La perla vesuviana


La torre del Greco
cromosomica

di
Giovanni Ruotolo

"Sono io la Napoli di cui racconto
e
 
altre non ne conosco perché solo
di me so qualcosa se lo so..."
Da "L'oro di Napoli" Giuseppe Marotta

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Un altro mondo

Son tornato in questi luoghi, dove sono nato. Mancavo ormai dagli anni 70. Ogni angolo mi richiama alla memoria ricordi ed impressioni che fanno parte indelebile della mia vita. La zona e’ quella detta sotta la ripa. Perché in effetti c’é anche una sopra la ripa. La ripa é il dislivello creato dalla nefasta eruzione del 1631.
Tutta l’area prima dell’eruzione non era che battigia poiché il mare lambiva il castello appartenuto ad Alfonso D’Aragona, re di Napoli nella prima meta del 400, ed attualmente sede del municipio di Torre. Io sono nato in via Liberta’ che sarebbe la strada che si vede scendendo le scale venendo da piazza Santa Croce e che viene troncata dalla ferrovia un po’ più giù. Dicevo sono nato in questa strada nel retrobottega dei miei che in effetti gestivano un emporio che serviva mezza Torre. Parto in casa dunque, ed anche pericoloso trattandosi di un parto podale.
L’infanzia tutta protesa alla scoperta di quel microcosmo che per un bambino era l’universo intero. In quegli anni e parlo degli anni 50, essendo io nato nel 49, l’atmosfera era un po’ quella che si respirava in quei film in bianco e nero di De Sica. Noi si cresceva in strada,allora si poteva. Le auto erano talmente poche che ci divertivamo a registrarne le targhe di quelle che passavano da via Fontana. Per noi, bambini di allora, non esisteva la noia.Ogni giorno,ogni mese aveva i suoi regali da offrirci. Beninteso non c’era nulla ma in realtà c’era tutto. C’era il mare che allora era di color cobalto con sfumature verdi,i giardini misteriosi ed intrisi di sottili fragranze, ben nascosti nei cortili interni dei palazzi, all’uso moresco.
C’erano i misteri, le paure ancestrali: u monaciello, u lupo mannaro. E poi i colori accesi del cielo, delle tende variopinte, dei fiori, tanti, che abbellivano le ringhiere barocche dei palazzi un po’ pretenziosi del primo novecento.  E poi le voci, un dialetto puro non ancora contaminato dalla tv appena nascente:voci squillanti,divertite,ironiche,provocatorie ma tutte armoniose, di un’amalgama sedimentato nei secoli.
La festa dei quattro altari, quaggiù, raggiungeva l’apoteosi col l’altare di fabbrica ovvero di carton gesso tridimensionale. E poi la folla, di sera, con i vestiti della festa ad inondare le strade gia’ gremitissime, i balconi illuminati e le coperte damascate stese sui parapetti. Tutto un turbinio di luci e di colori sgargianti.
Certe sere si assisteva poi alle peripezie dei funanboli che attraversavano nel vuoto la distanza tra due palazzi su un esile corda. E noi bambini con i nasi per aria seduti sugli sgabelli assieme ai fratelli, zii, nonne. Tutto intorno un silenzio irreale per poi sfociare in un boato di urla e applausi a fine della prova. Si stava tutti assieme,mai da soli,sia in casa che in strada. Questa era la ricchezza di allora, ricchezza incommensurabile a vederla oggi da un altro mondo.
In quel mondo ogni personaggio era particolare. C’era il maresciallo che aveva combattuto in Africa e presso il quale andavamo io e mio fratello più grande a doposcuola, con risultati alquanto deludenti. Appena sull’uscio suonava l’inno di Mameli e noi ritti sugli attenti ,rigidi e il saluto militare. A fine lezioni, se bravi, venivamo premiati con qualche vecchia copertina della Domenica Illustrata. Poi saluto, dietrofont e via.
C‘erano le vecchie bizzoche ovvero le cosiddette devote presso le quali andavo a mo’ di asilo da bambino.
I metodi erano alquanto approssimativi:se cattivi si rischiava di essere colpiti da qualche zoccolo delle medesime, oppure di precipitare negli inferi che poi era il piano sottostante completamente immerso nel buio,se buoni ci permettevano di vedere spezzoni di pellicole con immagini sacre. Direi un’educazione un po’ sopra le righe.
E poi c’era Chiarina, una vecchina che d’inverno vendeva l’allessa ovvero castagne lesse in cartoccio e d’ estate il cazzabocchi cioè la grattachecca con sciroppi di vari gusti sopra. E poi il mellunare con le distese di angurie e di meloni gialli e verdi davanti al negozio.
Di compagni ne avevamo tanti e tanti erano i giochi,parecchi retaggio di secoli addietro. Si puo’ dire che probabilmente siamo stati l’ultima generazione che vi ha giocato. Dopo, tutto e’ stato fagocitato dalla tv.
Si giocavo al fazzoletto,alla lotta, addirittura alla guerra con pietre e cerbottane. Alcuni di noi tra cui io stesso spesso siamo tornati a casa con la testa spaccata ovvero insanguinata. Si correva, si correva molto: nelle gare di velocità, nelle battaglie che si ingaggiavono con ragazzi dei quartieri limitrofi. Si combatteva con le spade di legno a volte istoriate con tappi di birra o con certe mazze fatte con la testa di pece.
Si improvvisavano poi le corse sui cosiddetti carrocci che non erano altro che trabiccoli di legno con le ruote di legno o di ferro, per chi poteva permetterselo. Si scendeva, a rotto di collo, sulle discese e si frenava all’ultimo momento con i piedi a mo’ di freno.
Altre corse rocambolesche sui gradini delle cento fontane. I veicoli in questo caso erano tavolacci insaponati alla base. In alcuni casi la velocita’ era tale che ci si ribaltava, andando a

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sbattere con la faccia contro la base dei lavatoi. Tuttora, se ci si fa caso, i gradini risultano smussati al centro come testimonianza delle nostre intemperanze.
E poi il mare d’estate:la pesca delle cozze, dei ricci di mare, dei cacavozzoli ovvero le lumache di mare. Le gare dei tuffi, il nuoto al largo fino a perdersi nella vastitaà azzurra e le immersioni in profondità a caccia di polpi
Il mare era praticamente ad un tiro di schioppo da casa mia,poche decine di metri e si era sugli scogli.
La località veniva detta “a mont u scaro” confesso che l’etimologia mi e’ sconosciuta, e si era formata a seguito dell’eruzione del 1794. C’era anche un’altra spiaggetta, incassata in un grotta di roccia lavica, e che noi chiamavamo “lo scarino”. Essa era di fianco all’attuale circolo nautico, proprio a dosso della chiesa di Portosalvo e il suo arenile gorgogliava acqua dolce probabilmente proveniente dal fiume Dragone,lo stesso che alimentava le cento fontane. Scomparve tale rientranza agni inizi degni anni sessanta per ampliare la banchina.
Per noi il mare era, come diceva Conrad, l’attraversamento della linea d’ombra. Ovvero l’iniziazione alla vita. Ci si buttava senza saper nuotare poi l’istinto di sopravvivenza faceva il resto.
Un capitolo a parte e’ il cinema. C’era il Vittoria, l’Iris,che erano quelli dove noi si andava perchè piu’ economici in quanto davano film gia’ passati e ripassati. L’Iris aveva una pecularietà ovvero il tetto che d’estate si apriva scoprendo il cielo pieno di stelle. Comunque il cinema era nutrimento di mille fantasie: indiani, cow boys, i paladini di Francia, i mostri preistorici.
A dire il vero,era la sala stessa ad essere un vero e proprio teatro: schiamazzi, sfotto’, lupini e risate. E addirittura, a fine proiezione c’era anche la possibilità di mettere in vendita il proprio posto.
All’ uscita poi si veniva accolti dall’odore delle zeppole e panzarotti o da delizie quali fichi d’india,noce di cocco , dal per e omuss o dalla mitica ciquita nel panino,che poi sarebbe la milza bovina macerata nell’aceto che ancora e’ possibile trovare in Sicila : la meveza.
Non c’era ricchezza, si mangiava poco. Il sogno era un panino con la frittata oppure con il corned beef ovvero la carne in scatola. Ci si accontentava, si fa per dire, della marmellata di cotogna, del pane con il pomodoro oppure con i fichi quando era periodo. Il pollo era un lusso, cibo dei ricchi allora. Oggi invece un piatto banale. La carne quasi come estrema unzione quando si era ammalati oppure solo di domenica.
E poi le banane irrangiungibili, l’ananas non c’era ancora. C’era, invece, il calamaro ripieno alla maniera di mia madre. Sublime. Non vorrei fare un paragone improprio ma era per me come la madeleine per Proust. Che poi in fondo è solo un dolcetto burroso a forma di conchiglia.
La sera era poi un teatro all’aperto. Pochi avevano la tv in casa. Quindi tutti a sedersi fuori ai bar ad assistere a Lascia o raddoppia. Il bar all’inizio di via Fontana era sempre gremito,i tavoli occupavano tutto lo spazio antistante e c’era tanta vita che, senza voler essere retorici,in quei momenti, era un po’ difficile, anche volendo, rimanere da soli.
Tutta quella vita, tutti quei palpiti, risate, rumori oggi sembrano essere stati divorati dall’oblio. Si e’ persa la memoria,la memoria della bellezza di quel tempo, della bellezza in assoluto.
Ripercorro quello che era stato il giardino dove mi ero perso da bambino. Ricordo un’immensità di colori e di odori. C’era un imponente glicine con i suoi sontuosi grappoli di colore azzurro ,camelie con corolle vellutate color cremisi, e poi ortensie blu, rosa , turchese, gerani di tutti i colori, petunie allegre e margherite, tante bianche e gialle. In un angolo ombroso enormi vasi di aspidistria con le loro foglie lancinanti.
A rivederlo oggi e’ l’inferno in terra : frigoriferi rotti, vecchi pneumatici, sterpaglie, pietre e lerciume.
Mi struggo in cuor mio e mi chiedo cosa mai sia successo in così pochi decenni. Mi guardo attorno: colori spenti,urla sguaite, musiche degradanti, persone laide, visi tristi ed ingrugniti.
E’ la spia tutto cio’ di come tutto il Paese sia scivolato nel baratro dell’ignoranza, delle brutture, dell’egoismo più spietato, della mancanza d’amore.
E’ l’imbarbarimento, un irreversibile involuzione antropologica. La Capria nel suo bellissimo libro, L’armonia perduta scrive:
“Ma e’ mai possibile che la nostra borghesia non abbia saputo escogitare altra maniera di far soldi se non quella di distruggere tutta la bellezza che avevamo intorno a profusione e di aggravare tutta la bruttezza che pure non ci mancava.” E volendo chiudere, oserei dire che più che di bruttezza fisica e quella essenzialmente morale che ha sfregiato in modo, ahime, irreparabile il nostro Belpaese.

Giovanni Ruotolo 21-03-2013