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Amerika
Fino a notte fonda il juke box del bar del Caporale, sotto
la Ripa, vomitava musica rock, a tutto volume. E cosi, per
tutta via Libertà e per i vicoli adiacenti si diffondeva la
musica inebriante di Elvis e di Jerry Lee Lewis. Essa
entrava negli antri a piano terra ma anche si inerpicava fin
sui tetti a botte dai quali sembrava, nelle notti estive,
poter abbracciare tutto il firmamento luminoso.
Era la fine degli anni cinquanta, e dopo il grigiore del
dopo guerra, ecco esplodere in mille colori il sogno
americano. Esso tracimava dappertutto, la musica, i film , i
jeans, le t shirt bianche. Si cercava, per quanto fosse
possibile di emulare i divi del momento. Disperatamente ,
guardandoci allo specchio, si sperava che esso , pietoso, ci
rimandasse un’ immagine che un pò rassomigliasse a James
Dean o a Marlon Brando.
Ma i più erano scorati. I nostri miti sembravano essere
irraggiungibili. Sullo schermo essi apparivano alti, belli e
con lo sguardo sfrontato e noi al confronto ci sentivamo
inadeguati. Per lo più eravamo bassini e con certe faccine
smunte ed anemiche. Era il frutto della nostra dieta
frugale, essi divoravano bistecche e cosciotti di agnello e
noi invece pasta al pomodoro e alici fritte. E poi vestivamo
come in “Ladri di biciclette”, con indumenti logori e dai
colori crepuscolari. Occorreva dunque una metamorfosi.
Disperatamente dovevamo vestire all’americana con jeans e t
shirt. Ma i jeans originali erano carissimi e quasi
introvabili per cui ci dovevamo accontentare di quelli fatti
in Italia. Ma essi erano informi, la stoffa era granulosa e
poi, quantunque sottoposti a reiterati lavaggi, non
scolorivano mai. E così si andava a Resina.
Al mercato di Pugliano, meta di nostri continui
pellegrinaggi, ci tuffavamo a capofitto nei mucchi di
stracci provenienti dall’ America alla disperata ricerca del
tesoro: Jeans originali e già consunti. E i fortunati che
riuscivano a scovarne uno lo esibivano poi come se neanche
fosse stato il vello d’oro.
E quando al cinema Iris si dava un film di Elvis, la sala
era gremitissima. Ricordo in “ Acapulco”il boato che segui
la fine del tuffo, da un’altezza vertiginosa, del nostro
idolo. All’uscita ci sentivamo tutti un pò Elvis. Che tempi!
Ricordo in quel periodo che invidiavo un mio amico che
avendo parenti negli USA spesso riceveva pacchi di indumenti
dismessi ma originali americani, certe magliette colorate,
costumi da bagno…..C’era, per noi affamati atavici, il
profumo dell’opulenza, il sentore di un mono lontanissimo.
Si incrinò il tutto nel 64. Il mito iniziò a frantumarsi con
la guerra nel Vietnam e con i Beatles. Essi furono come una
bomba atomica. Il primo 45 giri che comprai fu” she loves
you” con sul retro” come on come on”. Rimanemmo
letteralmente folgorati da questa nuova musica al punto ch
vacillò finanche il mito di Elvis the pelvis. Fu un nuovo
amore, anzi le loro stupende melodie hanno fatto da colonna
sonora agli attimi più belli della nostra adolescenza.
Comunque evviva tutti , viva Elvis, viva gli Scarafaggi per
tutto quello che ci hanno regalato negli anni più belli
della nostra vita.
A mio padre
Il cinese con passo svelto
scendeva per via Salvator Noto. Agile e dinoccolato sembrava
non avvertire il peso dei colli che gli pendevano davanti e
di dietro,sorretti dallo spago doppio, che gli segava le
spalle.
Cosi’, da piccoli, di sera
tardi, io e mio fratello piu’ grande vedevamo arrivare
nostro padre, con il tram e senza, almeno cosi’ sembrava,
avvertire quei pesi, senza alcuna smorfia di dolore.
Giungeva da Napoli , ci si
recava ogni giorno per rifornire il negozio,, ed ogni
giorno quella fatica immane, quasi come Sisifo, ogni giorno
punto e a capo.
Nella bella piazza, di allora, di Santa Croce, quasi
come una scena di un film neorealista, ci precipitavamo
verso di lui, nel vano tentativo di alleviargli il dolore,
ma con il braccio, quasi a scacciarci, lui proseguiva ,
imperterrito, a scendere giu’per la discesa fino a via
Liberta’, dove era il nostro emporio.
Eravamo cosi’ allora, quasi come i cinesi di oggi,
Eravamo,si, migliori di oggi! Cosa ci sia poi successo e’
una lunga, lunghissima storia |
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La crisi
Dal punto di vista economico quell’anno , il 1928,fu
terribile. Di lavoro ce n’era sempre meno, quindi pur di
portare qualcosa a casa, almeno l’essenziale,pur di non
morire di fame, mio nonno Ciro, con i suoi due fratelli ,si
diede alla pesca. Uscivano con una barchetta, a notte fonda
,anche quando il mare era increspato e quindi nel volgere di
poco tempo poteva incazzarsi di brutto. Ma anche il mare era
divenuto avaro. Le uscite in mare davano scarsi
risultati e sembrava sempre piu’ vicino lo spettro della
fame. La situazione era tragica, bisognava fare qualcosa pur
di uscirne fuori. L’ultima chance era emigrare all’estero
alla ricerca di un lavoro, di un qualsiasi lavoro.
Cosi’ una sera ,a letto,le disse-Domani parto con i
miei fratelli,andiamo in America e purtroppo penso che non
sara’ un’assenza breve-. Lei pianse,la bocca asciutta le
impediva di parlare: si accarezzarono,si baciarono e fecero
l’amore. L’alba arrivo’ presto,lui parti ancora con il
sapore di lei sulle labbra. Piangeva dentro, aveva la
sensazione che sarebbe potuto non tornare mai piu’.
Ci sono foto che lo ritraggono sulla tolda della
nave:non sorride, ha uno sguardo carico di angoscia. Sfido
io, appena sposato veniva brutalmente sradicato dal suo
mondo, per essere catapultato chissa’ dove.
Adesso purtroppo devo andare un po’ per immaginazione
visto che non c’e’ alcuna documentazione riguardante tale
viaggio ,che so, lettere ,diario o altro. Abbiamo gia’ detto
che essi erano analfabeti.
Si imbarcarono nel porto di Napoli ,non so dire in
che giorno, su un bastimento diretto negli Stati Uniti.
I cosiddetti bastimenti non erano certo dei
transatlantici, possiamo dire anzi che erano quasi come navi
negriere: affollate,sporche,cibo scadente e nessun tipo di
assistenza. La traversata, che senz’altro sara’ durata
parecchio, mesi?, li avra’ certamente piu’ che provati.
Quando finalmente entrarono nel porto di New york,la
vista della statua della Liberta sanci’ per loro la fine
delle tribolazione, o almeno loro cosi avranno creduto. Dopo
il controllo sanitario ed il relativo periodo di quarantena
ad Ellis Island, l’isola del diavolo, finalmente poterono
toccare il suolo americano. Nella loro fantasia il paese
della cuccagna.
Con i fratelli trova lavoro in una segheria vicino
New York , un lavoro durissimo per pochi dollari.
E’abbastanza facile immaginare il dolore ,la nostalgia di
questo povero diavolo che poi era mio nonno. Ma il tutto
dura poco. Un chiodo gli si conficca in un piede ,non curato
e’ il tetano:e’la fine. Muore tra terribili spasmi invocando
il nome della sua amata moglie.
I fratelli lo fanno seppellire in una fossa comune ed
essendo clandestini non riescono ad ottenere il certificato
di morte.
Chissa’ poi come avranno comunicato ....
Negli anni della mia giovinezza, la stazione ferroviaria era
un luogo pieno di vita. In estate c’era il bar con i
tavolini all’aperto. E qui la sera, con amici, si discorreva
di viaggi e di amori nuovi o perduti, nel mentre le note di”
azzurro” riempivano l’aria tiepida . C’era un viavai di
gente, un brusio allegro come di chi parte per le vacanze. E
nell’ombra dei giardinetti, allora ben curati coppiette di
innamorati impudicamente si abbandonavano a tenere carezze.
All’arrivo del treno
era tutto una concitazione, un richiamarsi. E poi, dopo un
po’, si avvertiva il tonfo delle porte dei vagoni che
sbattevano.
Come un deus ex macchina, ecco il capostazione, che
come un attore, entrava in scena con il berretto rosso in
testa ed il fischietto alla bocca. Tutto sembrava per un
attimo fermarsi, come in un fermo immagine,poi ad un tratto
il fischio….ed il treno partiva.
Se ci si va adesso alla stazione, essa sembra un
teatro vuoto abbandonato in tutta fretta. Non c’è un’anima
viva. Di sera poi c‘è quasi da aver paura, tutto è buio e
riecheggiano solo i propri passi.
Ecco,se questo è il progresso io ne faccio volentieri
a meno, per un tozzo di pane stiamo trasformando le nostre
città in un deserto abitato da fantasmi. |