Torna in Comunità

Il DIALETTO TORRESE E' ANCORA ATTUALE?

Caro, Cristofaro, mi appello alla tua sensibilità di incorruttibile redattore di Torreomnia, e ti rispondo con impegno. Credo che un dialetto scritto sia come una partitura musicale, come il listato di una foto vettoriale (cioè il calcolo del listato foto e non la foto mostrata).
Il dialetto, come la musica, come la fotografia, vanno ascoltati e ammirati in esecuzione.
Purtroppo dopo millenni di segni alfabetici e cinque secoli di tipografia ancora adoperiamo il mezzo della scrittura, perché non bastano trent'anni di informatica e di sofisticati mezzi elettronici per togliercelo dal DNA, poiché una manciata d'anni stanno ancora nell'arco della vita di un uomo maturo.
Una cosa, in ultima analisi, è la "componente fantasia" che è prerogativa della lettura di un romanzo, di un racconto, nel soggettivismo semicelato tra le righe di scritto con interpretazione personale del reale, (quindi tepore della memoria, identificazione personale con l'autobiografismo dell'autore, ecc.),  e l'altra è tentare inutilmente di avvertire emozioni dai suoni scritti del dialetto, della musica, dei calcoli in bit e quant'altro. Al di là del significato delle parole tradotte in scrittura che può essere un buon surrogato del pensiero, un dialetto, oggi come oggi, va solo e nient'altro che ascoltato per la sua comprensione, per lo studio e per tramandarlo.
Lo studio della fonetica specie nel vernacolo fatto con i segni è semplicemente anacronistico rispetto ai mezzi attuali, e poichè il forte di un dialetto è proprio la pronuncia è come ostinarsi di percorrere 1000 chilometri con la bicicletta piuttosto che con l'automobile, solo per tener fede alle metodologie della propria età evolutiva scolastica. 
     

Tu, Cristofaro hai detto "(...) ho letto un racconto in torrere chi non era torrese e leggeva quel racconto come avrebbe fatto a capire?(...)"

Ebbene un racconto in torrese per trarmettere musicalità, toni, e senso del folklore locale va interpretato prima dal ritmo, e dalle sofisticherie naturali dell'articolazione lingua-palato-gola che nessun segno fonetico può tradurre fedelmente. Solo per il significato ideologico possiamo adoperare la traduzione in italiano a fronte, ma è solo una semplice traslitterazione che confronta:  murtarella per mortadella; più utile solo con gli stranierismi dialettali: purtuallo per arancia, e rimane una soluzione meramente didattica, ma estranea alle radici, al folklore e alle tradizioni propriamente dette. 
Ma, Cristoforo, quel NOPN torrese di cui parli in questa proposta di discussione sentirebbe  il substrato dell'espressione idiomatica-fonetica corallina non già solo con un brano sonoro, ma con il filmato di un torrese che parla, con sottotitoli in italiano; perché non trascuriamo un aspetto importante del vernacolo, specie vesuviano, con gli atavici timori eruttivi, che viene sensibilmente coadiuvato dalla mimica facciale, prima della classica gestualità partenopea.

A prescindere dall’etimologia che è uno studio a se stante, ma quasi sempre incerto ed azzardato, un glottologo, linguista professionista moderno, in primo luogo tiene conto delle ricerche di prima mano con la gente del luogo effettuate con le nuove tecnologie e le adotta, associandole alla creatività espressiva insita nella memoria. 

Le ricerche libresche sono la solita solfa dell'adattamento e dell'emulazione tipiche del culturalista amatoriale della domenica o da dopolavoro comunale delle quali ne è piena la rete. In questi casi il dialetto si disperde lostesso per la mancanza di afflato autore-fruitore.
Un romanziere, un poeta trasmettono attraverso la creatività emozioni e senso del bello artistico, specie se si è un provetto esteta. Il saggista in genere trasmette scienza o storiografia, ma il linguista pennella la storia locale con una sorta di leit motiv, una musicalità che ne sottolinea il valore culturale folkloristico.

Tu, Cristofaro, hai detto:  (...) Negli anni passati per puro declassismo fasullo le madri insistevano affinché i figli smettessero di parlare il dialetto per appropriarsi dell’italiano che, purtroppo, influiva sullo scritto, portando il soggetto ad esprimersi con parole dialettali per mancanza di conoscenza della madre lingua: l’italiano (...).

Nei tempi in cui avveniva ciò che tu dici a Torre i laureati si contavano sulla punta del naso. Oggi si contano i non laureati. Non era tanto il timore che i figli scrivessero dialettalmente che faceva ricusava l'idioma nativo, ma una sorta di snobbismo perbenista e provinciale, perché il dialetto era considerato il linguaggio della massa  dei  proletari.

Infatti nel dopoguerra stranierismi e italianismi aulici imbrattarono soprattutto i registri anagrafici con le smorfie rinitiche dei soli parrocchiani costretti ad indagare sui santi sconosciuti pur di non avere rimproveri dalla Curia. Stiamo parlando dell'immediato dopoguerra quando ci fu chi strappava erbaccia dai binari del Cavaliere e le cucinava con acqua perché l'olio non era a buon mercato e si vendeva nella tazzina. Oggi sappiamo bene che il cosiddetto "umido" della raccolta differenziata è composto da tonnellate di cibo gettato.

Tuttavia, nessuna didattica, ricerca storiografica, saggio linguistico mediocre o professionale, vetusto o tecnologico che sia conduce al recupero dei valori delle radici se manca il plasma dell'altruismo, della fratellanza del campanilismo, del nobile senso sociale comunitario; altrimenti è tutta paglia di cascame, stoppa arida e schematica fredda e asettica, come la sgherra metodologia del progresso dove ogni minimo sforzo dell'uomo è rivolto alla propria vanagloria, al proprio senso infermo di protagonismo e di prevaricazione.

Luigi Mari     

Torna in Comunità