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Breve storia
di mia nonna Anna
(La nonna che non ho mai conosciuto)
Le aveva detto ti voglio bene,lei non aveva risposto. Solo
uno sguardo come a dire pure io. Poi si erano baciati.
Era il 1928,Mussolini si era gia’ fatto premura di abolire
ogni forma di liberta’ e ci si avviava verso un regime
sempre piu’repressivo. Loro, i miei nonni, essendo
analfabeti, non leggevano alcun giornale e quindi non
sapevano niente di niente . Lui a stento sapeva scrivere il
suo nome;lei neanche quello. Quella sera ,la sera del bacio,
lui era appena tornato dal lavoro,se lavoro da cristiano si
poteva dire quello di segare tutto il giorno tronchi stando
o sopra o sotto a spezzarsi le reni.
Cosi inizia la loro storia d’amore,una sera all’angolo di un
palazzo di un quartiere vicino al mare,solo la fioca luce di
un lampione a far loro da testimone. Nella penombra
carezzevole si baciano intensamente fino a che lei non corre
via. Ha il viso avvampato, una sensazione mista di vergogna
e di volutta’ le serra la gola.
A letto non dorme:un’agitazione di cuore la prende, il
sudore, la smania. Un sentimento cosi non l’aveva mai
provato. Era stata la sua una vita costellata di dolore :il
padre morto giovane e solo lei e la sorella con la mamma a
barcamenarsi per sopravvivere. Aveva imparato a cucire
presto: pantaloni, giacche,gilet. Ricamava anche ,lavoro che
le stancava gli occhi e le intorpidiva le mani. A notte
fonda, ormai libera dalle incombenze, valeva men che niente.
Quella notte comunque non dormi’.L’alba la trovo’che,
insonne ,con gli occhi sbarrati fissava il soffitto forse
alla ricerca di qualche risposta. Ma dall’ alto risposte non
ne vennero.
Questa giovane donna, presa dal tumulto della passione e’
mia nonna Anna.Di cognome porta Intoccia ed e’ nata agli
albori del novecento e precisamente nel 1905. La sua sara’
una vita tragica e purtroppo breve. Appena adolescente, come
gia’ detto, le muore il padre, a dire il vero non so come, e
per lei ,che l’adorava, sara’ un vuoto incolmabile. La mamma
si risposa con un sarto ormai maturo vedovo con due figlie.
E’ un uomo gia’ avanti negli anni che da piccoli chiamavano,
noi nipoti, “u nonno cusitore”. Di lui non ho un buon
ricordo. Su una vecchia foto lo si vede brandire una fiasca
di vino in un interno di famiglia dove oltre a mio padre
,giovanissimo, ci sono io e mio fratello Ciro,bambini,
accovacciati tra le gambe dei grandi. Ha un’aria alquanto
allegra, il nonno, forse perche’ era un po’ alticcio. Per il
vino appunto
La nonna non andra’ mai d’accordo con le sorellastre. Io le
ho conosciute,une delle due e’ morta quasi centenaria, e
posso dire che effettivamente non brillavano in simpatia,al
contrario erano invidiose e livorose. Alla fine a mia nonna
non le rimaneva che la sorella Vincenza ,che poi sara’
l’unica confidente delle sue ansie e paure.
Ma quella sera qualcosa si e’ acceso in lei: e’ l’amore ,ma
lei non e’ cosciente. L’amore lei non l’aveva visto neanche
al cinema. Infatti lei al cinema non c’era mai andata anche
se le sarebbe piaciuto tanto,ma in casa non c’erano soldi da
spendere ,se non per le cose assolutamente necessarie. Ci
restava male quando vedeva le amiche andarci ma, comunque,
alla fine se ne faceva una ragione.
I miei nonni ,Ciro lui e Anna lei,si sposarono tre mesi dopo
con una cerimonia asciutta e con pochi testimoni: il
patrigno,la mamma .le sorelle e qualche amica. Vanno ad
abitare in un’unica stanza che attualmente e’ un deposito.
Precisamente in traversa Liberta,una stradina angusta e
quasi sempre in penombra a pochi passi dal mare. Come
viaggio di nozze non partono certamente per Parigi,o per le
Bahamas o qualche altra localita’ piu’ o meno esotica.
Rimangono a casa poiche’ allora non esisteva affatto la luna
di miele. Non c’erano soldi e a stento si riusciva a
sopravvivere. Insomma subito la vita ti prendeva con le sue
asprezze.
Dal punto di vista economico quell’anno , il 1928,fu
terribile. Di lavoro ce n’era sempre meno, quindi pur di
portare qualcosa a casa, almeno l’essenziale,pur di non
morire di fame, mio nonno Ciro, con i suoi due fratelli ,si
diede alla pesca. Uscivano con una barchetta, a notte fonda
,anche quando il mare era increspato e quindi nel volgere di
poco tempo poteva incazzarsi di brutto. Ma anche il mare era
divenuto avaro. Le uscite in mare davano scarsi risultati e
sembrava sempre piu’ vicino lo spettro della fame. La
situazione era tragica, bisognava fare qualcosa pur di
uscirne fuori. L’ultima chance era emigrare all’estero alla
ricerca di un lavoro, di un qualsiasi lavoro.
Cosi’ una sera ,a letto,le disse-Domani parto con i miei
fratelli,andiamo in America e purtroppo penso che non sara’
un’assenza breve-. Lei pianse,la bocca asciutta le impediva
di parlare: si accarezzarono,si baciarono e fecero l’amore.
L’alba arrivo’ presto,lui parti ancora con il sapore di lei
sulle labbra. Piangeva dentro, aveva la sensazione che
sarebbe potuto non tornare mai piu’.
Ci sono foto che lo ritraggono sulla tolda della nave:non
sorride, ha uno sguardo carico di angoscia. Sfido io, appena
sposato veniva brutalmente sradicato dal suo mondo, per
essere catapultato chissa’ dove.
Adesso purtroppo devo andare un po’ per immaginazione visto
che non c’e’ alcuna documentazione riguardante tale viaggio
,che so, lettere ,diario o altro. Abbiamo gia’ detto che
essi erano analfabeti.
Si imbarcarono nel porto di Napoli ,non so dire in che
giorno, su un bastimento diretto negli Stati Uniti.
I cosiddetti bastimenti non erano certo dei transatlantici,
possiamo dire anzi che erano quasi come navi negriere:
affollate,sporche,cibo scadente e nessun tipo di assistenza.
La traversata, che senz’altro sara’ durata parecchio, mesi?,
li avra’ certamente piu’ che provati.
Quando finalmente entrarono nel porto di New york,la vista
della statua della Liberta sanci’ per loro la fine delle
tribolazione, o almeno loro cosi avranno creduto. Dopo il
controllo sanitario ed il relativo periodo di quarantena ad
Ellis Island, l’isola del diavolo, finalmente poterono
toccare il suolo americano. Nella loro fantasia il paese
della cuccagna.
Con i fratelli trova lavoro in una segheria vicino New York
, un lavoro durissimo per pochi dollari. E’abbastanza facile
immaginare il dolore ,la nostalgia di questo povero diavolo
che poi era mio nonno. Ma il tutto dura poco. Un chiodo gli
si conficca in un piede ,non curato e’ il tetano:e’la fine.
Muore tra terribili spasmi invocando il nome della sua amata
moglie.
I fratelli lo fanno seppellire in una fossa comune ed
essendo clandestini non riescono ad ottenere il certificato
di morte.
Chissa’ poi come avranno comunicato tale tragico evento a
mia nonna. Per telefono?Non era affatto diffuso. Per
telegrafo? Puo’ darsi, ma data cosi’ la notizia avrebbe
potuto causare uno schianto terribile.
Diciamo che tornati a Torre, questi miei lontani zii si
recarono dalla cognata e con una certa delicatezza le
diedero la ferale notizia. La povera donna sara’ svenuta, ci
saranno state grida da pianto greco ,tentativi di farla
finita con qualche gesto inconsulto. Alla fine rimane il
fatto che giovanissima era gia’ rimasta vedova.
Che notte avra’ trascorso poi quel giorno stesso dopo che
aveva saputo che il suo povero amore ormai non c’era piu’?Mi
rendo benissimo conto che la mia non e’ altro che una
domanda retorica e quindi sorvolo.
I giorni passano, una melanconia sottile le corrode l’anima.
La disperazione sembra essere la sua compagna
pervicace,opprimente fino a che non scopre di essere rimasta
in cinta. La speranza rinasce,la vita riprende. Finalmente
il sole risplende su di lei. Ad aprile di quello stesso anno
nasce il bambino, mio padre. Gli verra’ dato il nome
Michele.
C’e’ un'unica foto che ritrae mio padre,avra’ avuto pochi
mesi, con la mamma. Lui sembra contento, gia’ uno sguardo
vispo. Lei invece di fianco a lui in piede,bella,alta e
fiera .Indossa in quella foto un vestito chiaro, forse color
crema?, stile impero.
L’infanzia di mio padre fu a dir poco difficile. Le esigenze
dure della vita lo costrinsero a crescere in fretta,
Piccolo com’era andava di casa in casa a portare o a
prendere gli indumenti che la mamma cuciva, a volte fino a
notte fonda, pur di sbarcare il cosiddetto lunario. Spesso
in quelle case, come a volte ci racconta, vedeva bambini
come lui giocare: con i trenini, soldatini, macchinine. E
poi un calore, una luce che ,una volta rinchiuso l’uscio
dietro di se’, per la rabbia prorompeva in un pianto
copioso.
Di studiare aveva pochissimo tempo e dovette,preso com’era
dalle incombenze quotidiane, fermarsi al terzo anno di
scuola elementare. Come diceva Rousseau, e’ l’ambiente
essenzialmente ad essere determinante per il destino di una
persona. Questo appunto e’ il caso. Come poteva riuscire
negli studi se dietro di lui non c’era che deserto,
economico ma soprattutto culturale.
Il tempo passa. Non e’ che un ometto, avra’ avuto tra i
dieci e gli undici anni, che gia’ si industria nel commercio
di derrate alimentari. Percorsi lunghissimi, a volte a
piedi, altre volte con il treno per procurarsi secondo la
stagione pannocchie,ciliegie, patate etc… per poi rivenderle
al mercato con un po’ di guadagno.
Nel frattempo la mamma si angustia. E’ giovane,piacente e
vedova. E senza voler essere ipocriti, il sangue batte alle
tempie, il corpo reclama quello che e’ dovuto a quella eta’,
e poi la smania e il desiderio irrefrenabile. Quando esce
non passa inosservata,gli uomini la guardano, ma uno in
particolare le fa una corte serrata, la segue ovunque, la
guarda con occhi vogliosi ed insistenti.
Lei cerca di resistere ma alla fine il desiderio della carne
e’piu’ forte e non le resta che cedere. Inizia cosi’ una
relazione pericolosa,tormentata. Lui e’ inaffidabile,
manesco ma soprattutto malato come conseguenza della vita
dissoluta che conduceva. Michele,il figlio, non gradisce
questa situazione. Cerca di osteggiarla in ogni modo. Si
dibatte, litiga con la mamma, affronta l’uomo. Ma alla fine
deve soccombere. Non puo fermare lui,appena un ragazzo .una
passione cosi’travolgente e divorante.
Il tempo passa. Siamo nel 1944. A Napoli la guerra e’
terminata e la citta’ e’ occupata dalle truppe alleate.
E’ la Napoli cosi ben descritta nel bel libro di Norman
Lewis e forse con un po’ troppa enfasi anche nella “Pelle”
di Curzio Malaparte .E se vogliamo l’atmosfera e’ anche
quella che si respira nella grande opera teatrale del grande
Eduardo ovvero “ Napoli Milionaria”. Data la carestia
impazza il mercato nero e chi puo’, chi riesce a ingegnarsi
riesce a guadagnare anche forti somme di denaro. Mio padre
che in quell’anno ha appena 16 anni mette su un piccolo
commercio di merce varie e riesce a guadagnare in un sol
giorno quello che un impiegato guadagna in una settimana. E’
un ragazzo sveglio e perspicace e non gli sfugge alcuna
occasione.
Nel frattempo la nonna, che non dimentichiamoci ha appena 39
anni, si ammala di lue trasmessale dall’amante. Detta anche
sifilide questa malattia venerea oggi viene curata con una
certa efficacia, allora invece era difficile venirne fuori.
Si aggrava e viene ricoverata in una clinica nei dintorni.
Mio padre per farla curare adeguatamente spende quel che si
direbbe un patrimonio. E ricordiamoci che e’ poco piu’ di un
ragazzo.
Non c’e’piu’nulla da fare.La riportano a casa. E’ grave e
purtroppo come conseguenza estrema tale terribile malattia
porta anche deficit cognitivo e confusione mentale. Che
triste epilogo per questa povera donna.
Il giorno appresso di buon mattino nonna Anna con le poche
forze che le restano e consapevole che ormai per lei e’
finita, disperata si trascina fin sul terrazzo del palazzo e
di li’ si butta nel vuoto dall’altezza di tre piani.
Cosa avra’ pensato mentre precipitava e prima dello schianto
sull’asfalto?
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Chissa se poi e’ vero che si rivede come un
film le parti salienti della propria vita. Il tonfo, lo
schianto sul selciato fanno accorrere molte persone malgrado
l’ora mattutina. Ma purtroppo non c’e’ nulla da fare. E’
riversa, esamine, in un lago di sangue.
Difficile descrivere lo strazio e la disperazione di mio
padre. Morta anche la mamma adesso e’ rimasto proprio solo.
Tuttora, a oltre ottanta anni, lamenta quella carenza
d’affetto che ha caratterizzato la sua esistenza e in
special modo la sua fanciullezza. Ma il tempo, come si suol
dire, e’ galantuomo. L’amore lo salva, l’amore di mia madre
Grazia, che tuttora lo accudisce amorevolmente.
Fu l’inizio di una nuova vita. Si sposarono il 2 giugno del
46,proprio il giorno del referendum che sanci’ la nascita
della Repubblica e quindi della liberta’ nel nostro paese.
Della nonna mi e’ rimasto impresso un suo ritratto,uno
grande,di quelli che si appendono alle pareti. Campeggiava
dietro la porta della stanza da letto dei miei genitori ed
era di quelli che sembra che con sguardo ti segua in ogni
dove. Quando ero solo a studiare quello sguardo fisso,
allorche’ tragico, mi incuteva terrore. A volte ero li li
per scappare. Altre volte invece, armatomi di coraggio ,lo
nascondevo dietro la porta.
Tanto per concludere, confesso che e’ solo in questi ultimi
anni che sono venuto a conoscenza di questa triste storia.
La storia tragica di una povera donna. E quella donna e’
appunto la nonna che non ho mai conosciuto.
G. Ruotolo Aprile 2013
La nonna alla
guerra
Nella nostra societa’ liquida, inconsistente, senza agganci
alcuno, tutti noi si e’ in balia dei voraci appetiti dei
grandi gruppi internazionali. Essi fanno il bello e cattivo
tempo,in tutto! Con massiccie campagne pubblicitarie
fagocitano le anime di coloro che non hanno difese , o se le
hanno, esse risultano essere alquanto inconsistenti. Con
spot edulcorati e mielosi si corrompono le masse e si
impongono modi di vita distorti e distruttivi. E cosi’ si
spaccia per olio extravergine un olio nauseabondo reso
accettabile da supporti chimici, una pasta da quattro soldi
che si incolla al palato,un pesce pescato chissa’ in quale
mare corrotto,polli e vitelli gonfi di antibiotici….. E
cosi’, noi tutti, ci si illude di aver raggiunto un minimo
di benessere senza minimamente renderci conto che nel
carrello della spesa, spesso ipertrofico, poniamo unicamente
surrogati, alimenti malati e senza alcun sapore.
Qualcuno potra’ obiettare che cosi’ si e’ permesso a tutti
di poter accedere a tutto. Ma gli si puo’ controbattere che
il prezzo pagato e’ salatissimo. Come controaltare si puo’
raffrontare un olio genuino, tracciato in tutte le sue fasi
di lavorazioni con un altro dalla provenienza opaca. Il
risultato e’ impietoso. Il surrogato ne esce con le ossa
rotte , insapore com’e’.
E allora, diavolo, meglio mangiare, come negli anni
cinquanta, la carne una volta a settimana, ma che sia
genuina, meglio un piatto di alici, o di verdure del nostro
territorio……. Diciamo che mettiamo in essere una decrescita
alimentare felice, che poi non e’ altro che la vecchia e
cara dieta mediterranea. Come a dire la povera ma salutare
cucina delle nostre nonne che, con niente, preparavano
piatti prelibati. In fondo potremmo dire che saranno le
nostre nonne, depositarie di una cultura alimentare
millenaria, a buttare gambe all’aria Mc Donald e le orride
friggitorie che infestano come funghi in ogni dove. Quindi
viva la cucina delle nostre care nonne”.
La
solitudine
Abbiamo
trascorso tutta una vita senza che nessuno ci chiamasse e
senza che noi chiamassimo alcuno. Si usciva di mattina e la
sera si rientrava senza che noi si sapesse niente degli
altri. Abbiamo in tal modo, comunque vissuto e neanche male.
Non siamo sprofondati nel tedio piu’ assoluto, non siamo
impazziti perche’ nessuno ci cercava. Sara’ che noi si era
in confidenza con il silenzio. Esso non ci incuteva timore,
un po’ ci era familiare, perche’ in fondo eravamo cresciuti
con esso. Abbiamo letto libri meravigliosi senza che suoni
molesti disturbassero i nostri incanti. Abbiamo ascoltato
fiabe e abbiamo goduto dei meravigliosi suoni della natura
in una sorta di contemplazione estatica. Poi tutto e’
cambiato, piano piano senza che ce ne avvedessimo. E cosi’,oggi,
presi da una sorta di dipendenza , stiamo male se non
rendiamo tutti partecipi delle nostre cose, delle nostre
idee, addirittura di quello che mangiamo. E cosi’ siamo
tutti allegramente iperconnessi. Tutti a dirci istante per
istante dove siamo e cosa facciamo, senza tregua, senza un
attimo di ristoro. Siamo cosi’ tutti ipervigilati come in
quel romanzo di Orwell, solo che qui non c‘e’ alcun angolo
per poter sfuggire al controllo. Neanche piu’ si puo’ dire
un bugia, perche questi aggeggi, che ci portiamo appresso,
dicono tutto di noi, anche dove ci i trova.
E poi e’ cosi’ sconfortante vederci scrutare gli schermi
colorati neanche se attendessimo il responso dell’oracolo di
Delo. Cosi’ avvilente quel tempo perduto a dirci menate.
Tempo prezioso che potremmo impiegare a leggere, a coltivare
fiori,ad amare e, perche’ no, a conversare con chi ci sta
accanto. Ed invece il tutto sembra una grande fuga, da noi
stessi e dagli altri.
L’Amerika
Fino a notte
fonda il juke box del bar del Caporale, sotto la Ripa,
vomitava musica rock, a tutto volume. E cosi, per tutta via
Liberta’ e per i vicoli adiacenti si diffondeva la musica
inebriante di Elvis e di Jerry Lee Lewis. Essa entrava
negli antri a piano terra ma anche si inerpicava fin sui
tetti a botte dai quali sembrava, nelle notti estive,poter
abbracciare tutto il firmamento luminoso.
Era la fine degli anni cinquanta, e dopo il grigiore del
dopo guerra, ecco esplodere in mille colori il sogno
americano. Esso tracimava dappertutto, la musica, i film ,i
jeans, le t shirt bianche. Si cercava, per quanto fosse
possibile di emulare i divi del momento. Disperatamente
,guardandoci allo specchio, si sperava che esso ,pietoso,
ci rimandasse un’ immagine che un po’ rassomigliasse a James
Dean o a Marlon Brando.
Ma i piu’ erano scorati. I nostri miti sembravano essere
irraggiungibili. Sullo schermo essi apparivano alti, belli
e con lo sguardo sfrontato e noi al confronto ci sentivamo
inadeguati. Per lo piu’ eravamo bassini e con certe faccine
smunte ed anemiche. Era il frutto della nostra dieta
frugale, essi divoravano bistecche e cosciotti di agnello e
noi invece pasta al pomodoro e alici fritte. E poi vestivamo
come in “Ladri di biciclette”,con indumenti logori e dai
colori crepuscolari. Occorreva dunque una metamorfosi.
Disperatamente dovevamo vestire all’americana con jeans e t
shirt. Ma i jeans originali erano carissimi e quasi
introvabili per cui ci dovevamo accontentare di quelli fatti
in Italia. Ma essi erano informi, la stoffa era granulosa e
poi, quantunque sottoposti a reiterati lavaggi, non
scolorivano mai. E cosi’ si andava a Resina.
Al mercato di Pugliano, meta di nostri continui
pellegrinaggi, ci tuffavamo a capofitto nei mucchi di
stracci provenienti dall’ America alla disperata ricerca del
tesoro: Jeans originali e gia’ consunti. E i fortunati che
riuscivano a scovarne uno lo esibivano poi come se neanche
fosse stato il vello d’oro.
E quando al cinema Iris si dava un film di Elvis, la sala
era gremitissima. Ricordo in “ Acapulco”il boato che segui
la fine del tuffo, da un’altezza vertiginosa, del nostro
idolo. All’uscita ci sentivamo tutti un po’ Elvis. Che
tempi!
Ricordo in quel periodo che invidiavo un mio amico che
avendo parenti negli USA spesso riceveva pacchi di
indumenti dismessi ma originali americani, certe magliette
colorate, costumi da bagno…..C’era, per noi affamati
atavici, il profumo dell’opulenza, il sentore di un mono
lontanissimo.
Si incrino’ il tutto nel 64. Il mito inizio’ a frantumarsi
con la guerra nel Vietnam e con i Beatles. Essi furono come
una bomba atomica. Il primo 45 giri che comprai fu” she
loves you” con sul retro” come on come on”. Rimanemmo
letteralmente folgorati da questa nuova musica al punto ch
vacillo’ finanche il mito di Elvis the pelvis. Fu un nuovo
amore, anzi le loro stupende melodie hanno fatto da colonna
sonora agli attimi piu’ belli della nostra adolescenza.
Comunque evviva tutti , viva Elvis, viva gli Scarafaggi per
tutto quello che ci hanno regalato negli anni piu’ belli
della nostra vita.
Cara Annamaria
Domenica
sera,dopo una bella giornata trascorsa assieme, quando sei
andata via ho quasi avvertito come un gelo. Un gelo che mi
ha pervaso l’anima. Eri stanca,si vedeva, ed un senso di
colpa mi ha preso per il male che pure ti ho fatto.
Rientrato in casa ,ho osservato la stanza da letto nello
stato in cui si trova adesso: vuota e abbandonata. Con un
materasso buttato per terra e con attorno altre
cianfrusaglie essa grida il mio fallimento, Il fallimento
della mia esistenza. La nostra vita assieme e’ stata negli
ultimi anni molto tormentata. Ci siamo fatti entrambi molto
male. Eppure non possiamo negare di aver ,durante il nostro
matrimonio,comunque trascorsi momenti belli.
Sono stato molto innamorato di te e tu lo sai e tuttora ti
voglio bene anche se spesso non riesco a dimostrartelo. Come
se fosse ieri mi vengono in mente immagini,ricordi della
nostra vita trascorsa, Basta che mi guardi attorno ed ecco
che essi mi assalgono. Il corridoio, ormai vuoto,e’ stato un
tempo pieno di bambini che giocavano . In un angolo della
stanza da letto vedo Grazia, di pochi me, febbricitante.
Bella, con le guance arrossate. E poi in cucina vedo te che
traffichi ai fornelli nel preparare torte ed altro. Ed
ancora avverto gli odori che riempivano la casa,tutta.
Nel corridoi, da poco sposati,abbiamo fatto l’amore e cosi’
anche in quello spazio della cucina che prima era un piccolo
corridoio. Li’ pero’ ci siamo amati poco prima di sposarci.
Ricordo ancora i viaggi con la mia cinquecento sgangherata
e poi con la renault azzurra. Sono frammenti di vita che non
sembrano piu’ appartenermi,come se fossero stati vissuti da
qualcun altro. Ma e’ anche vero che noi non siamo piu’
quello che eravamo. E specialmente io. Non posso non
confessarti che questa malattia mi ha un po’ bruciato
l’anima. Combatto strenuamente per non soccombere anche se
cerco di non darlo a vedere. Non posso nascondere,e tu
certamente te ne sei accorta, come essa abbia deviato il
mio modo di essere. Mi rammarico amaramente di averti
procurato indicibili sofferenze quando ho iniziato a
frequentare determinate persone. Ma cio’ e’ valso anche a
farmi intendere fino a che punto possa arrivare la
meschinita’ umana.
Oggi non ti chiedo nulla,non posso chiederti nulla. Non
voglio commiserazione ne altro, ma se a te fa piacere
potremmo ricucire il nostro rapporto ed iniziare la’da dove
esso si era interrotto. Ecco,queste sono le cose che volevo
dirti e che non ho mai avuto il coraggio di dirtele a voce.
Gianni |