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Un altro mondo
Son tornato in questi luoghi, dove sono nato. Mancavo ormai
dagli anni 70. Ogni angolo mi richiama alla memoria ricordi
ed impressioni che fanno parte indelebile della mia vita. La
zona e’ quella detta sotta la ripa. Perché in effetti c’é
anche una sopra la ripa. La ripa é il dislivello creato
dalla nefasta eruzione del 1631.
Tutta l’area prima dell’eruzione non era che battigia
poiché il mare lambiva il castello appartenuto ad Alfonso
D’Aragona, re di Napoli nella prima meta del 400, ed
attualmente sede del municipio di Torre. Io sono nato in via Liberta’ che sarebbe la strada che si vede scendendo le
scale venendo da piazza Santa Croce e che viene troncata
dalla ferrovia un po’ più giù. Dicevo sono nato in questa
strada nel retrobottega dei miei che in effetti gestivano un
emporio che serviva mezza Torre. Parto in casa dunque, ed
anche pericoloso trattandosi di un parto podale.
L’infanzia tutta protesa alla scoperta di quel microcosmo
che per un bambino era l’universo intero. In quegli anni e
parlo degli anni 50, essendo io nato nel 49, l’atmosfera era
un po’ quella che si respirava in quei film in bianco e nero
di De Sica. Noi si cresceva in strada,allora si poteva. Le
auto erano talmente poche che ci divertivamo a registrarne
le targhe di quelle che passavano da via Fontana. Per noi,
bambini di allora, non esisteva la noia.Ogni giorno,ogni
mese aveva i suoi regali da offrirci. Beninteso non c’era
nulla ma in realtà c’era tutto. C’era il mare che allora
era di color cobalto con sfumature verdi,i giardini
misteriosi ed intrisi di sottili fragranze, ben nascosti nei
cortili interni dei palazzi, all’uso moresco.
C’erano i misteri, le paure ancestrali: u monaciello, u lupo
mannaro. E poi i colori accesi del cielo, delle tende
variopinte, dei fiori, tanti, che abbellivano le ringhiere
barocche dei palazzi un po’ pretenziosi del primo novecento. E poi le voci, un dialetto puro non ancora
contaminato dalla tv appena nascente:voci
squillanti,divertite,ironiche,provocatorie ma tutte
armoniose, di un’amalgama sedimentato nei secoli.
La festa dei quattro altari, quaggiù, raggiungeva
l’apoteosi col l’altare di fabbrica ovvero di carton gesso
tridimensionale. E poi la folla, di sera, con i vestiti
della festa ad inondare le strade gia’ gremitissime, i
balconi illuminati e le coperte damascate stese sui
parapetti. Tutto un turbinio di luci e di colori sgargianti.
Certe sere si assisteva poi alle peripezie dei funanboli che
attraversavano nel vuoto la distanza tra due palazzi su un
esile corda. E noi bambini con i nasi per aria seduti sugli
sgabelli assieme ai fratelli, zii, nonne. Tutto intorno un
silenzio irreale per poi sfociare in un boato di urla e
applausi a fine della prova. Si stava tutti assieme,mai da
soli,sia in casa che in strada. Questa era la ricchezza di
allora, ricchezza incommensurabile a vederla oggi da un altro
mondo.
In quel mondo ogni personaggio era particolare. C’era il
maresciallo che aveva combattuto in Africa e presso il quale
andavamo io e mio fratello più grande a doposcuola, con
risultati alquanto deludenti. Appena sull’uscio suonava
l’inno di Mameli e noi ritti sugli attenti ,rigidi e il
saluto militare. A fine lezioni, se bravi, venivamo premiati
con qualche vecchia copertina della Domenica Illustrata. Poi
saluto, dietrofont e via.
C‘erano le vecchie bizzoche ovvero le cosiddette devote
presso le quali andavo a mo’ di asilo da bambino.
I metodi erano alquanto approssimativi:se cattivi si
rischiava di essere colpiti da qualche zoccolo delle
medesime, oppure di precipitare negli inferi che poi era il
piano sottostante completamente immerso nel buio,se buoni ci
permettevano di vedere spezzoni di pellicole con immagini
sacre. Direi un’educazione un po’ sopra le righe.
E poi c’era Chiarina, una vecchina che d’inverno vendeva
l’allessa ovvero castagne lesse in cartoccio e d’ estate il
cazzabocchi cioè la grattachecca con sciroppi di vari gusti
sopra. E poi il mellunare con le distese di angurie e di
meloni gialli e verdi davanti al negozio.
Di compagni ne avevamo tanti e tanti erano i giochi,parecchi
retaggio di secoli addietro. Si puo’ dire che probabilmente
siamo stati l’ultima generazione che vi ha giocato. Dopo,
tutto e’ stato fagocitato dalla tv.
Si giocavo al fazzoletto,alla lotta, addirittura alla guerra
con pietre e cerbottane. Alcuni di noi tra cui io stesso
spesso siamo tornati a casa con la testa spaccata ovvero
insanguinata. Si correva, si correva molto: nelle gare di velocità, nelle battaglie che si ingaggiavono con ragazzi
dei quartieri limitrofi. Si combatteva con le spade di legno
a volte istoriate con tappi di birra o con certe mazze fatte
con la testa di pece.
Si improvvisavano poi le corse sui cosiddetti carrocci che
non erano altro che trabiccoli di legno con le ruote di
legno o di ferro, per chi poteva permetterselo. Si scendeva,
a rotto di collo, sulle discese e si frenava all’ultimo
momento con i piedi a mo’ di freno.
Altre corse rocambolesche sui gradini delle cento fontane. I
veicoli in questo caso erano tavolacci insaponati alla base.
In alcuni casi la velocita’ era tale che ci si ribaltava,
andando a |
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sbattere con la faccia contro la base dei lavatoi. Tuttora, se ci si fa caso, i gradini risultano smussati al centro
come testimonianza delle nostre intemperanze.
E poi il mare d’estate:la pesca delle cozze, dei ricci di
mare, dei cacavozzoli ovvero le lumache di mare. Le gare dei
tuffi, il nuoto al largo fino a perdersi nella vastitaà
azzurra e le immersioni in profondità a caccia di polpi
Il mare era praticamente ad un tiro di schioppo da casa
mia,poche decine di metri e si era sugli scogli.
La località veniva detta “a mont u scaro” confesso che l’etimologia
mi e’ sconosciuta, e si era formata a seguito dell’eruzione
del 1794. C’era anche un’altra spiaggetta, incassata in un
grotta di roccia lavica, e che noi chiamavamo “lo scarino”.
Essa era di fianco all’attuale circolo nautico, proprio a
dosso della chiesa di Portosalvo e il suo arenile
gorgogliava acqua dolce probabilmente proveniente dal fiume
Dragone,lo stesso che alimentava le cento fontane. Scomparve
tale rientranza agni inizi degni anni sessanta per ampliare
la banchina.
Per noi il mare era, come diceva Conrad, l’attraversamento
della linea d’ombra. Ovvero l’iniziazione alla vita. Ci si
buttava senza saper nuotare poi l’istinto di sopravvivenza
faceva il resto.
Un capitolo a parte e’ il cinema. C’era il Vittoria,
l’Iris,che erano quelli dove noi si andava perchè piu’
economici in quanto davano film gia’ passati e ripassati.
L’Iris aveva una pecularietà ovvero il tetto che d’estate
si apriva scoprendo il cielo pieno di stelle. Comunque il
cinema era nutrimento di mille fantasie: indiani, cow boys, i
paladini di Francia, i mostri preistorici.
A dire il vero,era la sala stessa ad essere un vero e
proprio teatro: schiamazzi, sfotto’, lupini e risate. E
addirittura, a fine proiezione c’era anche la possibilità
di mettere in vendita il proprio posto.
All’ uscita poi si veniva accolti dall’odore delle zeppole e
panzarotti o da delizie quali fichi d’india,noce di cocco ,
dal per e omuss o dalla mitica ciquita nel panino,che poi
sarebbe la milza bovina macerata nell’aceto che ancora e’
possibile trovare in Sicila : la meveza.
Non c’era ricchezza, si mangiava poco. Il sogno era un panino
con la frittata oppure con il corned beef ovvero la carne in
scatola. Ci si accontentava, si fa per dire, della marmellata
di cotogna, del pane con il pomodoro oppure con i fichi
quando era periodo. Il pollo era un lusso, cibo dei ricchi
allora. Oggi invece un piatto banale. La carne quasi come
estrema unzione quando si era ammalati oppure solo di
domenica.
E poi le banane irrangiungibili, l’ananas non c’era ancora. C’era, invece,
il calamaro ripieno alla maniera di mia madre. Sublime. Non
vorrei fare un paragone improprio ma era per me come la madeleine per Proust. Che poi in fondo
è solo un dolcetto
burroso a forma di conchiglia.
La sera era poi un teatro all’aperto. Pochi avevano la tv in
casa. Quindi tutti a sedersi fuori ai bar ad assistere a
Lascia o raddoppia. Il bar all’inizio di via Fontana era
sempre gremito,i tavoli occupavano tutto lo spazio
antistante e c’era tanta vita che, senza voler essere
retorici,in quei momenti, era un po’ difficile, anche
volendo, rimanere da soli.
Tutta quella vita, tutti quei palpiti, risate, rumori oggi
sembrano essere stati divorati dall’oblio. Si e’ persa la
memoria,la memoria della bellezza di quel tempo, della
bellezza in assoluto.
Ripercorro quello che era stato il giardino dove mi ero
perso da bambino. Ricordo un’immensità di colori e di
odori. C’era un imponente glicine con i suoi sontuosi
grappoli di colore azzurro ,camelie con corolle vellutate
color cremisi, e poi ortensie blu, rosa , turchese, gerani di
tutti i colori, petunie allegre e margherite, tante bianche e
gialle. In un angolo ombroso enormi vasi di aspidistria con
le loro foglie lancinanti.
A rivederlo oggi e’ l’inferno in terra : frigoriferi
rotti, vecchi pneumatici, sterpaglie, pietre e lerciume.
Mi struggo in cuor mio e mi chiedo cosa mai sia successo in
così pochi decenni. Mi guardo attorno: colori spenti,urla
sguaite, musiche degradanti, persone laide, visi tristi ed
ingrugniti.
E’ la spia tutto cio’ di come tutto il Paese sia scivolato
nel baratro dell’ignoranza, delle brutture, dell’egoismo
più spietato, della mancanza d’amore.
E’ l’imbarbarimento, un irreversibile involuzione
antropologica. La Capria nel suo bellissimo libro, L’armonia
perduta scrive:
“Ma e’ mai possibile che la nostra borghesia non abbia
saputo escogitare altra maniera di far soldi se non quella
di distruggere tutta la bellezza che avevamo intorno a
profusione e di aggravare tutta la bruttezza che pure non ci
mancava.” E volendo chiudere, oserei dire che più che di
bruttezza fisica e quella essenzialmente morale che ha
sfregiato in modo, ahime, irreparabile il nostro Belpaese.
Giovanni Ruotolo 21-03-2013 |