Una fisarmonica distrutta
È una mattina come tante altre, i
quartieri iniziano a popolarsi, le bancarelle
arredano i vicoli e alla Cumana, il solito tran tran
di lavoratori.
Fa caldo, ormai l’estate è vicina. Dopo un
inverno piovoso, finalmente il sole è comparso.
La gente dei vicoli del quartiere Montesanto
affronta un’altra giornata tra i richiami degli
ambulanti e le moto, che sfrecciano tra la folla. Da
cornice le sirene delle ambulanze, che si
divincolano nelle stradine, che circondano il
vecchio Pellegrini.
Napoli è una città come tante in Europa, un misto
di culture e di etnie, che stenta ad integrarsi
nonostante la sempre più crescente presenza di
stranieri, di fatto, diventati base sociale
partenopea.
La giornata inizia bene anche per Petru, un
“musicista” rumeno. Di buonora, insieme alla
moglie inizia il lungo e faticoso viaggio della
giornata. Salire e scendere dai treni per
intrattenere i viaggiatori ancora assonnati e
annoiati dall’affrontare un’altra giornata di
lavoro e non poter godere il calore del sole
all’aria aperta. Il giovane rumeno con la sua
fisarmonica intona melodie della Napoli di un tempo,
e la moglie, timidamente, porge la mano nella
speranza di raggranellare qualche centesimo di euro.
Questa è la vita di tanti uomini e donne stranieri
venuti nelle nostre terre, nella speranza di
cambiare in meglio la loro vita, e già fortunati di
non finire nelle reti della criminalità
organizzata. Almeno si spera.
Nascosti nelle viscere di Napoli, invisibili,
schivi, timorosi della città appariscente, che non
li nota, anche se nel loro tugurio sono felici, con
quei pochi soldi di elemosina, essi riescono a
sfamarsi per un’altra giornata. E ogni giorno la
solita lotta.
Scappano dalle loro città per fame, per guerra, per
sfuggire da regimi autoritari o per opposizione
politica, raggiungono le nostre terre, proprio come
tanti anni fa, quando
i nostri nonni speravano di abbracciare la
libertà nell’America o nelle fabbriche del Nord
industrializzato.
Sono le 19.30, l’orario del ritorno a casa, la
coppia di rumeni a passo celere si dirige alla
stazione Cumana. La giornata volge al termine, hanno
comprato il cibo per la cena e i loro due figli li
attendono affamati. Oltre la fisarmonica, che porta
in spalla, Petru ha in mano alcune buste di plastica
colme di provviste, grazie all’opera buona di
qualche passante. “Sarà meglio avanzare il
passo” consiglia Petru alla moglie. E così fanno.
Montesanto è ancora viva, anche se meno affollata
della mattina, i bancarellari via via iniziano a smontare, tranne qualche africano, che,
utilizzando il marciapiede all’esterno
dell’ospedale, attende e spera ancora di vendere
qualche oggetto con griffe pataccate. Ma il piacere
di quei vicoli sono gli odori delle pizze fritte
ripiene, che dalle friggitorie invadono le strade.
Nonostante la stanchezza, quel tratto di strada è
davvero piacevole. Petru e la moglie sono ad un
passo dalla stazione quando, ad un tratto, quattro
motociclette giungono alle loro spalle. Un rombo
devastante! Una sparatoria irrefrenabile, proiettili
all’impazzata bucano l’aria, sembra il Far West,
come in un film di Sergio Leone, con la differenza
che i personaggi del regista avellinese hanno grinta
e forza, si guardano negli occhi e si sfidano. Il
musicista sente a un tratto un forte dolore alla
gamba e, dopo un attimo, un violento botto al torace
gli toglie il respiro. Si accorge di essere stato
colpito da due proiettili vaganti, stessa sorte per
un ragazzino, che si trova lì per caso, cerca di
raggiungere l’ingresso della stazione, ci riesce,
ma si accascia al suolo davanti ai tornelli, in quel
momento gremiti di viaggiatori che con indifferenza
obliterano i biglietti, noncuranti della
disperazione della povera moglie che chiede aiuto.
Proprio tra l’indifferenza e, a causa di
quell’atteggiamento, Petru muore, ammazzato per
non aver commesso nulla, un errore che
nessuno pagherà. Così si può morire a
Napoli!
Finisce una vita di un giovane per la paura di un
popolo intimorito tra l’omertà e la noncuranza.
Eppure un tempo i napoletani erano considerati
generosi, altruisti, solidali. E ora cosa è
successo? Siamo vittime di un sistema che incute
terrore e rifiuta l’altro. Diciamo pure che siamo
intolleranti nei confronti di chi non è come noi,
siamo razzisti!.
L’ambulanza arriva in ritardo e i medici
constatano la morte, mentre i figli nel tugurio
nascosto nelle viscere di Napoli, attendono il papà
che rincasi da un momento all’altro. Quel momento
non arriverà mai più. Benvenuti a Napoli, terra di
sole, di canzoni, di amori e di camorra.
Siamo senza Stato. Non illudiamoci. I sultani non si
interessano dei poveri e delle nazioni, la
globalizzazione ha fallito ed ha disperso i
sentimenti autentici della gente nel mare inquinato.
Napoli,
18/06/2009
Salvatore Formisano
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