Pag. 13
Clotilde Marghieri,
una grande scrittrice
Sotto un Sole
impietoso, percorrendo sentieri lastricati di pietra
vesuviana e che un tempo dovevano essere mulattiere,noi
tutti, grazie al direttore della Tofa, Angelo Di Ruocco,
ispiratore di tale magnifica iniziativa, assieme ad altre
associazioni, siamo addivenuti alla villa “La Quiete”,
nell’ ambito della manifestazione”Passeggiata nei luoghi
leopardiani”.
La bella dimora si presenta con pregevoli linee
architettoniche : uno stile Liberty asciutto senza ombra di
fronzoli. Un po’ come il carattere della sua antica
proprietaria, la scrittrice napoletana Clotilde Marghieri.
Devo confessare che fino a poco tempo fa non ne conoscevo
affatto l’esistenza, e come me tanti altri, sebbene lei per
tanti anni abbia abitato in questa villa in contrada S.Maria
la Bruna.
Ma chi era Clotilde Marghieri?.La scrittrice e’ nata a
Napoli nel 1887
ed educata Firenze. Durante gli anni della maturita' si
trasferisce a Roma dove muore nel 1981. Inizia fin da
giovanissima a collaborare a quotidiani e riviste come ''Il
Mattino'', ''Il Mondo'', ''Corriere della Sera'', ''La
Nazione'' e ''Il Gazzettino''. Esordisce in eta' ormai
avanzata come narratrice e subito si impone all'attenzione
del pubblico e della critica con il romanzo ''Vita in
villa'' (1960). Seguono tre romanzi fortunati: ''Le educande
di Poggio Gherardo'' (1963), ''Il segno sul braccio'' (1970)
e ''Amati enigmi''. Pochi mesi prima della morte esce ''Lo
specchio doppio'', un'ampia scelta del carteggio
intrattenuto con il grande storico dell'arte Bernard
Berenson durante trent'anni d'amicizia.
Negli anni Trenta, quando decide di trasferirsi in campagna, Clotilde
Marghieri è una signora dell'alta borghesia napoletana che
lascia con la città il mondo rassicurante dei salotti, i
riti della vita sociale e la commedia del privilegio. Nella
casa di Torre del Greco diventa scrittrice e proprio ad essa
dedica la sua prima opera narrativa. Le storie che narra
sono le piccole battaglie, i molti assilli quotidiani di una
donna che in nome dell'indipendenza affronta un percorso
solitario e faticoso. Tra passione e sdegno, distacco e
partecipazione, l'autrice inventa per la sua Arcadia
vesuviana uno stile che, intrecciando classico a parlato, fa
riferimento all’arte d ella conversazione del settecento
francese
Ecco un ritratto che ne fa Camilla Cederna: “Una donna che
ho frequentato a Roma nel suo salotto di via della Consulta:
grandi librerie con edizioni rare, mobili inglesi, rose, il
rito del tè. E lei che, già anziana, sdraiata sul sofà con
una coperta sulle gambe, giocava come sempre ad ammaliare
gli amici con il fascino delle sue conversazioni, ad
annodare sottili rapporti con persone di cui ammirava
l'intelligenza. Di grande famiglia altoborghese napoletana,
Clotilde doveva essere stata molto attraente...Belle gambe,
lunghe. Sensibili lineamenti aquilini, occhi neri e
penetranti, una risata da ragazza che conservò fino agli
ultimi giorni. Nell'esclusivo collegio fiorentino di Poggio
Gherardo (vedi Le educande) imparò a leggere e a parlare
alla perfezione il francese, il tedesco, l'inglese. Di una
spregiudicatezza precoce, presto sposata e poi separata,
visse indipendente incontrando persone famose, leggendo
tutto il leggibile. E cominciò a far salotto, come si dice
oggi, nella sua magica casa di Torre del Greco”
“…Lei ha saputo rappresentare con arte e con sapienza, come
meglio non si poteva, quell’avvicendarsi di passioni e di
avversioni che è proprio della gente del Vesuvio; questa
gente che sempre ritorna alla propria calda, amorosa
umanità, così come il Vulcano, dopo ogni furore, si
ricompone nella sua stupefacente bellezza”. E’ questo il
giudizio di G.B. Angioletti riguardo “Vita in Villa”,
raccolta di ventidue racconti della scrittrice napoletana .
L’autrice stessa, in un breve scritto, spiega il motivo
della nascita del suo libro e più in generale il suo lento
cammino alle lettere: sin da giovane aveva dimostrato una
profonda passione per la lettura e successivamente per la
composizione di lettere, attività che le permettevano di
comprendere , almeno in parte, il mondo circostante. A
trent’anni si trasferisce in campagna, nel paesaggio
idillico e sublime di S.Maria la Bruna, tra Vesuvio e mare:
lo scrittore Tommaso Cicchella afferma che la Marghieri “fu
legata a Torre con radici d’affetto più profonde degli
eucalipti e dei pini del suo giardino”. In effetti la vita
di campagna si rivelò una straordinaria esperienza,
procurando tempo, solitudine e serenità necessari alla
scrittrice dallo spirito sottile e dal sentire profondo.
Dopo la guerra, però, in campagna tutto era mutato. “Il
paesaggio divino si deturpava di brutti edifici”, scrive la
Marghieri, il tempo lento di cui poteva godere in campagna
era improvvisamente sparito. , per salvare i miei furori,
per salvare, anche questa volta, la bella favola che era
stata la mia vita in campagna nei primi tempi, per fermare
sulla carta persone e personaggi che intorno a me sembrava
chiedessero a gran voce di essere ritratti, presi a scrivere
della mia vita in villa”
Ebbene, stamane,abbiamo constatato che tutte le sue ansie
circa lo scadimento della bellezza dei luoghi non erano
affatto infondate. La bella terrazza che un tempo
abbracciava tutte le meraviglie del golfo,adesso non puo’
non comprendere con lo sguardo edifici dozzinali ed insulsi.
Tutt’attorno poi le pinete sono interrotte da capannoni di
un complesso industriale . La villa e’ stata rilevata
recentemente da un nuovo proprietario che, spinto da spirito
di mecenatismo, sembra non voglia alterare la sua struttura.
E noi tutti speriamo anche che la riporti al suo antico
splendore, e con essa il giardino, di sicuro un tempo
ricco di essenze e di fiori cari alla scrittrice .
Comunque non e’ difficile immaginare lo sdegno e la
disperazione della Marghieri nel constatare come, giorno
dopo giorno, si imbrattasse la Bellezza di uno dei piu’ bei
luoghi del mondo, non e’ difficile neanche sentire le sue
imprecazioni rivolte a quei cialtroni che hanno distrutto la
Litoranea , sfregiato il centro storico, massacrato ville
ottocentesche ed estirpati giardini secolari.
Si’, con il suo libro “Vita il villa” lei ha immortalato un
mondo che era e che purtroppo non sara’ piu’. Un mondo che,
sebbene povero, manteneva un suo decoro, una sua dignita’. |
Pag. 13
Un po’ come
Vincenzo, il suo domestico, al quale dedica alcune pagine
del suo libro. Un mondo in definitiva di incomparabile
armonia quasi sfregiato per sempre.
Nel 2001, ventennale della sua morte, non mi risulta che sia
stata fatta alcuna commemorazione nella nostra citta’, ma
di sicuro
a rendere
omaggio alla scrittrice e' stato il Gabinetto letterario
Vieusseux di Firenze, a cui la Marghieri dono' tutti i suoi
manoscritti. Quindi neanche questi ci siamo meritati!
In definitiva della bellezze che dovette mirare la Marghieri
non rimane poi molto, ma non tutto e’ perso. Si puo’
ancora, volendo ricomporre l’armonia persa ad opera
dell’insipienza di molti torresi, cercare di arrestare, per
quanto possibile, il degrado dei luoghi. Un po’ glielo
dobbiamo alla scrittrice, almeno per farci perdonare ,
causa la nostra ignoranza, del velo d’oblio che avevamo
steso sulla sua opera.
Circa i
luoghi di Lucrezia
Una curiosita’
estrema, dopo tante ricerche effettuate circa la vita di
questa donna, mi spinge a conoscere piu’ a fondo i luoghi
dove, in qualche modo, ha vissuto una parte della sua vita,
forse quella piu’ felice. Come ci si fa ad opporre? Una
forza possente mi trasporta in quei luoghi senza che io
possa apporre una sufficiente resistenza. Concordo quindi un
incontro con altri due “malati” come me di cose antiche, di
vicende che comunque, nel bene e nel male hanno concorso a
farci divenire quel che siamo. I due amici che mi
accompagneranno in questo escursus sono Ernesto Pinto e
Carlo Boccia che conosce i luoghi e le storie della parte
vecchia della nostra citta’ a menadito.
L’area di ricerche, di investigazione e’ quella dei quattro
vicoli detti dell’Orto della Contessa a ridosso , cosi’ come
cita la vecchia targa di Corso Umberto primo gia’ Borgo .
Molti studiosi, tra cui il Balzano e non solo, ritengono che
li’ abitasse la nostra Lucrezia e che sempre li’ si siano
svolti gli incontri amorosi, per carita’ casti, con il
monarca aragonese gia’ oramai avanti negli anni.
La speranza di noi tre e’ se, per caso, durante questa breve
escursione, , si riesca a rilevare una traccia di quel
periodo,un qualcosa che ci conduca al quattrocento o giu’di
li’. Quello che subito salta agli occhi, principiando a
scendere lungo corso Umberto primo, e’ il dislivello della
strada. Esso, nella parte iniziale, risulta essere in lieve
discesa per subito dopo risultare piu’ o meno pianeggiante
verso meta’ della stesso.
Ernesto avvalla l’ipotesi, piu’ che acclarata, che cio’ sia
la conseguenza dell’infausta eruzione del 1794 che apporto’
grande distruzione nella nostra citta’. Ecco al riguardo
cosa attesta Enrico Di Maio nel suo “ L’eruzione del
Vesuvio del 1974 a Torre del Greco” pubblicato sul portale
Vesuvioweb: “nella fase di ricostruzione della citta’,
quindi ci si riferi’ al visibile per rispettare il
preesistente impianto urbanistico. Lo spessore della colata
prospiciente l’ingresso del Monastero degli Zoccolanti e’ di
circa sette metri, in via Diego Colamarino e’ di circa sette
metri, mentre in piazza Santa Croce e’ di circa dodici
metri. La colata, in zona Capo Torre si divise in due
digitazioni e la piu’ grande termino’ la sua corsa in mare.”
E cosi’ anche nell’ area della citta’, a cui ci stiamo
interessando, il dislivello e’ di circa otto metri per poi
degradare fino al livello della sede stradale originale.
Risalendo i quattro vicoli “ Orto della Contessa” balza agli
occhi il limite raggiunto dalla colata lavica. Siamo sempre
intorno agli otto metri e in fase di ricostruzione,per
ovviare a tale barriera di roccia lavica, si edificarono
delle rampe di scale con gradini alti venticinque cm per,
mediamente, un numero di trentadue per addivenire cosi’
agli otto metri della colata.
Cosi’, nella parte alta di detti vicoli, gli edifici
preesistenti l’eruzione, risultano sommersi dalle colate o
addirittura distrutti. Alcuni abitanti di detti luoghi
favoleggiano di cunicoli ed antri tramite i quali pervenire
negli spazi sommersi. Ma quantunque si sia chiesto in giro
non siamo riusciti a venire a capo di nulla.
Sbirciando tra cortili fatiscenti e portoni diroccati si
sono riscontrate poche tracce architettoniche, per lo piu’,
risalenti alla fine del settecento: uno scarico pluviale in
terracotta, qualche mattonella, uno slargo di una masseria,
qualche edicola votiva. Ma del cinquecento niente di niente!
Nella parte bassa della stessa zona, con le splendide
facciate rivolte sul corso, insistono, non feriti dalla
lava, alcuni edifici seicenteschi ,ancora nel loro
splendore baroccheggiante, anche se colpevolmente offuscati
dall’incuria degli attuali proprietari. Un bel balcone,
sempre del seicento ha attratto la nostra attenzione: tutto
in piperno con la balaustra, in ferro, lavorata in modo
grazioso.
Inaspettato, alla fine del secondo vicolo,nei pressi della
trattoria che fu di Palatone, sulla parte bassa di quel
che resta di un complesso settecentesco, si erge un
manufatto con i mattoni di tufo a vista chiaramente di stile
neoclassico
Poi null’altro,solo incuria,sporcizia, fatiscenza e degrado
non solo delle cose ma, ahime’, anche antropologico.
Cosi’ un patrimonio architettonico pregevole che
rappresenterebbe la manna dal cielo per paesi piu’ accorti,
da noi va in malora tra l’insipienza della citta’…..
E noi tutti si sta guardare. |