LE "PERIODICHE"DOMENICALI



La torre del Greco
cromosomica

di
Giovanni Ruotolo

"Sono io la Napoli di cui racconto e altre non ne conosco perché solo di me so qualcosa
se lo so..."
               
                             Giuseppe Marotta

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La fame

Si parla,oggi, tanto di miseria, d’indigenza, di mal de vivre. Certo non saro’ io  a voler negare questo diffuso senso di malessere. Ma cio’ che imbarazza e’ il piagnisteo corale e  l’ostentare le presunte poverta’ quasi come se fossero delle stimmate purulenti
Negli anni cinquanta, io ero appena un bambinetto,al contrario di oggi, chi non aveva nulla, pur di non far risaltare la propria indigenza, simulava un benessere inesistente. Pertanto la domenica pomeriggio, a testimonianza di un lauto pranzo, ci si macchiava la camicia, spesso bianca, con una stilla di un ipotetico sugo di pomodoro. Non si diceva alcunche’, la macchia parlava da se’: oggi mi sono consolato con un sontuoso piatto di maccheroni al ragu’ e perdipiu’ finanche con una braciola,o con una cotica morbidissima o addirittura con due o piu’ polpette lussuriose.
Sforzandosi, si cercava , mentre la fame lacerava brutalmente le pareti dello stomaco, di assumere un espressione di sazieta’. Era una fame atavica,endemica, quasi ancestrale. Ma , abituati a ben altre ingiurie, i nostri genitori, i nostri nonni non si piegavano.   Erano tosti, di tutt’altra fibra che la nostra, che e’ per lo piu’ imbolsita.
Mia madre ama ricordare che la nonna,povera,  obbligava i suoi figli a non accettare cibo da nessuno. Anzi, malgrado la pancia bofonchiasse paurosamente, dovevano far intendere che erano gia’ sazi. Che decoro! Che dignita’! Io stesso fui redarguito dalla mia severissima nonna per aver accettato, ero appena un adolescente, un boccale di birra da un congiunto.
In quei tempi amari, il cibo era un convitato di pietra perenne. Esso affollava i nostri sogni, per lo piu’  da  svegli. Davanti agli occhi ci balenavano lunghe file di salsicce, cosciotti di pollo ben dorati, tagliatelle al ragu’, braciole stillanti sugo, capretto al forno con patate e piselli…Ma questi piatti proibiti raramente ci deliziavano il palato,  al massimo nelle grandi occasioni. Cosi’ nel quotidiano, il menu’ giornaliero era costellato dai piatti della tanto,oggi, sbandierata dieta mediterranea  : pasta e lenticchie o fagioli, pasta e cavolo o riso e verza…. Insomma tanti legumi,ortaggi e carne, in genere pezzi plebei,ogni tanto. Come colazione pane, zucchero ed un goccio d’olio d’oliva o, quand’era il tempo, pane e fichi o con pomodori e basilico. Non volendo avevamo adottato uno stile salutistico, ma il tutto era a nostra insaputa.
Poi nei primi anni sessanta inizio’ a spirare un leggero vento di benessere . Prodotti inusitati iniziarono a fare capolino sulle nostre sparute tavole: aragoste, ananas, burro, latte concentrato e carne, tanta carne. Era grazie ai nostri parenti marittimi se potevamo gustare queste prelibatezze.

Comunque altri tempi, altre storie, altra gente, certamente piu’ dignitosa   di quella di oggi.
 

La fretta

Sembra quasi che il tempo non basti mai. Corriamo trafelati tutti il giorno, di qua e di la e sempre rimangono cose in sospeso o addirittura neanche iniziate. Ci si sveglia la mattina con mille propositi, poi una telefonata, un’incombenza non prevista  od altro ancora fanno saltare il tutto. Allora l’ansia,la fretta, l’angoscia ci portano a cercare di bruciare il tempo. Si cerca di eliminare i tempi morti,. Pertanto non ci si rade, e  il tempo trascorso in bagno  lo si riduce al minimo.
Si riflette poi che sarebbe meglio svegliarsi col canto degli uccellini, stiracchiarsi con calma, fare colazione seduti  dando di tanto in tanto una sbirciata al giornale, passeggiare per un viottolo di una campagna ubertosa e nel contempo conversare amabilmente con qualche graziosa  giovinetta.
A pensarci sembra la scena che spesso vediamo ritratta in alcuni dipinti del settecento, un’Arcadia appunto.
Ma e’ semplicemente un sogno, un’Utopia.  Oggi non esiste alcun elogio alla lentezza, anzi  essa e’ oggetto di avversione, di odio. E quindi tutti a passo svelto, nella vana speranza di precorrere il tempo. Dunque, tutti  a folle velocita’ in auto, strombazzando malamente l’incauto che davanti , con un’andatura floscia, sbarra la strada.
Si attraversano pertanto le strisce pedonali con scatti fulminei sperando di non essere travolti da farabutti alla guida che quasi sembrano mirarti.
La sera siamo tutti sfatti, stravolti e quasi esamini ci buttiamo sul letto. Se eravamo partiti gagliardi , lancia in resta, alla fine  non e’ servito a granche’.

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Le cose che avremmo voluto fare, che so, leggere un libro, mirare un panorama, far l’amore, non le abbiamo fatte. E quindi tutto quel agitarsi, come degli ossessi, a che e’ servito?

La Grazia

Un pianto sommesso interrotto da singhiozzi proveniva da quel piccolo vano che affacciava direttamente sulla strada, in via Liberta’. Era il lamento di una bambina di pochi anni, mia sorella Anna. Erano mesi che stava male e non si riusciva a trovare alcuna cura che potesse debellare il male che si era insinuato dentro di lei .
Era l’estate del 54, un caldo torrido avvolgeva ogni cosa ed intorpidiva finanche le anime. Mia sorella si era ammalata di tifo, ricorrente in quel periodo , ed erano oramai alcuni mesi  che  lottava strenuamente per venirne fuori. I medici che erano  venuti a visitarla non erano riusciti a cavare un ragno dal buco e lei si stava consumando giorno dopo giorno.
In quel periodo mia madre era in cinta del quarto figlio e si era pensato ,per darle un aiuto,di porre la piccola ammalata in casa di mia nonna, che abitava a pochi passi da noi. L’avevano collocata  in una culla di fianco al letto e , nella penombra, emaciata com’era, solo gli occhi spiccavano sul visino consunto.
Ma mano che il tempo passava le speranze iniziavano ad affievolirsi ,e sempre piu’ si accresceva il timore che la piccina potesse non farcela. Come ultimo  disperato tentativo si penso’ di chiamare un  giovane medico  che godeva di buona fama,il dottor Gervaso.
Egli arrivo’ a sera inoltrata,e senza porre tempo al tempo, visito’ subito la bimba. Il suo viso assunse subito un ‘aria grave: la malattia era in una fase avanzata, l’unica speranza era iniziare subito con una cura a base di antibiotici. E, poi, aggiunse, confidiamo nella misericordia del Signore.
Dovete sapere che in casa di mia nonna c’era un’icona della Madonna del Carmine, oggetto delle sue preghiere serali. Essa era posta su un mobile alto e spesso di lassu’ ci elargiva caramelle sempre che avessimo fatto i buoni.
Disperata,in quelle ore concitate,a lei si rivolse mia madre e le chiese di salvare la piccola. Fu una preghiera disperata. Le parole sembrava  quasi affogassero in un mare di lacrime. Era una nenia di dolore che tutta echeggiava nella piccola stanza da letto.
Venne il pomeriggio,uno di  quei pomeriggi assolati, di tanti anni fa, quando la calura stendevo un velo di silenzio sui vicoli deserti e solo in lontananza, a volte, pervenivano le voci del gelataio o del venditore di zeppole e panzarotti.
Quel giorno una voce echeggiava nell’aria: “panzarott, panzarott”. Ed ecco mia sorella quasi  ridestarsi  dal tragico torpore. Non senza sforzo, riusci’ a porsi seduta  e, stendendo un braccino,  indicava l’uscio come a far intendere cio’ che desiderava…
Chi era li’ grido’ al miracolo. La piccola Anna  aveva superato il guado ed era salva. Era guarita!
Mio fratello, che nacque di li’ a pochi mesi, fu chiamato Carmine come ringraziamento alla Madonna per la  grazia ricevuta.
Certo oggi una storia cosi’ puo’ far sorridere, ma converrete che e’ una storia d’altri tempi, di un altro mondo. Di un mondo dove gli uomini e le donne non avevano alcun timore a mostrare il proprio candore.

La guida

Un mio amico svizzero, mio ospite per pochi giorni, mi ha confidato che ha trovato meno difficolta’ a guidare nei paesi arabi piuttosto che a Torre. E come dargli torto. Guidare nella nostra citta’ e’ in’impresa improba,  quasi una corsa ad ostacoli. Se si dovesse operare un metodo per cercare di dare un giudizio sul carattere di un popolo, secondo me quello sul modo di guidare sarebbe il piu’ esaustivo.

E cosi’ ne vien fuori che a Torre si guida come se si andasse alla guerra. Si esce di casa con il proposito di attaccare i malcapitati di turno, di dimostrare la propria bravura al volante e schermire nel contempo coloro che dimostrano, ahime’, scarsa prontezza. Ed ecco  cosi’ al semaforo beccarsi scariche di clacson se non si parte immediatamente all’accensione del verde.
Ne in fuori una cultura primitiva che vuole i piu’ forti primeggiare sui meno dotati fisicamente. Una giungla d’asfalto,appunto. Dove nessuno ti fa immetter in carreggiata, dove chi ti guida a fianco ti guarda con occhi feroci come se gli avessi rubato la moglie , dove, se ti azzardi ad attraversare sulle strisce pedonali non e’ difficile essere buttato per aria………………… Si’, e’ proprio un mondo difficile, anzi difficilissimo.