due carabinieri, insospettiti, gli si
avvicinarono e gli chiesero cosa facesse li’ tutto solo.
Lui, candidamente rispose che aspettava il papa’ che era
andato a vendere le sigarette.
A questo punto non resto’ ai militi, dopo aver indagato cosa
nascondesse Nicola sotto gli indumenti, che condurre il
ragazzo in questura.
Qui il maresciallo, un omaccione dall’aria bonaria, visto il
ragazzino preso dalla disperazione, cerco’ di rassicurarlo e
gli fece portare pure qualche dolce. Ecco che, dopo un
po’,trafelato, giunse il padre condotto da un giovane
carabiniere.
Tutta la merce era stata sequestrata ma il maresciallo,preso
in simpatia il ragazzino, non commino’ alcuna multa e cosi
alla fine li lascio’ andare via.
Con un po’ di malinconia e con gli occhi leggermente velati
Nicola ricorda adesso, come una scena vista da fuori, il
padre affranto che presolo per mano, lo porta via dalla
questura. E cosi’ la prima cocente delusione inizio’ ad
incrinare il modo fatato della sua infanzia. |
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Ritorno al passato
Seduto sul gradino di pietra lavica del terrazzo da cui si
poteva mirare il mare da ogni lato, io mi
immergevo,dimentico di tutto, nella lettura dei fumetti.
Mentre al largo nella distesa azzurra i velieri correvano
via veloci lasciando dietro una scia di schiuma bianca, io
sognavo vite impossibili.
Tra i tanti eroi delle strisce amavo seguire le avventure di
Nembo Kid, quello che poi sarebbe divenuto Superman. Il
primo albo lo comprai nel 64 nella bella edicola in stile
liberty in piazza Santa Croce. La copertina, lo ricordo
benissimo, raffigurava Louis Lane, l’eterna fidanzata
dell’uomo d’acciaio, con la testa racchiusa in una scatola
per nascondere la testa trasformata, dall’eterno nemico di
Superman, in quella di una gatta.
Dopo di questo ne vennero tanti altri. Nel tempo ne feci una
discreta collezione, ed amavo cosi’ tanto questo fumetto che
a volte immaginavo, come Icaro, di poter spiccare il volo ,
e sempre, cascavo rovinosamente a terra come una pera
matura. Che disdetta!.
E ricordo ancora che a volte, disteso nella fresca penombra
pomeridiana, mentre nella strada la calura stendeva un velo
di silenzio, io sognavo che da un futuro ipertecnologico
venisse a farmi visita un me stesso ormai quasi vecchio.
E come se io adesso partissi per un ritorno al passato a
rivedermi ragazzino, ad osservarmi dall’alto nello scorrere
di un tempo ormai caduto nell’oblio. Avendo cura di
tacitarmi circa i danni procuratemi dallo scorrere del tempo
ed anche di un futuro, immaginato in quel tempo come luogo
di delizie, ed invece, come sappiamo, un tempo agro, io
potrei vedermi girare, da ragazzino, per una Torre ancora,
sebbene povera, intatta nella sua Bellezza. E cosi’,
risalendo per via Cesare Battisti, dopo le Cento Fontane
brulicanti di donne e bambini con fiaschi e catini, con
sulla destra il verde della Castelluccia, ancora intatto nel
suo splendore,io perverrei dove adesso c’e’ una giungla di
cemento. E qui troverei un incanto, una distesa verde con
alberi ed odorosa di gelsomini e fresie…..Lasciamo adesso
che quest’uomo, che poi sarei io stesso, alla vigilia della
vecchiaia, prosegua, con il ragazzino che fu, a percorrere
con stupore quel mondo lontano, che riveda i suoi luoghi
dell’anima ancora non feriti.
Sappiamo comunque, al di la’ della retorica del bel tempo
andato, che non tutto era un gaio luccichio allora, e
sarebbe stupido omettere gli stenti che uomini e donne, i
nostri genitori, hanno patito. Ma e’ stato comunque
criminale aver infranto un’ armonia paradisiaca perche’ in
fondo se fossimo stati veramente furbi avremmo potuto
senz’altro coniugare la Bellezza con la Modernita’. Ed
invece…
Un tempo
Negli anni della mia giovinezza, la stazione ferroviaria era
un luogo pieno di vita. In estate c’era il bar con i
tavolini all’aperto, e qui, la sera, con amici, si
discorreva di viaggi e di amori nuovi o perduti, nel mentre
le note di” azzurro” riempivano l’aria tiepida . C’era un
viavai di gente, un brusio allegro come di chi parte per le
vacanze. E nell’ombra dei giardinetti, allora ben curati
coppiette di innamorati impudicamente si abbandonavano a
tenere carezze.
All’arrivo del treno
era tutto una concitazione, un richiamarsi. E poi, dopo un
po’, si avvertiva il tonfo delle porte dei vagoni che
sbattevano.
Come un deus ex macchina, ecco il capostazione, che
come un attore, entrava in scena con il berretto rosso in
testa ed il fischietto alla bocca. Tutto sembrava per un
attimo fermarsi, come in un fermo immagine,poi ad un tratto
il fischio….ed il treno partiva.
Se ci si va adesso alla stazione, essa sembra un
teatro vuoto abbandonato in tutta fretta. Non c’è un’anima
viva. Di sera poi c‘è quasi da aver paura, tutto è buio e
riecheggiano solo i propri passi.
Ecco,se questo è il progresso io ne faccio volentieri
a meno, per un tozzo di pane stiamo trasformando le nostre
città in un deserto abitato da fantasmi. |