Ecco alcuni "ritratti" di Luigi Mari che vi introdurranno allo spitito di  Torreomnia facendovene gustare  fragranza  e  sapore:
(E' determinante leggerli!).

Flavio Russo è un chiaro esempio di valenza torrese non sufficientemente divulgata, non solo per la mole intensa e cospicua di lavoro letterario settoriale svolto, ma per il senso umano, umile, solare di presentare e presentarsi, raccontare e raccontarsi, indagare, scoprire, scrutare, analizzare con meticoloso acume, quasi nell'estremizzazione del dettaglio, nella esa- sperazione del particolare, per amore e fede della storia e della verità storica, facendo di se stesso il tessuto connettivo tra archeologia e architettura; una venerazione del reperto, della pietra, della struttura, quali testimonianze inconfutabili del nostro, spesso, glorioso passato; riesumando, per riflesso, il substrato psicologico e soprattutto la natura, le radici del nostro caratteriale, quello un di popolo (come si suol dire) di poeti, santi e navigatori.
A prescindere dal nostro accreditato e affermato Flavio Russo non solo nei confini nazionali, la cultura locale spesso non evidenzia o trascura certi valori, penalizzando personaggi di ottima levatura, con i masi chiusi di certo razzismo diplomatico, e col  "dannoso e annoso provincialismo" (inteso, purtroppo, non solo come goffaggine, impaccio e cattivo gusto, ma talvolta come inclinazione al livore, all'astio, alla rivalità, specie tra gli addetti ai lavori di determinata intellighentzia o di una cultura di stampo demagogico), atteggiamenti assenti in questi personaggi, come dire, "rieducati" o acculturati in etnie differenti, extra-moenia, predisposti ad una visione formativa, cognitiva e criteriale molto ampia, che spazia nel sociale, nella dimensione europea e via via planetaria. Trasporti e fervori negativi, invece, che allignano anche dentro le mura di città che vantano "intelletti" e valentie, dipanate sin dalla gloriosa imparagonabile Scuola Salernitana.
E quello che sconcerta è la diffusione, nei mass-media, del frivolo, dell'apparire e della "notizia", spesso inutile canard. Cosicché il furticello, la sniffata, le turbolenze civiche o le esplosioni della moda o pseudo-moda o i concerti dei big, diventano notizia e cultura di capillare dominio pubblico. Intanto milioni di persone non conoscono il nome di chi ha scoperto la penicillina, o di chi spende la propria vita sulle "sudate carte", per amore della cultura, per capire e diffondere il sapere, creando saggi e narrazioni atti, rispettivamente, a studiare o infiorire la materia fisica, ad esaltare o condannare, sublimare o ricusare il benevolo e l'iniquo della storia; per affondare, altresì, nella conoscenza delle nostre origini, cromosomicamente perpetuate nei secoli sino ad oggi e forse proiettate verso un domani speriamo migliore.
L'operato di Flavio Russo, ribadisco, è di notevole spessore culturale, e Torreomnia, apolitico, libero e indipendente, nella persona del sottoscritto, intende ulteriormente propagare. I lavori del nostro si allargano ad estuario nel campo della saggistica storico-architettonica o archeologico-ambientale, non solo partendo dall'ottica della storia militare. Ciò soprattutto perché le fatiche di questo prolifico studioso torrese beneficino tutti coloro che condividono con lui lo stesso amore per il sapere; senza il pretesto, qui, di intessere una edulcorata apologia ad un compaesano più o meno erudito.
I saggi di Flavio Russo pur essendo tecnicistici e settoriali rasentano un ibrido di saggistica e narrazione, ma quest'ultima solo apparente, subdorabile, non priva di sia pur sparuti accenni aneddotici altrettanto mimnetizzati, non esplicitamente descritti, quasi tutto immaginario, intuibile, al di qua e al di là della penna: un canovaccio interiore ventriloquo e spontaneo, diafano e rutilante che non si legge ma c'è e si coglie come radi sprazzi di luce, sino, spesso, a sfiorare l'umanistico. E mi chiedo se di questo l'autore sia consapevole perché per nulla voluto, ma sentito, non strumentale, che esula da giochi di maniera o da tecniche scrittorie mestieranti. Quasi si evince uno stile letterario, anche se apparente, di solito inesistente, quanto meno desueto nella saggistica, ma che, questa volta, fonde la materia scientifica all'etica e alla morale e ad un sentimentalismo partenopeo non difficilmente riconoscibile.
D'altra parte, giocoforza, è quasi un retaggio lirico nascere tra mare e Vesuvio. Pargoli, con la brezza di Calastro o quella della talassoterapeutica litoranea, sia pur decaduta, col profumo amorevole delle pietanze materne fatte di profumate cime di rapa, scapece o melenzane e peperoni, toccasana per l'ansia cromosomica delle eruzioni. Ambascia "in cantina" ritualizzata da inconsce giaculatorie atte ad esorcizzare la catastrofe, inneggianti il vivere, insufflanti per alimentare le ultime fiammelle di romanticismo e poesia negli anta, per così dire, dotti.
Come si può, con tali presupposti, mettere mano alla penna e stagnare, ad esempio, nei confini asettici dell'ingegneria, punto e stop. In tal modo Flavio Russo sarebbe un "vesuviano pentito", un meridionale snaturato e non vanterebbe l'umiltà, il sorriso, il carisma e la bontà che emana confabulando, con i suoi occhi intelligenti diritti in quelli dell'interlocutore, nel puerile atteggiamento dei puri d'animo.
I saggi di Flavio Russo si distinguono per questo alone di napoletanità o della parente vecchia torresità, pur se   vagamente percettibile, per questo più fantasiosa e personalmente interpretabile, ma che prende corpo e consistenza specie ne "L'oro rosso di Torre del Greco" oltre che, in generale, per la precipua prerogativa di opere univoche nel settore.
I moti dell'animo della nostra maggioranza di popolo buono ci spingono ora a genufletterci ai tabernacoli, ora a sottometterci alla cabala, ora ad ammirare monumenti, antiche torri, vetusti castelli e fortini, non disdegnando il quotidiano nutrirci di pane cafone farcito di interiezioni, nella speranza e nella gioia di vincere il timore del Vesuvio, di casa nel DNA, da noi. Ciò perché persistano nei circumvesuviani reazioni difensive ed esorcizzanti, contro la temuta catastrofe, moti eterogenei o contrapposti: invidia, gelosia, aggressività, o amore smisurato per lo studio, per l'arte applicata, per la glittica, per l'imprenditoria. Sensazioni, consapevolezze e prese di coscienza delle più variegate, presenti, da sempre, perché secolare è l'ansia endemica ed endogena dello "sterminator vesevo", non di meno, pure, ad esempio, nella creazione di un falansterio, di una torre saracena; oppure nella progettazione di un bunker nazista, di una Villa Sora e una Terme Ginnasio, immortalate e conviventi gomito a gomito nella nostra Torre del Greco, perpetuandosi nei millenni.
Per questo i tomi di Flavio sono speciali perché egli è figlio di questo terreno igneo ferace e impietoso, generoso e ingrato, come i devastanti errori a fin di bene di molte mamme verso i figli, le quali, come diceva Nietzsche non li amano, ma si amano in loro. Ed è proprio l'amore-odio dell'uomo per questa terra, che ce lo ricambia, inconscio o consapevole, unico al mondo, che forgia e sventra la creatività, l'acume, la scaltrezza fino al nutrimento di un coraggio pari all'estremizzazione dell'incoscienza, nella sfida folle e immotivata che si regge solo su di uno sfrenato sentimento di palingenesi, di redenzione fino, in alternativa, alla catarsi salvifica post-mortale. Sono certo che questa chiave di lettura dell'operato del Russo e di tutti i torresi creativi non è una rivelazione del sottoscritto inedita e stravolgente, ma intuibile dagli estimatori delle numerose opere, dai militari del suo ambiente di lavoro, dai giornalisti della Rivista Marittima, dai suoi lettori.
Deferente verso Russo, questo infaticabile scrittore che insieme ai collaboratori tutti di Torreomnia, specie quelli fuori le mura, fanno riscoprire in me la gioia di vivere in quel meridione relativo alla nota "questione" mai risolta, alimentando altresì la smarrita fierezza di essere torrese; ma mi vergogno come un ladro pentito, mi vergogno per la gratificazione, l'amore, la bontà, l'altruismo, sentimenti a iosa, trasmessomi e comunicatomi di  persona o per telecomunicazioni da questi numerosi bravi, buoni, onesti torresi; mi vergogno rispetto alle migliaia di compaesani che pur essendo altrettanto buoni, bravi onesti, amorevoli non hanno modo, mezzo e luogo per ricevere questo ampio privilegio e beneficio dai concittadini disposti e raggianti di torresità, insieme alla nostra aria salubre e al sole generoso vesuviano. Mi vergogno perché costoro, rispetto a me, non compenseranno mai ciò che talora subiamo dall'ambiente interno le mura, cioè cattiverie, gelosie, talvolta lordure. Vorrei dividere con gli altri, con tutti i torresi, fratelli in Torre, la gratificazione e l'amicizia disinteressata dei numerosi collaboratori ed estimatori di Torreomnia e la sua ampia utenza sfegatata, e non sentirmi solo vorace ed ingordo d'amore, d'affetto e di uno sviscerato campanilismo.              
Luigi Mari
Da "L'oro rosso di Torre del Greco

                                                       


Argomentando di "Salvatore in quel di Bologna", slogan, questo, a cui sono affezionato, mi viene spontaneo dire "il caso Argenziano". Caso perché egli rappresenta l'emblematico di una essenziale sfaccettatura della rosa di problematiche dell'area vesuviana, nella fattispecie il malore endemico: edonismo-egotismo di una Torre del Greco allineata alle città italiane con un reddito, sperequato, s'intende, di gran lunga superiore alla media nazionale e condizionata da specifici masi chiusi economici di settore.
Il pragmatismo, si sa, fa a cazzotti con l'antica napoletanità umanistica, pregna di suggestioni etico-religiose che non tenevano conto delle differenze di classe se non per una logica gerarchica, ma che riusciva ad accomunare il malato ricco con il malato povero davanti a Dio; anche se meno davanti al medico.
Il "caso Argenziano" è visto tale perché dimostra come la perdita di pregi morali, elevatezze d'animo ed altri valori, dipendono più da un fatto endemico geografico che da cause epocali di etnicismo più ampio o, addirittura di vastità planetaria.
Torrese DOC, (e mi piace ripetere alla De Curtis: torresi si nasce e lui lo nacque), Salvatore Argenziano con la sua collaborazione incondizionata a Torreomnia, tiene alto il vessillo del torrese vecchia maniera, quello della parola mantenuta o della solidarietà, della disponibilità; il torrese dei baratti sui ballatoi di a laccia e putrusino; quello della "napoletana fumante" che penetrava usci, porte e portelle di architettura spagnola, oramai quasi totalmente falciate dalla ricostruzione.
Per il nostro concittadino il "tempo torrese" si è fermato nel momento in cui mise piedi fuori la Porta di Capotorre; ideale pargolo imberbe con alcuni anta, rivive oggi nitide le processioni profuse d'incenso e di afrore degli anni cinquanta, le pollastre dei poveri fumanti lungo il ciglio delle strade, i cazzabbocchi della Carmenella, i ceci e i semi di zucca tostati dei miraggi hollyoodiani dei Gradoni e Canali.
L'evocazione nei "Ricordi" rivela i primi turbamenti giovanili dell'autore causati dai tedeschi e dagli anglo-americani. Una "Recherche", tuttavia, poetica, metricamente libera, quindi descrittivamente più autentica.
La Torre del Greco di mezzo novecento insieme a Salvatore Argenziano sono l'idillio, due pargoli amanti, castigati dal sortilegio dell'amore indissolubile, una Giulietta e un Romeo divisi da un destino incontrastabile, ma uniti per sempre nell'animo.
Il torrese, in genere, che vive fuori porta (nella fattispecie di Capotorre) idealizza e sublima la Patria del Corallo, soggiace alla nostalgia e al lucore soffuso dei ricordi e questo lo risolleva dal giogo delle problematiche epocali attuali dell'area geografica che lo ospita. Dietro questa molla Salvatore Argenziano ha donato ai suoi compaesani, tramite Torreomnia, due gemme, per il momento: "Ricordi" e il "lessico torrese-italiano", che spera di ampliare con la collaborazione fattiva dei concittadini.
Dal primo componimento si evince la lirica che scaturisce dalla componente onirica, prevalente sul fatto epico, eventi, date, bombardamenti, sfollati, eruzione, ecc.
Tuttavia una storicità a mezza strada tra la storiografia e la cronaca, come fatto descrittivo, ma tutto diafano, incerto e sicuro insieme, come il pensiero lontano, come un perduto amore.
Una prosa in versi e dei versi in prosa, quelli di Salvatore Argenziano, che descrivono e sottolineano non già solo l'accaduto, ma la velata apprensione dell'accadibile che coinvolgono esistenzialmente la sfera affettiva di ogni genere di lettore, fuori del tempo, fuori del luogo, fuori della realtà, perché coinvolgono il dilemma eterno dell'uomo, animale sempre ossessionato dai dualismi male-bene, amore-odio che allignano soprattutto nei conflitti bellici, specie quello descritto appunto dall'Argenziano.
Ma, forse senza saperlo, o semplicemente perché egli vive fuori Torre, le note amare del racconto, le bassezze e lo squallore di una guerra così malapartianamente devastante hanno nociuto soprattutto non già solo sul morale quanto la moralità dei vesuviani; Argenziano, quindi, vedeva preannunciato quello che poi si doveva rivelare quel certo degrado della qualità della vita nella cintura vesuviana, come una cancrena morale mai sanata, ma consolidata dalle leggi spietate del business, dei mass-media-grancassa, dei feroci pseudo modelli sociali propinati indiscriminatamente e gratuitamente anche in un'area sociale che adoperava panacee e toccasana come le icone dei Santi, e gli scongiuri in un unico ibrido rituale.
La nostalgica descrizione dei "Ricordi" si ricuce diritta alle odierne guerre dell'animo umano, tra le stesse mura domestiche, tra lo stesso condominio, tra la stessa città. E' importante leggere lo spaccato descrittivo dell'Argenziano che subdorava già una vaga idea di un probabile 68 il quale, insieme a giuste rivendicazioni, ha causato un distacco troppo netto e repentino tra due generazioni favorendo, come dire, manodopera per i gestori dei mutamenti epocali in fatto di edonismo, consumismo, europeizzazione fino alla globalizzazione; mutamenti che saranno pure coerenti e consoni alle esigenze tecnico-scientifiche e demografiche attuali ma che hanno compromesso fino all'osso i tradizionali valori, i rapporti generazionali in un clima di totale incomprensione, confusione e disadattabilità con i modelli sociali.
La seconda fatica di Salvatore Argenziano è il "vocabolario torrese-italiano", un'opera meritoria che solo un torrese irriducibile come lui poteva stendere. Egli compie una minuziosa ricerca per i termini più reconditi. Un recupero di parole ed espressioni che vanno perdendosi nei meandri del tempo. Proprio perché egli, lontano dalla terra natia, quindi meno contaminato dai malesseri endemici della specifica area vesuviana, poteva progettare e stendere con generosità, senza riserve e quant'altro di negativo per Torre del Greco. Chiaramente si spera nella collaborazione di tutti perché questo lavoro possa crescere, poiché molti termini precipui, di stretta settorialità vengono tramandati solo verbalmente.
Ribadisco quello che ho detto in apertura: "il caso Argenziano" sia antesignano per le vere iniziative culturali per Torre, fuori dai masi chiusi della cultura locale; lontano dagli individualismi dottrinari e dai feticisti della raccolta storica di notizie e foto, materiale spesso finito nelle pattumiere dopo le inevitabili dipartite a cui è predestinato ognuno di noi.
Non dimentichiamo le parole del saggio: "il dolore può bastare a noi stessi, ma per vivere veramente una gioia bisogna condividerla con gli altri".
Luigi Mari
Da Introduzione Argenziano



...La poesia di Ciccio Raimondo ha forza nella voce caustica del "trasgressivo a tutti i costi", in una dimensione e un parallelo, come dire, pre-evolutivo; un messaggio, perciò, anche candido, quasi una religiosità nella fisiologia erotica, che rasenta talvolta una sorta di venerazione deistico-verginale della donna, un eterno femminino comunque emendato nei suoi canoni classici, una sublimazione del fisiologico, ma devastato immediatamente o contemporaneamente, spesso per ingerenze dalla stessa donna, o della donna rivale nel ruolo di suocera, per subito rimanerne ammaliati, per poi odiare, amare ed odiare ancora.
Una voce, in questi versi, che ha la pregnanza dell'autentico e la spontanea icasticità dello scatto linguistico se pur costruito sul vernacolo partenopeo ortodosso, speculare e modellato, però, sull'idioma torrese che, pur non graficamente presente, verrà comunque colto dai corallini, che ne sentiranno la musicalità, il ritmo.
Il vivianesco, il russiano, fino al digiacomiano soccombono, però, come parametri soliti, non già per l'originalità dell'autobiografismo evidente, ma per la profonda e complessa tematica psicosessuale di stampo partenopeo tipica degli anni 60, che il Raimondo sembra solo sfiorare, con tocchi ironici lazzi e frizzi, come a voler celare e difendere il lettore alleggerendo questa problematica che comunque si evince. Esorcizzare con la nostra capacità di sdrammatizzare, noi, vesuviani, che se dobbiamo dire: "Mi fai piangere" diciamo "Mi fai ridere sotto gli occhi".
Uno spaccato dei sentimenti, dei pregiudizi, dei timori, degli egoismi e degli egotismi, fuori etica, fino ad un mercanteggiamento della materia corpo come fonte di benessere, come investimento di potere e di successo, come strumento di plagio e di sopraffazione, come arma di tattiche meschine; comunque la violenza psicologica dell'uomo contro l'uomo. Ciò evidenziato in un contesto geografico con un reddito (sperequato) superiore alla media nazionale.
E sono certo che persino all'autore, infondo, possa sorgere il dubbio di quali siano le vittime e quali i carnefici, se ci sono, o se sono da ritenere tali, vista questa penosa instabilità epocale, tra screzi, ripicche, tradimenti, immaturità, e folleggiamenti delineati nei personaggi descritti.          
Luigi Mari
Da: Poesie di Ciccio Raimondo"

...(si era nell'immediato dopoguerra), ed entrambi, quindicenni, parallelamente, ci preparavamo a soggiacere sotto un avvenire ostico, intricato, spinoso che si dipanava da disarmonie domestiche, tristi retaggi di molte famiglie d'allora, spesso schiacciate nei risvolti di un mantice che ancora insufflava quotidianamente fame ed inedia. Disagi e disequilibri alimentati dal disagio esistenziale della consapevolezza della finibilità specie allora, superstiti, reduci e convalescenti dell'inedia, dell'umiliazione, dello squallore in cui cade lo spirito durante i conflitti bellici lunghi e devastanti. 
Snaturalezze, separazioni, odi e rancori oppure annchilimento mistico, rassegnazione, abbandono di se.
Dietro tale architettura di eventi, intrecciati in un disegno di esistenza ora allucinante, ora onirico, soave e dolcissimo, nell'impeto e l'irruenza di esorcizzare malori e fantasmi insidiatesi in infanzia, giovinezza e maturità aspre e virulente, anche se non prive di gioie...
Luigi Mari
Da Personaggi "Gaetano Della Gatta"
 

Peppe D'Urzo è un autore prolifico e singolare. Le sue ricerche sono incredibilmente analitiche, di introvabile valore didattico. I lavori che vengon fuori sono "ritratti" dove non sfugge nemmeno il particolare più minuto. Non solo.                      
Mentre una foto ritrae tutto ciò che è visibile, presente, Peppe allarga ad estuario il suo pensiero ora sulla località, adesso sul personaggio, sempre nel tepore della memoria, in maniera tale da rendere inevitabile quel sapore poetico presente in tutte le reminiscenze. La Torre del Greco di Peppe è Durzo stesso! Come diceva di se Marotta: "la Napoli che racconto sono io, perché solo di me so qualcosa, se lo so".    
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Gli scritti di Peppe D'Urzo non ostentano analisi scelta, egli non adopera schiccherature mestieranti, dialettiche accattivanti per soggiogare e intimidire il lettore, sacrificando la notizia, il contenuto. Il testo, di primo acchito, va appena oltre la dimensione dell'annotazione, della cronaca, della storiografia lineare, ma la prosa è certamente straordinariamente ancorata al tessuto connettivo dei precordi, delle intense emozioni di un umanistico, fidente, franco passato, quello dei nostri nonni, lontani dai covoni bancari, dal pragmatismo e dall'asetticità.
I suoi racconti, dunque, i suoi "graffiti", le sue interviste celate e mimetizzate nel componimento aperto e spontaneo fuggono a tutti i costi l'artificiosità, ma scatenano l'emozione come le vecchie lettere degli emigranti intrise di quintessenze.
Un secondo aspetto, non meno prezioso, che quasi passa inosservato perché scontato persino per l'autore, è quello mimetico dei dialoghi, apparentemente inesistenti; ma soprattutto emerge la certosina fatica glottologica che spesso si estende sino alla filologia, poiché la terminologia torrese antica vastissima e spesso sconosciuta, perché vetusta, è ricercata minuziosamente non solo nell'etimologia, ma nella storicità della coniatura. Quasi un richiamo alla sperimentazione gaddo-pasoliniana del dopoguerra. Testi, quelli del D'Urzo, che, apparentemente lineari e illetterati nel senso artistico, (comunque privi di artificiosità di mestiere, con buona pace di Croce o di Flora) , si rivelano uno studio storico-aneddotico introvabile in tutti i suoi predecessori torresi.
Se si affonda nel substrato, intanto, si raccoglie, comunque, anche una prosa dove contenuti e forma sfiorano, sforano e ritornano in un candore narrativo, per così dire lirico, ispirato, ideale, fantasioso, anche se a tratti tremendamente crudo di realtà materiale e biologica, con eventi anche tragici: lutti, angosce, fusi immediatamente prima e dopo con esultanze, letizie, atti d'amore. Ma come in ogni assimilazione letteraria molto dipende anche dalla soggettività del lettore, dal suo gusto, dalla sua preparazione culturale, dalla sua condizione emotiva, sociale, anagrafica infine.
E sono, senza dubbio, proprio atti d'amore dedicati alla sua cara Torre del Greco che Peppe d'Urzo compie, quasi religiosamente, nell'emozione più intensa e recondita, ogni volta che mette penna su carta. Ed egli ama Torre ogni ora, ogni giorno, da sempre; da quando, pargolo, d'estate, sentiva il tepore del nostro sole generoso sotto i plantari sullo scoglio francese, con le nari narcotizzate dagli aromi delle pietanze materne traboccanti d'amore e di benevolenza.
Solo un grande amore per le proprie mura, per la propria gente, giustifica la fatica immane che compie da anni, instancabile, insaziabile di storie e di fatti, di eventi e tradizioni.
Grazie, Peppe D'Urzo, grazie di amare così tanto la nostra città. Ti voglio bene. Spesso, quando ti leggo, mi fai quasi "ridere sotto gli occhi...".

Luigi Mari
Da Personaggi e località D'Urzo

Basilio Liverino quella mattina era solo l'uomo Basilio, un pezzo di Torre vecchia maniera, un crostone del Campanile di S. Croce, un basalto vulcanico tiepido dei marciapiedi delle antiche strade torresi dove sedevamo spensierati e scapigliati mezzo secolo fa, col tepore che sentivamo sotto le  della Scala, con i corpicini d'infante rinfrescati immediatamente dopo nelle estenuanti nuotate sotto il sole allo zenit o con i "cazzabbocchi" della "Carmenella", il pioniere dei trans, per poi sdraiarci sulle candide lenzuola delle nostre magioni-giardino di Torre antica. 
Sapevo che egli, nei suoi precordi custodiva l'altro tesoro: la sua terra, la sua gente, la sua infanzia, l'odore 
della salsedine sulla scarpetta vulcanica a Portosalvo, le semmolelle con le alici salate alle prime luci dell'alba, i panzarotti e le arachidi tostate di "mmiez''a Torre", il profumo dell'incenso nelle veglie natalizie di Santa Croce, l'odore intenso, narcotizzante, del corallo nelle ceste ai piedi del suo letto.
Quel rosso carminio più costoso dell'oro,  si scioglie come plasma nelle sue vene di poeta del corallo, di vigoroso  vesuviano, per alimentare il suo geniale ciclo vitale, per nutrire il suo cuore celatamente generoso di napoletano vecchia maniera, come lava ignea mai solidificata, come il sangue di S. Gennaro nella sua teca che alimenta speranza, futuro, forza vitale.Basilio Liverino è la personificazione del corallo, è il corallo stesso. Ai nostri tempi i bambini nascevano dal cavolo, dalla zucca, Basilio è nato dalla fauna marina.
Chissà se è venuto alla luce nei fondali di Sciacca, negli oceani o, forse, la sua cara mamma raccolse il suo rametto fetale nelle scogliere della Scala perché, staccatosi dai banchi coralliferi, è venuto ad adagiarsi nel nostro dolce, caro mare vesuviano, quello della nostra magnifica, gloriosa, martoriata terra torrese risorta sempre come Araba fenice.
Luigi Mari
Da Corallarte "Basilio, l'uomo"

...Eppure, cari giovani torresi, siete migliori di noi anta, credete, meno scaltri, più sinceri, meno cattivi, ma molto, molto, molto più confusi ed indifesi. Noi anta siamo feroci nei giudizi: quando la tigre ammazza l'uomo la chiamiamo "ferocia", quando l'uomo ammazza la tigre lo chiamiamo "sport".
Un affermato artista torrese ha detto: "Non posso entrare nel sito di Mari, ci sono anche artisti umili, terra terra"; un altro: "...e che mi metto nel sito dove stanno pure gli zingari?" cioè i meno abbienti, coloro i quali la civiltà e la libertà di pensiero danno una sia pur flebile voce, perché ancora impera il raccapricciante detto torrese " 'e denare so' 'a voce 'e ll'omme!".
O si fa riferimento ad artisti umili, non "protocollati" dai masi chiusi di certa intellighentzia, senza nome e legami clientelari. (Fatti il nome e piscia a letto, diranno che hai sudato).
Che squallore! Che solitudine! ...E, retorica permettendo, molto spesso dimentichiamo, come diceva Aulo Cellio, che la nostra vita è un attimo, il resto o lo abbiamo già vissuto o non sappiamo se lo vivremo; e dimentichiamo pure che, "dopo morti, puzziamo tutti allo stesso modo". 
Per questo vi amo, cari giovani, perché a molti di voi almeno la cattiveria, l'egoismo e l'egotismo non vi sfiorano, siete fuori dai baronati anche se siete tutti uguali, portate una sorta di divisa interiore, non vi vedete mai bene sulle foto perché i vecchi volponi detentori del potere soffocare in voi l'autostima, sono gelosi della vostra intelligenza, della vostra cultura e della vostra giovinezza, infine.
Per questo, forse, tutti tornate tardi la notte, vi destate tardi il giorno dopo, parlate alla stessa maniera, trasgredite alla stessa maniera, amate alla stessa maniera, addirittura, talvolta, morite alla stessa maniera. SEMBRA SIATE STATI PROCREATI DALLA STESSA MADRE E DALLO STESSO PADRE!!!, cari, meravigliosi giovani contemporanei, grazie di esistere. E' grazie a voi che i "vecchi lupi consolidati" non divorano tutto e tutti come i pirana e si dannano nella chimera del potere, nel terrore dei essere detronizzati dal vostro futuro...
Luigi Mari
Da "Considerazioni"

...L'unico modo di non esser fratello a Torre è quello d'esser parente, non già perché non si ami il proprio sangue, ma perché il fratello uterino si ama da morto prima che da vivo. Infatti questa maniera d'esser fratello, che è la meno ortodossa, fa sì che il fratello, morto in vita, nasca non appena è sottoterra. Non ho mai visto amare un fratello vivo, nella mia città, come l'ho visto fare con uno morto. La gioia, la felicità, la lealtà che gli si nega da vivo gli si dà da morto. Veder amare un vivo a Torre è una cosa disgustosa. Se si suol dire "i figli si baciano nel sonno"si può anche dire, a Torre, i fratelli si baciano da morti. Si spenderanno centinaia di migliaia di lire per il proprio cadavere, fiori, e avvisi di lutto enormi; si verseranno mare di lagrime, ci si tormenterà allo spasimo, si impazzirà dal dolore, là quando non s'aveva mai speso un soldo, per il vivo, mai tormentati e mai impazziti. E' uno spettacolo commovente e angoscioso, tanto che vale la pena di non esser fratello, e l'unico modo per non esser fratello, a Torre, e quello d'essere figli alla stessa madre, da vivi; figli di Dio da morti...
Luigi Mari
Da Giornalismo anni 70 "Fratello Torrese"

...E' grazie a mammà che la gioventù torrese, sin dalla Creazione è la più bella del mondo. Che non si provi il Signore Dio, con tutto il rispetto, a ficcare il naso nelle famiglie torresi e pretendere che la sanità, il valore e soprattutto la bellezza dei giovani, che sono soprattutto figli, sia anche merito suo. Che il Signore, a Torre, ancora con tutto il rispetto, si interessi dei propri figli che son tanti sparsi in tutto il mondo, perché i figli di Dio torresi sono prima figli di mammà. Ma se il Signore dovesse proprio insistere che fare i figli belli sia anche o, addirittura, solo merito suo, allora le mamme torresi finiranno con l'indispettirsi. E non si lagnino i ministri di Dio se le mamme torresi finiscono con il non andare spesso in chiesa e col pregare di meno, dicendo che il Signore da un po' di tempo a questa parte va in giro dicendo che i giovani sono suoi figli più dei vecchi, e che di figli vecchi non ha di che farsene, dal momento che gli «attempati» sono solo «servi» di Dio. E provati a toccare un figlio a Torre, e guarda cosa ti capita. Già, che un figlio è figlio fino alla morte. Perché solo dopo la morte gli si da il permesso di vivere dove vuole e come vuole. E non c'è da stupirsi, a Torre, se è il maschio a dire «torno da mammà». Ché se si prova una femmina di tornare a casa materna viene presa a calci nel sedere; ché se si prova una femmina a battere in ritirata gli vien rotta la testa e gli vien detto che non sarà mai una mamma degna del propri figli (filgli maschi, s'intende) perché essere madre dì femmine, a Torre, è la cosa più inutile di questo mondo...
Luigi Mari
Da Giornalismo anni 70 
"Gioventù torrese, ah che beata!"

...Spulciamo ora le note caratteriali dei miei torresi e dei cittadini di molti centri vesuviani economicamente affermati, nonché di quella Napoli commerciale che ha origine dai mercanteggiamenti lazzaronici e via via coi traffici anglo-americani fino alla moderna borghesia del business partenopeo vigente. Noi vesuviani, sin d'allora, anche per un'atavica scarsa dimestichezza con la grammatica, abbiamo appreso trasversalmente quella ideologia frammista di venerazione deistica ed eterno femminino; forse il concetto rientra emendato nel nostro ordine di idee; soggiaciamo a mezza strada tra la passionalità deisticoverginale e quella femminomatriarcale. La donna, nel napoletano, è da temere, da venerare e da punire. I ruoli sono: vergineo da bimba (guai ai pedofili nelle carceri napoletane); oggettuale-sessuale da giovane, dietro la copertura sentimentale; possessivo-assolutistico da sposa; diabolico da suocera. Il ruolo di madre, invece, conserva la sacralità deistica. Ma l'essenza sta nel ruolo, e non nel soggetto, perché la stessa donna che sostiene i ruoli di madre e di suocera contemporaneamente viene osservata da due ottiche contrapposte come il dualismo bene-male.
In pratica tutto il meridione è sottoposto a questi canoni istintuali, ma più a sud si va, più è intenso e connaturato il sentimento di essenza deistico-verginale della donna, che prevale sugli altri ruoli...
Luigi Mari
da "Narrando sotto il Vesuvio"

I quartieri popolari con vecchie architetture spagnole, porte e portelle, terrazze e balaustre, vasetti di garofani e rose. Il cuore del proletariato torrese pre-post bellico. Il pidocchietto con Mammella nei  miraggi hollioodiani con i vari Ehston, Reves, Scott, Matur,  Baker, Weissmüller; il sentore acre e soffuso delle fatiscenze,  carnacotta e fichi d'india, Feola l'Acquaiola, in una Torre del Greco agro-dolce di un folklore ed una cultura proletari quasi autarchici, a tratti fuori dalla storia, pur se dipanati da canoni ancora imbevuti di viceregno e, talvolta, di logiche lazzaroniche;  una Torre del Greco, tuttavia,  incancrenita da eruzioni, dopoguerre, e suggestioni mistiche, in un contesto epocale lirico, destinato a soggiacere per estinguersi sotto le sgherre pressioni di una involuzione etica, un edonismo devastante, un pragmatismo ed un meccanicismo fuori d'ogni misura d'uomo.                      
Luigi Mari
Da Opere "Gradoni e canali"

Discorrere d'amore, oggi, in maniera declamatoria e fiorita, dietro l'inevitabile apparenza messianica, risulta quanto meno frusto e retorico, per non dire anacronistico. Non posso dire, retoricamente, che ormai l'uomo è incapace di beneficiare delle virtù e dei valori di un tempo. Non citerò la rancida massima: "Il migliore affare è quello di comprare gli uomini per quello che valgono e venderli per quello che credono di valere".
Intanto pure un bimbo di terza elementare sa che l'equilibrio del consorzio umano rivacilla dopo corsi e ricorsi epocali perché sono venuti a mancare non già i valori etico-religiosi in sé, ma i sostegni psichici che pure tra follie di masse e battaglie cruente suggerivano al singolo la scelta di una presenza terrena intellettivo-istintuale ora atarassica, per dirla con il tanto partenopeo Epicuro, ora apotropaica, atta a scongiurare il negativo esistenziale relativo all'interrogativo primario, inconscio, dell'uomo di carattere salvifico post-mortale.
Al cospetto delle centinaia di foto antiche di questo sito ci sembrerà di inspirare la fragranza di quintessenze orientali, per dirla ancora in chiave retorica, dove compare qua e là un ciuffo d'erba, qualche viale alberato, un brolo nei dedali, un verziere sullo sfondo di un androne.
Le strade palcoscenico si tramutano oggi in giungla urbana; gli interni, sottomessi alle coercitive leggi di mercato; l'abbigliamento soggiogato dalle convenzioni di un mercato pilotato da diaboliche strategie di marketing. Torre del Greco, come tutte le città moderne, affoga nel concetto di benessere, concretizzato pure da pressioni snobistiche, da smanie di sopraffazione. Le vecchie foto sono una testimonianza inconfutabile rispetto alla rappresentazione alfabetica di uno scrittore che, se pur in buona fede, soggiace sotto lo spirito campanilistico, alterando certi aspetti, purgandone altri fino a mascherare certe lordure.
Ma non basta; i contrasti interdomestici tra due generazioni conviventi, dovuti ad un mutamento troppo rapido di ideologie e un crescendo di sovvertimenti politico-sociali hanno causato persino nelle nostre famiglie di stampo patriarcale vere e proprie idiosincrasie nei rapporti di gomito. A queste crisi ha contribuito non poco un certo lassismo dei genitori, l'ingerenza protettiva materna che offusca la figura del padre dietro ciechi cromosomici desideri di riscatto di stampo femminista.
Ma dove sono finite le filastrocche risuonanti lungo le contrade barrocciabili, dove qualche nonno, assiso su una pietra miliare farfugliava al nipote: "Cicci bacco 'ncopp''a votta, chi 'o tira e chi 'o votta, chi 'o votta 'nda cantina, Cicci bacco beve 'o vino"?
Dov'è finito il vociare logorroico, nelle due piazzette torresi, delle sode e belle massaie, ignare dell'ossessione di scippi od estorsioni o del fantasma interno dell'anoressia. E il gesticolare delle ragazze, chissà perché, sempre copiose di forme, nel mercanteggiare quelle derrate che alimentavano in modo genuino la loro opulenza fuori dal bisogno di cibarie sintetiche o composti di laboratorio da assumere per via parenterale.
Mi urge uno stralcio retorico: sono andati per sempre i baci delle fanciulle, che svaporavano la fragranza della clorofilla. Erano i tempi dei baci ad occhi chiusi (oggi si dice come stupidi), per lasciare involare l'immaginazione: due colombi cabravano sui crinali dei monti, indi veleggiavano indomiti, poi andavano a posarsi leggeri sui prati intrisi di guazza primaverile nelle ville vesuviane alle falde del Vesuvio, onde poter compiere, nei campi elisi, un atto d' amore, giammai contaminati da glaciali introspezioni post-freudiane, frigidizzanti e svirilizzanti.
Ma il benessere non è salute mentale, cioè amore. Il concetto dell'amore assoluto e puro si riduce in una sola parola: Dio. Non ho detto cristianità, buddismo, islamismo, ecc. queste sono dottrine, veicoli per condurre a Dio che prevedono Dio-amore=immortalità. Demonio-male=assenza salvifica, quindi è un amore che deriva spesso dal timore di soffrire. Dio non è ciò. Dio è amore e basta, dentro e fuori di noi. Sempre.
Basta con l'analisi scelta, benvengano dialetti, solecismi, anacoluti, evviva Gadda e Pasolini. Necessitano le nostre origini. Rinominiamo i nostri figli. Basta con i Patty, Genny, Paul ed Omar. Concludo con una bella immagine di Luciano De Crescenzo: Gli uomini sono angeli con una sola ala, non possono volare che abbracciati".
Luigi Mari
Da: "Torre antica come messaggio d'Amore"

...Qualcosa che va al di là della suggestione o dell'ubbia. Un recupero fisico vero, reale e non realistico, vivo e palpitante, come è vera l'inesistenza di un confine tra la realtà e la fantasia anche quando si parla di amore. Realtà e fantasia si fondono nel vero e nel metaforico e attingono i lontani puerili candori e le purezze, oggi sotto il giogo di nostalgiche reminiscenze, prigionieri di svigorimento ed inabilità per l'inevitabile dissoluzione di benessere e letizia, destinati a sparire con la lucida, scientifica, devastante consapevolezza del finire delle cose; e soprattutto del nostro inevitabile finire.
Quindi un messaggio di recupero della materia utile ed attuale, che coinvolge e sottintende, però, il recupero più nobile e sublime della psiche, della felicità come salute mentale, come infinibilità dell'amore.
Amalia Vernacchia per certi aspetti ha realizzato in oggetti l'assunto del famoso romanzo di Oscar Wild: "Il ritratto di Dorian Gray". L'eterno dilemma della finibilità che può non finire se lo vogliamo?...
Luigi Mari
Da Artisti "Amalia Vernacchia"

Una sorta di autodifesa senza note caustiche, priva di toni polemici non sarebbe tale; non sarebbe democrazia. Non trovando altro appiglio certa intellighentzia, insomma gli addetti ai lavori, criticano la grafica elementare e variopinta di questo sito, (perché dei contenuti si guardano bene dal parlarne). 
Certo, la nostra è una società di facciata, di conformismo, ma in Torreomnia la pagnotta non c'entra; prevale sostenere la libertà, almeno lo sforzo di farlo.
I criticoni, ossessionati dalla loro incapacità di costruire contenuti, sono conformisti fradici e sostenitori del luk attuale, portabandiera dell'immagine impeccabile e conforme: poi non sanno aprir bocca. Per loro creare significa somigliare. Succubi della filosofia pappagallesca rivolta solo ad intimidire e prevaricare con una sorta di nuovo insignificante latinorum, penalizzando infine, tra l'altro, i poco iniziati che impiegheranno anni prima di imparate a scovare i link mirmicolanti da microscopio presenti in quei rebus a cui somigliano certe pagine web più quotate.
E' lo scotto delle dottrine acquisite, delle nozioni da esoterismo mestierante, della seriosità e della pseudo professionalità. Diceva Galilei: La differenza che passa tra il filosofo e il laureato in filiosofia è quella che intercorre tra l'artista che crea il proprio quadro e il pittore che lo copia.
Luigi Mari
Da "Considerazioni" in questo sito

 

Vecchio giornalismo torrese 1, anni 60

 
 

Le prime sconfitte del perbenismo e dei pregiudizi della Torre del Greco iriducibilmente provinciale degli anni 60

SEGUONO IN QUESTA PAGINE
TRE ARTICOLI DI LUIGI MARI DICIOTTENNE ESTRAPOLATI
DAI GIORNALI TORRESI
"L'INFINITO" E "IL PENZATORE"
ANNI
70

PREMESSA

Negli anni settanta con Franco Penza, ventenni e col fuoco del vesuvio diritto sotto al culo, pubblicavamo ora "Il penzatore", ora "l'Infinito", piccole testate con una caratteristica rara, quella di non essere "legate" a nessuno. Pur nati a Torre, i nostri cognomi Penza e Mari, dimostrano l'assenza di legami torresi di casta o affiliazioni politiche o d'altro genere. Eravamo scalzi liberi e scapigliati e pieni d'entusiasmo, illusi di poter donchisciottescamente mutare l'animo dei volponi detentori del potere. Questo ci consentiva di gustare la libertà, anche perché eravamo molto giovani, senza famiglie a carico... insomma abbiamo vissuto a pieno la libertà. A me costò la preclusione del progresso della mia bottega artigiana di tipografo, che è rimasta tale, anche per mia scelta.
Quello che mi fa male, però, è che negli articoli dell'epoca, che ripropongo qui, non fu interpretata l'arguzia, l'ironia, la satira, insomma la maschera che celava un grande desiderio di mutare le brutture caratteriali locali ed epocali in genere, anche se i testi sono un po' generalizzanti e gonfiati, iperbolici, ampollosi per un fatto estetico, con uno stile volutamente logorroico, ripetitivo, ambiguo, ma come fatto d'arte. Se ne vedeva solo e nient'altro che denigrazione, anticampanilismo. Nulla del grande amore per la nostra città e per i nostri torresi che ci scoppiava nel cuore. Nulla del tentativo disperato, costruttivo, di scuotere, sensibilizzare, con la satira e con l'iperbole, negatività stagnanti.
Ebbene, oggi io e Franco abbiamo i capelli canuti, qualche dente guasto, gli acciacchi di prammatica, ma lo stesso spirito dentro, che di tanto in tanto esplode dai precordi e ci invoglia alle rimpatriate. La letteratura pregna di sdolcinature, incensature ed ipocrisie è zavorra e scivolerà sui problemi o sui guasti caratteriali di un popolo senza mai aprire non già ampi orizzonti, ma neppure piccoli spiragli di luce.
Riporto una lettera di protesta di un pittore torrese, peraltro anonimo giusto per rendere l'idea del clima che si era creato con questa stampa veramente desueta per Torre del Greco.
Una curiosità: Il giornale veniva scritto da me e Penza e qualche incosciente di collaboratore. Non ho mai capito perché nessuno voleva collaborare...
A chi si prepara a queste letture dirò che, al di là delle apparenze, ho un grande rispetto per i veri artisti, per la famiglia come istituzione, per la donna in generale, (ne ho 5 a casa) anche quando è suocera, specie se anziana. Non bisogna prendere mai alla lettera la trasfigurazione artistica che è arte, satira, anche se spesso caustica e iperbolica. Siamo sempre negli anni 70.
Da premettere che l'articolo Terreno miracoloso, che riporto, aveva come sottotitolo: 
"Ai veri artisti torresi che stimo è rispetto".

UN TERRENO
MIRACOLOSO


Esimio Direttore, scrivo a proposito dell'articolo "Terreno Miracoloso" ironico e paradossale. Confesso che mi piange il cuore vedere un compaesano denigrare in tal modo. Vorrei sapere dallo articolista qual'è il fine dei suoi giochetti di parole, che talvolta sono accuse profonde e, direi, campate in aria. D'altra parte Torre è una cittadina che vanta tradizioni artistiche secolari, come può uno scrittorucolo nato ieri azzardare tanto, mettendo in ridicolo i sofferti sentimenti degli artisti torresi, i quali, si può dire, vivono solo per l'arte?                                      Un artista torrese

Visto che il direttore non c'entra, rispondo io direttamente. Dal momento che a Torre ci sono grossi nomi della pittura, sbandierati sempre a destra e a manca, non posso fare a meno di pensare che l'artista in oggetto, è uno dei tanti raggiunto dal bersaglio. E' lui che così fa di tutt'erba un fascio. So bene che Torre del Greco ha vantato e vanta artisti seri, non solo nel campo della pittura.. Comunque denigrare significa: calunniare, vituperare, infamare. Ho denigrato i pittori?. La mia polemica, se tale è, è rivolta più al profilo psicologico di alcuni pittori, perché non sono un critico d'arte.
Non ho nulla contro i miei compaesani, li amo, solo non mi piace vederne soffrire alcuni, annaspando nel vuoto, ipocritamente, per raggiungere il successo, a parte, s'intende, i veri artisti. Io non denigro: denuncio una realtà, purtroppo, sconcertante, sotto una vena ironica ma sincera, Come si può essere artisti tutti insieme e tutti uno più bravo dell'altro. Oh, ci prendiamo per fessi? Ma si crederà davvero che l'arte si impara sui banchi di scuola o che davvero il terreno di Torre sia miracoloso?
Chi può contestare che il dipingere, visto sotto la vera luce, a Torre, è un modo per mettersi in vista? Non solo i torresi hanno il maledetto bisogno del successo che compenserebbe le proprie carenze psichiche. Altrove lo si fa con altri mezzi, a Torre con quello nobile dell'arte.
Sono accuse violente, è vero; lei si è risentito perché è parte in causa, i veri artisti non hanno scritto al nostro giornale. Ma, creda, non sono osservazioni campate in aria. Bisogna prendere solo un po' di consapevolezza almeno si risparmiano le delusioni. In quanto ai sentimenti sofferti, è vero che un artista deve soffrire estremamente perché nasca un capolavoro, (pathos creativo), che non è la stessa cosa del soffrire perché si dipinge e si espone e non si ha mai successo.
Amico mio, bandiamo l'ironia e diciamo il vero! L'arte va a braccetto con i tempi, con il progresso. L'arte è soprattutto cultura. D'altra parte, non mi si venga a dire che chi oggi espone idee dell'800, valide allora, ma sorpassate se ripetute oggi, sia artista. L'arte va a braccetto con i tempi. Nessuno, oggi, scrive con lo stile trecentesco di Dante Alighieri, ad esempio.
Il guaio è che la verità fa male, ma sono stato costretto. Bisogna convincersi che essere pittori in questo senso è l'ultimo modo per essere artisti. Se poi per ragioni di salute non si può fare a meno di questo stramaledetto successo, si metta da parte la pittura e si vada con i tempi. Cantiamo, torresi. Cantiamo allo stesso modo di come dipingiamo. Perlomeno il successo è assicurato. 1971                                                     Luigi Mari

E QUESTO E' L'ARTICOLO INCRIMINATO:
TERRENO MIRACOLOSO
(Ai veri artisti torresi che stimo e rispetto)

Mai in vita mia avevo fatto una scoperta così sensazionale, mai avevo svelato, con immensa gioia, qualcosa che per me ha avuto più importanza della scoperta del fuoco e dell'amore dentro di se. Mai, nel definire un dato di fatto, sebbene importantissimo, mi ero sentito così felice da rasentare uno stato di ebbrezza. Sebbene qualche amico mi avesse accennato la cosa, in passato, non ero mai riuscito nemmeno ad accettarla come attendibile. Ora, invece, voglio gridarlo ai quattro venti da questo foglio: il terreno di Torre del Greco è miracoloso!
So che è superfluo sottolineare che per terreno miracoloso intendo terreno benedetto. Anche se qualcuno in un primo momento ha pensato a quel terreno ricco cascame di corallo, che nel dopoguerra fu la risorsa di tanti disperatoni. E' superfluo, lo so, dire che terreno miracoloso non sta per terreno ricco o fertile, sebbene, tra l'altro, sia anche tale. Tornato a Torre, dopo anni di peregrinazioni, non sapevo spiegarmi come mai un mio amico, morto di cancro, guarì da tutte le malattie morali non appena fu messo sotto terra. Il terreno di Torre, naturalmente.
A questo punto, poiché tutti, avranno modo di costatarne i benefici, so bene che presto verrà gente da tutto il mondo per tuffarsi nel nostro terreno, guazzarre in esso, per scoprirsi artisti, poeti, attori. Naturalmente, è merito del terreno se in questa città c'e una media di artisti del 99 per cento. E' merito del terreno di Torre che infonde sensibilità artistica, forza creatrice al neonato. Sei tonnellate di tele all'anno, 32 tonnellate di colori ad olio ed acquarello, 54 tonnellate di materiale vario occorrono agli artisti torresi per il fabbisogno interiore. L'80 per cento del materiale della media nazionale assorbito solo da Torre del Greco.
Un vero primato. Ah, terreno miracoloso! Mai in vita mia, con immensa gioia, avevo scoperto tanti valori nella mia cara città. Oggi che l'arte tradizionale muore per far luogo a nuove tematiche, Torre del Greco, grazie al suo terreno, tiene alto il vessillo della vera arte. Ma cosa importa se i torresi hanno sbagliato epoca per mettersi a fare gli artisti. E' meraviglioso vedere uomini, donne, bambini, malati dipingere. Qualcuno dice che anche i morti, di notte, si levano dalla tomba e fanno un viaggio in Spagna, a Venezia o a Londra per dipingere.
E' tanto bello vedere l'intera città creare tremila, cinquemila, diecimila capolavori al giorno. E' meraviglioso che tutti i torresi, per merito dell'influenza benefica del loro terreno, siano artisti. Mai, come adesso, ho capito che l'arte non è influenza di massa; non è un veicolo come un altro per compensare tutte le proprie debolezze, quindi per essere tra i più in vista, ma un vero dono di... terreno. 

Mai, come adesso, ho capito che l'arte a Torre del Greco è arte con la A maiuscola. Ed io posso dirlo, perché sono l'unico torrese che non sappia dipingere. Dapprima me n'ero fatto un complesso, poi venni a conoscenza che dove sono nato non c'è un granellino di terreno buono... Naturalmente, il nostro preziosissimo terreno non serve solo per gli artisti pittori.
Oltre che poeti, storici, etc., a Torre abbiamo, sempre grazie al terreno, gli scrittori più bravi del mondo. La loro forza espressiva è, direi, raccapricciante. Senza voler accennare i temi. Essi, a differenza dei temi trattati da tutti gli altri scrittori del mondo, non sono maledettamente soggettivi o addirittura personali, o di parte, ma di interesse generale e trattano problemi veri e profondi atti a migliorare le sorti dell'umanità non solo, ma soprattutto della comunità torrese. E senza accennare alla forma e al contenuto. Essi hanno un'abilità eccezionale nello scrivere milioni di parole in una sola volta. A differenza di altri che sarebbero definiti grafomani, scrivono sì tanto, ma in modo così conciso, ma talmente forbito che riescono con milioni di parole ad avere la capacità di dire tanto poco che qualche maligno e tentato di dire : non dicono nulla. E' chiaro che questa è un'abilità unica al mondo, alimentata logicamente dal magico terreno torrese.
E gli scrittori a Torre sono i migliori anche perché sono così pochi, (in linea generale sono tutti pittori). Tuttavia, nonostante ciò, nelle feste religiose, quando il terreno è più miracoloso che mai, riescono a scrivere tanto che, non avendo più dove farlo, serivono per terra, sui muri, sui propri vestiti. Anche essi, come i pittori, s'alzano di notte per andare a scrivere in qualche luogo recondito. E' bello vivere solo di spirito.
Naturalmente, a Torre, traboccante di scrittori e pittori, non mancano gli attori. Non voglio dire che i torresi sono tutti attori, anzi; però si recita, si recita tanto. Oggi si recita in tutto il mondo. L'uomo moderno, più che mai, è un discreto attore, ma il torrese, grazie al terreno, recita più di tutti. Le compagnie filodrammatiche nella nostra città sono mumerosissime. A Torre si calcano più tavole di palcoscenico che basalti della strada, tanto che ai miei occhi, ogni cantone di via, ogni piazza, ogni casa, ogni ufficio è un boccascena, attraverso il quale vedo recitare il più delle volte con una greve maschera. Non voglio dire che altrove non ci siano attori abbondanti come nella nostra città, tutto il mondo e un grosso teatro, ma gli attori torresi sono i migliori, grazie al terreno.
Mai in vita mia avevo fatto una scoperta così sensazionale. Mai avevo saputo di appartenere ad un popolo così importante. E sebbene, senza falsa modestia, non sia né pittore, né scrittore, né attore, sono orgoglioso di essere cittadino torrese, sono orgoglioso di vivere in una città, dove la fiamma dell'arte affratella tutti. E questa è la cosa più commovente. Ogni artista vanta le opere dei compaesani, tanto meno le critica o le disprezza. Il torrese non è geloso del collega, non fa pettegolezzi, perché fa arte vera e l'arte predispone alla nobiltà d'animo, all'altruismo, alla bontà. Ogni artista talvolta disprezza le proprie tele o le proprie stesure, o le proprie rappresentazioni, calpesta il suo operato quando con immensa gioia vede l'opera di un suo conterraneo. 1970                                            Luigi Mari

FRATELLO TORRESE!
(da Il Penzatore) 1972

Per dare foga ai due articoli che seguono  mi sforzai di scriverli con lo stile malapartiano, non solo, ma accentuai la tecnica con quello ancora più regionale, toscaneggiante con cui lo scrittore stese "Maledetti toscani". Il risultato mi entusiasmò.

Apparentemente si può avere l'impressione che il torrese sia "fratello"perché molto religioso. Non perché sia bigotto il torrese è fratello, che è un modo molto puro d'essere amico. Non già perché il bigottismo esclude ogni forma di fratellanza, ma appunto perché il torrese, religioso genuino, è soprattutto fratello grazie alla maniera sfacciata di non esser bigotto. Ed è molto difficile essere fratelli in questo senso, oggi che di religiosi puri ve ne sono ben pochi, quindi pochi fratelli ma tutti amici. Ed è inutile che il maligno ci sussurri che l'amicizia non esiste, che essa è solo complicità. Non che il torrese sia migliore o peggiore degli altri popoli, ma è sostanzialmente diverso per il modo drastico di esser fratello, pur non essendo amico (intendo amicizia anni '70). E il fratello, se deve dare dà, senza indugio, sopra tutto quando è ricco. E anche i servitori, mi si scusi il termine, anche i servitori del ricco o potente torrese sono per niente amici ma fratelli. Fratelli minori, naturalmente e meno religiosi, perché meno si è fratelli e meno si puo stare a posto con la coscienza, ed è normale.
Anche i poveri a Torre, a differenza degli altri poveri, sono fratelli, non già perché siano poveri religiosi, scusate: religiosi poveri, ma perché danno la possibilità ai fratelli maggiori d'essere tali, perché appunto se non ci fossero i minori, i maggiori sarebbero fratelli e basta. Anche questi ultimi fratelli a Torre sono i migliori, sono i preti, non i sacerdoti, sia ben chiaro. Essi sono fratelli e basta, perché sono rimasti padri, ed hanno tutti figli minori. I minori sono una categoria speciale. Se hanno bisogno d'aiuto, essi si rivolgono ora al padre, ora al fratello maggiore, ma se le cose non vanno bene, imprecano il Nonno che se ne sta buono buono e non si fa mai vedere, ma che fratelli, figli e padri amano e rispettano e spesso venerano.
Non perché il torrese sia peggiore o migliore degli altri, ma è terribilmente fratello in tutte le sue azioni, anche rubando, quando capita. Anche il ladro a Torre è fratello, non soltanto perché è generoso o di buon cuore, ma perché non è bigotto e soprattutto è molto religioso, infatti, trova sempre qualche santo che lo tolga dai guai.
E i santi a Torre sono un po' come i fratelli maggiori, non altro che per quel modo così appassionato di non essere bigotti. Anche le donne torresi, più che madri e spose sono irresistibilmente fratelli, ma, a differenza degli uomini, sono un po' bigotte, per questo sono anche un po' amiche. Seguire la moda con discrezione, con sobrietà, senza invidia o antagonismo di sorta è un modo nobile d'esser fratello, per una donna.
Ma ciò che più rende fratelli le donne a Torre è il pudore, che è un modo molto torrese d'essere donna, ll pudore delle donne torresi è inconfondibile: io riconoscerei una mia compaesana a New York, tra un mare di gente, attraverso il pudore, nel modo garbato e attento con cui si copre nello sguardo timido e sottomesso in quell'espressione acqua e sapone che la caratterizza.
Poi, grazie alle donne il maschio a Torre è più fratello che mai, fratello di latte, magari. La categoria neutra è quella delle suocere. Il presente e il futuro della città è nelle loro mani. Esse non sono differenti dalle altre suocere del mondo, ma sono particolarmente suocere per il modo testardo di non voler essere fratello. Ma pur non essendo amiche sono terribilmente bigotte, tanto che se cade 'I'orre, la reggono le suocere. Chissà che non la reggono già da adesso...
Un altro modo d'esser fratello a 'I'orre è quello nobile di ammettere i propri torti senza battere ciglio, porgendo l'altra guancia. Quale modo meraviglioso d'esser fratello! Anche perché, per fortuna, il fatto di dire "pane al vino..." e... "vino al pane..." è un modo tipico d'essere amico e non fratello, grazie al Signore.
C'e ancora una maniera d'esser fratello che è quella sciocca, inconsueta di stimarsi e di amarsi. Non che questo sia un modo o l'altro d'esser torrese, ma è certo un modo molto d'uso d'essere amico, pur non essendo bigotto. Ora bisognerebbe fare il punto sulla parola fratello che spesso è confusa con la parola caino. Ma tutto è chiaro quando si parla del fratello torrese, il quale, non essendo caino, è soprattutto fratello, perché religioso. Fratello inteso in senso cristiano che è molto di più del fratello, inteso in senso umano, il quale se fa una buona azione, la fa con materialismo, magari donando i propri beni. Il fratello cristiano certo materialismo lo lascia dov'è ed elargisce solo il proprio spirito, il proprio credo e soprattutto le meravigliose promesse.
In fondo anch'io, come torrese, sono un fratello, il quale tirando le somme, è un cittadino del mondo; un fratello io come altri, crogiolato non solo nel sentimento campanilistico ma nell'angosciosa gioia d'essere cosciente di sapersi fratello.
Non c'è modo più banale d'esser fratello che quello d'esser sincero, molto più che 1'esser mendace che è la maniera giusta d'essere amico. Ma l'esser sincero, il più delle volte e un po' come l'essere pauroso; e meno male che avere paura e il modo più tipico d'esser bigotto, come non e il torrese, grazie a Dio.
L'unico modo di non esser fratello a Torre è quello d'esser parente, non già perché non si ami il proprio sangue, ma perché il fratello uterino si ama da morto prima che da vivo. Infatti questa maniera d'esser fratello, che è la meno ortodossa, fa sì che il fratello, morto in vita, nasca non appena è sottoterra. Non ho mai visto amare un fratello vivo, nella mia città, come l'ho visto fare con uno morto. La gioia, la felicità, la lealtà che gli si nega da vivo gli si dà da morto. Veder amare un vivo a Torre è una cosa disgustosa. Se si suol dire "i figli si baciano nel sonno"si può anche dire, a Torre, i fratelli si baciano da morti. Si spenderanno centinaia di migliaia di lire per il proprio cadavere, fiori, e avvisi di lutto enormi; si verseranno mare di lagrime, ci si tormenterà allo spasimo, si impazzirà dal dolore, là quando non s'aveva mai speso un soldo, per il vivo, mai tormentati e mai impazziti. E' uno spettacolo commovente e angoscioso, tanto che vale la pena di non esser fratello, e l'unico modo per non esser fratello, a Torre, e quello d'essere figli alla stessa madre, da vivi; figli di Dio da morti.
1972                                                    Luigi Mari

Vecchio Giornalismo torrese 2, anni 60

 

SEGUONO  IN  QUESTA  PAGINA
ALTRI  TRE  ARTICOLI DI LUIGI MARI DICIOTTENNE
ESTRAPOLATI  DA
"L'INFINITO" E "IL PENZATORE"
ANNI
70

Per dare foga ai due articoli che seguono  mi sforzai di scriverli con lo stile malapartiano, non solo, ma accentuai la tecnica con quello ancora più regionale, toscaneggiante con cui lo scrittore stese "Maledetti toscani". Il risultato mi entusiasmò.

GIOVENTU' TORRESE
AH, CHE BEATA!

Una gioventù, quella torrese, la quale, più che perduta è non già bruciata, ma, come dire, ha preso fumo. E non si pensi, per carità, a giudicare dal "fumo", che il giovane, a Torre, non sia caratterizzato dallo slancio, dall'impetuosità, dall'ardore propri della giovinezza. Non si creda, per amor di Dio, che il torrese, a differenza degli altri giovani contemporanei, non abbia la fierezza di sentirsi figlio. Ché sentirsi figlio, oggi, sia la cosa più imbarazzante del mondo, è cosa vecchia. Ché il problema numero uno dei giovani sia la mania di apparire adulti, più che maturi (prerogativa quest'ultima ostentata dai grandi) è risaputo.
E sentirsi figlio, a Torre, più che sentirsi adulto, significa assumere le vesti di padre, che è un modo molto moderno di essere giovane. Ed è per questo che mai s'è sentito dire che un giovane, uno solo, nella nostra città, sia figlio di papà. Non perché i papà manchino, ma perché i figli, prima che di papà sono di mammà. Al che il maligno non ci venga a dire che l'autorità materna, a Torre, sia un matriarcato.
E cosa ne sarebbe allora del genitore maschio se la madre autorizzasse e il figlio comandasse? E ci scusino gli stranieri se noi torresi teniamo tanto alle nostre cose, specie ai figli, che sono la cosa più nostra del mondo. E se quello scioccone di Freud ci viene a dire che ciò è solo avidità di possesso materno, ci spieghi pure come mai, rispetto al figlio, il marito valga così poco pur essendo una cosa propria?
Ah, quello scioccone di Freud, - borbotta il maligno - che crede di aver risolto i problemi della psiche di tutti. Che venga a Torre, che venga a capire le donne torresi, insieme alle madri, e alle madri delle madri. E mi pigli un colpo se al manicomio non va a finire lui e tutti gli adepti della sua scuola!
Che il giovane, a Torre, abbia un grande valore perché, oltre ad essere figlio solo alla madre, e solo nipote alla nonna, e cosa da antidiluviani. Ed è noto a tutti che le prime clave furono inventate dalle donne torresi, all'età della pietra, per mettere fuori uso la testa dei mariti. Come è pure molto noto che la testa dei mariti funziona sempre al comando della moglie, specie, appunto, quando è fuori uso. ll maschio, a Torre, da giovane, ha un grande valore, si direbbe valga il doppio, appunto perché, una volta sposato, non varrà più nulla. Ed il maligno non dica che sarà solo uno strumento portapane.
E ché, non sapevate che un neonato maschio, a Torre, vale il doppio? Se si crede che abbia voluto dire che il figlio, trattandosi di «peso», lo si vada a comprare, il maligno, che non vuole tacere, non ci venga a dire che, in fondo, è come se lo si andasse a rubare, dal momento che se il maschio resta sparisce l'uomo.
E non a caso si dice, a Torre, che: «E' la donna che fa l'uomo», che e un po' la stessa cosa di dire: '«E' la ragazza che fa il giovane». E ciò, credete, non significa che la ragazza in un certo senso lo concepisca, ma che gli da, sempre in un certo senso, una seconda vita. Noi conosciamo bene la fama che godono i giovani torresi nel mondo come conquistatori per ciò che concerne l'amore.
Noi sappiamo bene che le ragazze, invece, hanno lo sguardo fulminante; che conquistano con gli occhi, se per conquistare s'intende quel modo di accalappiare fatto di moine, e mi guardo bene dal dire: adescatrici. Cio che non mi è chiaro è che, ad accalappiata conclusa (confetti compresi) e i cani non c'entrano qui, non si sa bene se il conquistatore sia li maschio o la femmina.
Perché quando si parla di matrimonio, nella nostra città, bisogna parlare di maschio e femrnina, quasi come per garanzia. Perché, specie in questo caso, l'uomo e la donna non c'entrano proprio.
E mai nessun torrese giovane è stato messo al bando perché non abbia consumato. Certi problemi, grazie a Dio, non ci sfiorano neppure. A noi maschi, s'intende. Perché come fai, caro il mio grullo, a capire se la ragazza, al posto di consumare, non ti consumi soltanto. Ed è fortuna della donna, figlia del demonio, di poterti ingannare perfino con la verità, che sarebbe l'amore.
Ma alle donne torresi, per carità, mai è passato per la testa di ingannare i maschi. Si guardano bene le donne torresi non già dal mettere, ma dall'essere messe al bando che non è la stessa cosa dell'esser messe incinte. Ché se metti al bando un uomo è cosa da nulla ma provati a mettere al bando una donna, vedi che ti succede. E il giovane, a Torre, grazie al Signore, peli sulla lingua non ne ha, forse perché non ha nemmeno le caccole nel naso che non è la stessa cosa di avere la cacca nei pantaloni, prerogativa che, guarda caso, più che dei piccoli, a Torre, è talvolta dei grandi, per non dire dei grossi.
Ed è per questo che i giovani, ancora grazie al cielo, e non alla cacca dei grandi, hanno tutti il complesso. L'insieme strumentale, s'intende. Perché il torrese appunto, animo sensibile, e non ipersensibile, quando si tratta di complessi va per la maggiore.
E ché, non sapevate che i complessi dei torresi sono i piu grossi del mondo?
Non sapevate che un complesso, a Torre, a differenza dei complessi di Roma, di Parigi o di Londra, vale per lo meno il doppio, proprio come i componenti di esso, che sono maschi due volte, questa volta non già grazie al cielo, ne alle nuvole, ma a mammà.
E ditemi se v'è mai capitato di vedere una donna, a Torre, con un complesso, come contrariamente capita di vedere altrove. Ditemi se vi è mai capitato di vedere una ragazza che ragioni con la propria testa e non con quella della madre, per non dire della nonna. E la ragione per cui le ragazze torresi di complessi non ne voglion sentire è perché è loro costume lasciare i complessi ai maschi, prima e dopo il divenire suocere, sebbene il maligno, (più maligno che mai) ci dice che la donna, a Torre, è suocera ancor prima di nascere.
Ah, l'amore, l'amore l'amore, quante cose può fare l'amore, diceva Luigi Tenco, senza sapere, naturalmente che l'amore a Torre, può far tutto. Se parli dei giovani, nella nostra città, non ti succede niente. Ma provati a parlar dei figli. Certamente metti il dito sulla piaga. Che, più che mettere il dito tra moglie e marito, è un mettere il dito soltanto. E non c'è modo più torrese di parlare dei figli che quello di mettere il dito sulla piaga soltanto. E sono proprio i figli, in questo caso, che tengono alto il vessillo dell'integrità del vincolo, non già da giovani o da piccoli, ma da prima di esistere.
E mai s'è sentito dire che, grazie ai figli, un tetto, uno solo sia stato abbandonato, a Torre; né mezzo tetto, né una sola tegola. E chi ci viene a dire che il tetto del torrese, in fondo, sia il cielo, io dirò che si tratta d'un tetto coniugale, il quale, più d'una «campata in aria» è non già un vivere in Paradiso, ma all'inferno, sebbene il maligno ci venga a dire che sia una "campata" e basta. Con ciò non si vuole affatto dire che il matrimonio del torrese sia un inferno, ma che certe cose, dalla donna torrese, religiosa genuina, sono viste giustamente da un profilo peccaminoso, per cui è inevitabile il finire tra le gambe del diavolo, che è un modo molto torrese di sentenziare i peccati.
E non è mia intenzione lasciar intendere che la gioventù, più che perduta o bruciata ha preso fumo per il motivo che, i giovani, più che sentirsi figli si sentono servi, dal momento che ogni rapporto affettivo diretto non sembra altro che un contratto di compravendita. E non sapevate che tra i giovani, a Torre, non ci sono ne servi né padroni? E che nemmeno i servi di Dio si chiaman cosi? Ché noi torresi giovani il Signore lo consideriamo amico e non padrone, ché quando ci va di chiamarlo lo chiamiamo per nome. E i bigotti o i bacchettoni, che sono i maggiori servi (e non s'è capito mai bene se di Dio o dei preti e non sacerdoti che è tutt'altra cosa), tentano di imitare noi giovani, se tentano di chiamare il Signore per nome, si guardino bene della sua ira, che non si placa con i «mea culpa» o con le preghiere «riparatrici» del lunedì. E se il Signore ci permette che lo chiamiamo per nome è perché sa che siamo dei poveri innocenti, che gli scontiamo peccati non commessi, che tra le gambe del diavolo i giovani, a Torre, ci stanno da vivi prima che da morti. E il maligno ci lasci in pace, volendo dire che le gambe del diavolo hanno con le gonnelle di mammà e della nonna qualcosa di pressoché analogo.
E la gioventù, a Torre, non ha preso fumo perché il «diavolo», già dalla nascita, gli ha preso l'anima (non ho detto la personalità), quella è riservata a mammà.. E se si è tentati di dire che per lo stesso motivo i nostri giovani prima di contrarre matrimonio vengono pesati, trattandosi di valere il doppio, io dirò che per la stessa ragione gli stessi giovani alla fine "prendono la bilancia dalla parte del grosso". Ma non per lo stesso motivo, a Torre, i giovani sono tutti uguali, che non è certo la stessa cosa di essere tutti uguali essendo vecchi. E se non si discrimina, specie tra gli adolescenti, il merito non è certo dei vecchi, i quali dettano ai figli non già vecchiaia, ma vecchiezza, che è un modo molto moderno di educare.
E son cose che succedono solo a Torre, che mentre stai a parlare dei giovani ti capita di parlar dei vecchi, che della gioventù vogliono fare cosa propria. E non è il caso di stupirsi di trovare giovani che non parlan da vecchi, ma che sembran vecchi essi stessi. E come suona male da noi il detto: "La gioventù, viene una volta e non torna più".
Si sa che, a Torre, la giovinezza, prima che dopo i quarant'anni, viene dopo i sessant'anni. Ah, la gioventù torrese che l'amore non lo ha ereditato dal genitori o dagli educatori, ma l'ha trovato per terra! E non dite che non sapevate che cercare l'amore per strada sia un modo molto idoneo d'esser moderni. Ché non è la stessa cosa di trovare l'amore in famiglia, che oggi e un po' come, non già cercarla per i vicoli ma l'esser portato per essi. E chi confonde l'amore col piacere si guardi bene dal non confondere l'amore con la felicità, che sono due cose ben distinte dagli adulti, ma non per noi giovani, che sono la stessa cosa, quando per amore s'intende la salute mentale e per la felicità la conquista di essa.
E non sapevate che cercare l'amore per la strada sia un modo molto fortunato d'esser giovani, oggi? Ché si dice di giovani che cerchino l'amore nei circoli chiusi, che il maligno chiama circoli viziosi. Ma il torrese, (che i circoli viziosi li crea solo grazie alle matriarche) lo cerca sotto il sole, per la strada, in piena luce. E il vedere i giovani torresi cercare l'amore per strada, da parte dei bacchettoni ed affini, è non già il considerare estirpati complessi e tabù, ma solo il vederli cercare l'amore sotto la luce, ma una luce artificiale.
E non ci venga a dire il maligno, che i giovani cercano l'amore fuor di casa non potendolo trovare dentro, perché sarebbe come lanciare la calunnia che i giovani torresi soffrano di incomunicabilità, che non già il figlio non sopporti lo sguardo del padre, ma il padre quello del figlio
 Ed il problema è certo grosso quando si parla dei torresi, che, grazie alle madri e alle suocere, non si sa mai chi sia il padre, chi il figlio; e forse anche grazie al cielo, perché non dimentichiamolo, la mamma, a Torre, è non già sempre la mamma, ma «l'angelo della casa». E provati a cambiare idea ad un giovane, a Torre, e per il sesso, e per la politica, e per l'arte. Ché se vuoi cambiar la testa a noi torresi fai prima a tagliarla, che non è la stessa cosa di tagliar la testa al toro, perché risolvere un problema, a Torre, è cosa seria. E se tagliar la testa al toro resta difficile quanto tagliar la testa soltanto si finisce, a Torre, giovani e vecchi, col tagliare soltanto.
Ché tagliare o forbiciare, si sa, è gran pregio di noi torresi, che non già tagliamo il nemico, ma l'amico, dove c'è più gusto a tagliare. E provati a girare il capo, a Torre, e provati, mentre sei con i più cari amici, a girare un attimo le spalle. E vedi se non torni a casa con i fondelli rotti.
E non sapevate che i torresi sono gli unici giovani al mondo che sappian distinguere la civiltà dal progresso, naturalmente fino a che non entra in ballo la donna del cuore. Ché se prima la civiltà e il progresso erano dignità e comfort, dopo sposati la civiltà è prendere per i fondelli il prossimo, il progresso è prenderli per il sedere. Il che non è la stessa cosa, dal momento che donna del cuore, civiltà e progresso non vanno mai bene insieme.
Ma sebbene talvolta abbia dato l'impressione di parlar male del miei colleghi (e non vi stupite se, specie a Torre l'essere concittadini sia una professione, perché i rapporti hanno sempre un che di affare) mi preme dire che la gioventù, nella nostra città, è composta da un pugno di gran bravi ragazzi. E quando si dice bravi ragazzi non s'intenda dei fessi, che è un modo d'intender la brava gente molto in voga oggi. Ma guai se venite a rompere le uova nel paniere ai bravi ragazzi. Con le uova rotte vi romperanno i rapporti per sempre. E non c'è legge che possa punire chi rompa il paniere a chi gli vada a rompere le uova.
E ché, non si sapeva che il giovane; a Torre, quando rompe, rompe fino in fondo? Non si sapeva che il giovane, a Torre, paga i peccati e li fa pure pagare? Che non gl'importa se il nemico sia principe, papa o padreterno? E di padreterni, a Torre, credetemi, ce n'è tanti, ma per fortuna non ce n'è di giovani. Per fare il padreterno terreno bisogna esser sposato, e per dirla col maligno, si deve non valere più nulla. E non vi capiti, per carità, d'esser nemico d'un giovane, illudendovi che sia la stessa cosa d'esser nemico d'un vecchio, che è il modo più adatto di far la guerra con «i botti a muro», di cui, certi «nemici», fanno prima o poi la fine.
E se i giovani, grazie ai non giovani, (che dire vecchi li offenderebbe) sono caratterizzati dall'ardore di agire, ma oppressi dalla vecchiezza trasmessa. Il motivo non è da ricercarsi nel fatto che essi, più che figli di papà, o figli di mammà, sono nipoti alla nonna.
Che la gioventù torrese sia bella, è cosa vecchia; che tutti i giovani, a Torre, maschi e femmine siano i più belli del mondo è cosa che risale a quando il creatore, così, a caso, al posto di sgranocchiare noccioline o fare parole incrociate, si mise a creare il torrese. Ma non lo creò bello, anzi lo fece grinzoso, piccolo, rachitico ignorante
 E' grazie a mammà che la gioventu torrese, sin dalla Creazione è la più bella del mondo. Che non si provi il Signore, con tutto il rispetto, a ficcare il naso nelle famiglie torresi e pretendere che la sanità, il valore e soprattutto la bellezza dei giovani, che sono soprattutto figli, sia anche merito suo.
Che il Signore, a Torre, ancora con tutto il rispetto, si interessi dei propri figli che son tanti sparsi in tutto il mondo, perché i figli di Dio torresi sono prima figli di mammà.

Ma se il Signore dovesse proprio insistere che fare i figli belli sia solo merito suo allora le mamme finiranno con l'indispettirsi. E non si lagnino i ministri di Dio se le mamme finiscono con il non andare spesso in chiesa e col pregare di meno, dicendo che il Signore da un po' di tempo a questa parte va in giro dicendo che i giovani sono suoi figli più dei vecchi e che di figli vecchi non ha di che farsene, dal momento che gli «attempati» sono solo «servi» di Dio. E provati a toccare un figlio a Torre, e guarda cosa ti capita. Già, che un figlio è figlio fino alla morte. Perché solo dopo la morte gli si da il permesso di vivere dove vuole. E non c'è da stupirsi, a Torre, se è il maschio che dice «torno da mammà». Ché se si prova una femmina di tornare a casa viene presa a calci nel sedere; ché se si prova una femmina a battere in ritirata gli vien rotta la testa e gli vien detto che non sarà mai una mamma degna del propri figli (flgli maschi, s'intende) perché essere madre dì femmine, a Torre, è la cosa più inutile di questo mondo.
Un'altra grossa qualità dei giovani torresi è quella d'esser molto religiosi, e lo dimostra il fatto che teniamo molto ai nostri preti, i preti giovani, s'intende. E non lasciamo che a questi si faccia alcuno scherzo. Né che lo scherzo lo facciano a noi gli altri preti, i non giovani. Ché fare scherzi da prete, a Torre, si sa è da suocera. E quando si parla di suocere, a Torre, sulla piaga più che mettere i dito è come affondare la mano intera. E siccome, generalmente la mano si mette sul fuoco, il maligno è tentato di dire che, dal momento che nessuno ha il coraggio di mettercevela, a parte Scevola, gran parte dell'ardore dei giovani l'abbiano accaparrato le suocere, le quali, più che nonne, sono le madri delle madri (il che è sostanzialmente diverso). E la colpa d'altronde non la si può attribuire a nessuno se questo fuoco, non essendo spento, dalle suocere esca continuamente dalla bocca, dal naso, dalle orecchie a mo' di dinosauro.
A chi mi dirà come mai in un argomento dei giovani si parli tutt'altro che di essi, mi giustifica il fatto che, anche grazie alle suocere, la gioventù ha preso fumo, al che quando si parla di giovani più che parlare al muro che riverbera il suono: è un po' come parlare alle suocere, cioè parlare a vuoto.
E Dio solo sa quanto costi oggi un giovane alla famiglia: la realtà che concretizza il rapporto genitore-figlio. E non bastano le beghe: "Tu mi hai fatto e mi mantieni"; "Tu sei il mio e ti mantengo". Che è la sintesi in parole della tragedia-fenomeno della nuova generazione.
Dov'è da ricercarsi la ragione per cui il torrese non sa né piangere né ridere; il torrese giovane, s'intende, perché l'altro, l'adulto, se non ha neppure più gli occhi per piangere, piange sempre con gli occhi degli altri. E mai s'è visto un giovane a Torre ridere con garbo, con gentllezza, nemmeno per questioni galanti. Egli magari sbotta, sghignazza, ride tra i denti, ma non sorride. Né piange con discrezione con l'amore e la passione che accompagnano il pianto, con l'arte del piangere. E' un piangere, quello del giovane a Torre, che più di un risentirsi, è un rimpiangere, che è un po' come piangere due volte. Forse perché un giorno non piangerà più. O non sarà capace di farlo.
E a chi ci viene a dire che il non saper piangere sia una malattia molto grave gli si dirà che il giovane, o Torre, non sa piangere perché gli hanno messo in testa che un vero uomo non piange mai. E che il pianto, più che la stessa femminilità, è l'arma ancora più efficace della lingua, per le donne.
Una gioventù, quella torrese, credete, che, più che perduta o bruciata, ha preso fumo, grazie a mammà, alla nonna e alla moderna società, che è la suocera di tutti.
1971 Luigi Mari


L'ALTRA FACCIA 
DEL POTERE

(Ovvero la versione torrese della livella di Totò)

Facciamo quattro chiacchiere a proposito del terreno inumativo scoperto nelle aiuole della Villa Comunale. Visto che di terreno speciale, a Torre, ve n'è da vendere (non da frodare) c'è poco da dire, forse perché se n'è già dette tante.
La mattina del 14 maggio metà Torre allibiva raccapricciata innanzi al terreno decisamente riconoscibile come appartenuto al cimitero. Le numerose congetture, comunque, non determinavano a quale cimitero appartenesse il materiale, fino al momento in cui alcuni torresi incominciarono a riconoscere i resti dei propri defunti, dalla qualità o importanza, naturalmente.
E così come ogni buon cittadino che si rispetti ciascuno prese a raccogliere il proprio ossicino, chi la tibia, chi un pezzo di femore, chi un'intera scapola. Alcuni li lucidavano, altri erano intenti a rovistare tra i lumini e le croci di latta, tra il cinguettio mattiniero degli uccelli, delle palme, degli abeti che abbelliscono la nostra villa comunale. Così a furia di raccogliere, talvolta con prepotenza, tramite spintoni e mugugnii, alcuni tentavano di ricomporre lo scheletro intero.
Naturalmente ci fu pure chi si mise in testa di recuperare l'intera famiglia degli antenati. Per non parlare dei ragazzi che all'occasione inventarono il gioco dell'osso più bianco. Ma i guai incominciarono quando i relitti non erano solo quelli relativi all'ossario, ma saltavano fuori ossa belle, già lucide, alcune d'un rosso strano quasi a sembrare rami di corallo, quali sono soltanto le ossa dei morti ricchi, quelli privilegiati delle cappelle. I meno abbienti erano anche disposti a tenere i resti dei propri defunti in quella che si poteva definire, la mattina del 14, la succursale del cimitero, ma non era giusto fare tutt'erba un fascio.
Qualcuno incominciò a dire che bisognava farsi le ossa proprie, tal'altri che riuscire nell'intento bisognava farsi le ossa e basta. Quindi alle maggiori accuse di sacrilegio si opponevano le difese. Alcune voci sostenevano che fosse molto probabile che il terreno, con gli anni, si fosse trasportato naturalmente, causa movimenti tellurici in rapporto al Vesuvio; altri dicevano che alcuni ossicini, vergognosi dell'ossario o delle sgangherate nicchie, avessero organizzato un'evasione per poter sgambettare felici davanti alla prospettiva di una vita migliore.
Ma l'accusa giustamente accesa di sdegno che andava per la maggiore era che oggi si arrivi a rubare anche al cimitero. Certo era toccante vedere il pregiato ossicino del. ricco cavaliere divenire un fischietto. Questa è cosa più tragica: alcuni scugnizzi, vedendo alcuni ossicini cosi lucidi, si direbbe nuovi, li forarono ricavando degli autentici fischi. Era commovente vedere il cavaliere non gia essere preso a fischi, da morto, ma divenire fischio egli stesso. Gli ossicini unti e incrostati di terra dei poveri non richiamavano l'attenzione dello scugnizzo. Ma quelli lucidi e nuovi, quelli si.
Non si creda che abbia voluto dire che la ricchezza e la potenza dei vivi prima o poi si riducono nient'altro che un fischio nelle mani di uno scugnizzo. Ecco perché la famiglia del Cavaliere aveva il diritto di protestare. Questi benedetti scugnizzi che non hanno la buona creanza di rispettare non già gli ossicini, ma i fischi dei ricchi, in questo caso.
E succede sempre così, la gloria, il sacrificio, la lotta della grandezza, crolla tutto insieme alle ossa? Dove credete sia andata a finire la gloria della gente bene torrese? Ed il potere e la sopraffazione? Là, nella Villa Comunale, alla mercé degli scugnizzi e dei cani randagi felici di saggiare un pasto, come dire, da signori... Dove credete che vadano a finire la nobiltà, la bellezza? Là, nelle aiuole, in un mucchio di ossa e terra sconsacrata. E chi avrebbe mai detto al cavaliere Tizio o al Commendatore Tale, che domani fosse diventato nient'altro che un fischio nelle mani di uno scugnizzo. Proprio così, la gloria e la potenza finiscono sempre in munnezza, che a Torre talvolta è di casa. I torresi hanno il diritto di gridare: Non toccateci i morti; anche se il maligno, alla fine, la mattina del 14, volle dire la sua: Non date credito a balle, è stato un tentativo per un cimitero di seconda classe, non già per i morti poveracci, ma per quelli destinati all'inferno e non degni di culto.
1971  Luigi Mari

VATTI A FIDARE
DEI POETI...

Bisogna essere canto, luce e bontà,
bisogna aprirsi per intero davanti alla notte nera
perché ci riempiamo di rugiada immortale.
Allora, all'ombra del cuore tarlato
nascerebbe una sorgente d'aurora
tranquilla e materna
e vedremo passare in una nuvola
Dio.

                                     Federico Garçia Lorca

Nel groviglio babelico di idee vedo apparire all'orizzonte l'anima candida di Garçia Lorca, che ci ammonisce con i suoi versi incontaminati. La lotta interiore istinto-ragione, natura-civiltà tentano di indicarci la strada piu naturale, consona alle nostre limitate possibilità.
So bene che ciascun torrese sa che il grande poeta spagnolo scrisse questi versi a Torre, non appena ebbe visitato, a caso, il nostro cimitero. So bene che i torresi non hanno mai dimenticato il monito meraviglioso che dal lontano 1926, quando fu pubblicato su un quotidiano napoletano, non appena Lorca partiva da Torre, e stata l'unica forma d'educazione impartita da genitori, educatori, pedagoghi.
Molti ricordano lo scalpore che suscitarono allora questi versi dedicati ai torresi, allora che la città era presa da una specie di torpore morale, allora che i torresi erano altro che gente-bene, come adesso, grazie a Dio.
Così si pensò subito di praticare i preziosi consigli in ordine di verso: Occorsero dieci anni perché il torrese divenisse canto, che non è soltanto essere puri, magnanimi (che non significa mangiare l'anima) e buoni, ma leggeri, fluidi e trasparenti come l'amore. Perché credete che molte ragazze di Torre siano così innamorabili? Esse sono canto un po' più degli uomini.
Non perché, la donna riesca a «canzonare» l'uomo, ma è canto per la facilità di sapersi librare nell'aria, trasportando con se il materialismo che la circonda. Tutto, a Torre, tramite alcune meravigliose donne, va all'aria, specie il denaro. Non c'e modo più bello per essere puri che quello d'essere canto; ma non bastava, secondo Lorca, per vedere passare in una nuvola Dio, mandare all'aria tutto.
Così il torrese incominciò ad imparare ad essere luce, ma non fu una cosa facile come per il canto. Poi usufruì allo scopo la luce solare. Un sole, quello di Torre che, guarda un po', non spacca le pietre, ma la gente. Un sole che penetra nel capo quasi a spaccarlo perché saltino via in qualcuno brutture e bassezze, per non dire lordure. Così molti torresi riescono ad essere luce, ma solo quando c'e il sole. Non vi passi per la testa, cari stranieri, per carità, di venire a Torre quando i torresi non sono luce; non si sa cosa potrebbe accadervi. In un magnifico giorno d'estate, quando Torre, effettivamente, vista dall'alto, (e non dal piedistallo) è un paradiso, quando il nostro «Miglio» è d'oro più che mai e l'aria è profumata di salsedine mista di ottano e piombo ed una percentuale, sebbene povera, di ossigeno sprigionato dalla vegetazione; quando il sole e lì, basso, quasi a portata di mano e non di portafoglio (come il maligno potrebbe pensare); ebbene, allora il torrese è luce più che mai. Vi scaricherà il suo conto in banca, vi regalerà i suoi immobili e, sebbene ricco e, per così dire, potente, dirà nientedimeno d'essere uguale a voi che siete un povero cristo.
Questo accade sempre quando il torrese è luce, come ordinava il poeta a Torre nel lontano 1926. Voglio dire quando il sole gli batte sulla testa. Non intendo dire affatto che il torrese, predisposto ai colpi di sole, sia luce. Esso lo è soltanto perché fa da satellite alla terra dove poggia i piedi. E non è vero che noi torresi quando facciamo del bene andiamo con i piedi di piombo, non altro perché, spesso, quando si va con i piedi pesanti si rischia che il terreno manchi da sotto. E non vi passi per la testa, per carità, di venire a Torre ed innamorarvi. Non perché avete fatto i conti senza le suocere, che l'amore non lo concepiscono come luce naturale, ma artificiale. L'amore a Torre è proibito farlo alla luce del sole, ma con luce tenue; basta una torcia tascabile. Senza la «pila», non vi passi per la testa di innamorarvi, a Torre, o i conti con le suocere li farete in cifre. La cosa più bianca, diceva Bertoldo, non è il latte ma la luce, e Federico Garçia Lorca intende per luce la mente umana pulita, innocente.
Così, conquistata la luce, si passa ad «aprirsi per intero», che è il modo più nobile di morire. E, a Torre, morire e un po' come un vivere orizzontale. Non voglio dire affatto che molti torresi sembrano morti nell'anima, ma che molti morti sembrano vivi nel corpo; tanto che i morti, spesso, servono più dei vivi, non al morto, che crede di vivere, ma al vivo, che non sa d'essere morto.
Ci si apre così tanto per intero davanti alla morte, a Torre, che è difficile distinguere un cadavere da un vivente, e quando fa politica, e quando si desta, e, addirittura, quando va a votare. «Bisogna aprirsi per intero», così finì il verso, il poeta. Si vuole che in un secondo momento aggiungesse «davanti alla notte nera». Per questo il torrese imparò dapprima ad aprirsi alla libertà, poi alla morte che è un modo di essere libero molto silenzioso.
La conquista della «sorgente d'aurora» fu una conseguenza delle conquiste precedenti, come prediceva il poeta. In quanto al cuore tarlato, il torrese non ha problemi. Innanzi alla paura (del trapano, s'intende) il torrese i denti preferisce cavarli. E non pensi, il maligno, che abbia voluto dire che, spesso, il torrese è senza cuore.
Sempre a proposito della sorgente d'aurora, la città dovette sembrare al Lorca qualcosa di molto penetrabile: madre, fecondità, fertilità. Indubbiamente lo è, non solo perché a Torre si effettuano due raccolte l'anno, ma perché a Torre matura tutto, perfino le malattie. E bisogna guardarsi bene dal venire a Torre, che so, da mezzi scemi o da pecore zoppe. Né vi passi per la testa di andare in giro dopo le nove di sera in inverno; o, peggio, di attendere un mezzo pubblico su un marciapiede. Gli occhi dei torresi vi lanceranno l'anatema: se siete donne, sul marciapiede rischiate di rimanerci. Alle nove di sera il sole non c'è e molti torresi non sono più luce.
Nel cuore dei torresi c'è stata sempre la «sorgente d'aurora» specie quella tranquilla e materna. Una sorgente che è un po' come una risorsa inesauribile. Una pace e una tranquillità simile alla sensazione inconscia del ritorno al grembo materno. E così per merito di Garcia Lorca, molti torresi sono figli alle stesse madri: «nostra madre scuola», «nostra madre chiesa», «nostra madre politica». Non c'è cosa più bella della sorgente d'aurora tranquilla e materna conquistata dai torresi dopo tanti sacrifici. E non c'è da stupirsi se i torresi, spesso, alzano gli occhi al cielo. Ma sono molti anni che lo fanno senza alcun risultato. Avranno sbagliato strada. Tanto impegno per divenire canto, luce e bontà, tanto sacrificio per aprirsi alla notte nera, accoccolati poi sotto l'aurora tranquilla e materna. E Dio? Solo un banco di nuvole color latte crema che s'allontana ad Oriente.
Vatti a fidare dei poeti!
1970                                            Luigi Mari