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Argomento presente: « LETTERATURA CLASSICA »
ID: 6002  Discussione: LETTERATURA CLASSICA

Autore: Mari virna  - Email: info@torreomnia.it  - Scritto o aggiornato: venerdì 15 giugno 2007 Ore: 09:57

Pubblichiamo questi versi in prosa (o prosa in versi) con toccate estetiche di un Marinetti o di un Joyce, ma che sembrano stati scritti a Casarsa o comunque emulanti la pregnanza di "Poesie in forma di rosa" o "Transumar e Organizzar" della sperimentazione gaddo-pasoliniana.

Torre del Greco ancora conserva la modestia e la valentìa insieme.
Non frequentemente, purtroppo, come nel caso di Salvatore Argenziano e Ciro Adrian Ciavolino. Torreomnia ha bisogno di questi animi come l'insulina per il diabetico.

V i a C o m i z i

Esposito Vito, certo t’avviene di passare
qui dove s’ergono
la timorosa chiesa dell’Assunta,
il monastero dell’Addolorata che chiude
San Giuseppe Calasanzio
e la bella Santa Maria di Costantinopoli.
Fossi stato io, un miglior gioco
di prospettive non avrei saputo trovare
in questi luoghi. Pensa
a Francesco di Giorgio Martini.
O a Bernardo Gambarelli detto il Rossellino
che inventò per Papa Piccolomini
quel concerto d’edifici a Pienza,
nel dolce paesaggio della Val d’Orcia.
Come si stanno bene insieme
con quell’arioso liberty della casa all’angolo
e gli archi e le logge; in alto vigila
il chiaro fondale di Santa Croce.
Ho chiuso in un’urna di cristallo
fusa nelle vetrerie della memoria
questi siti. Ma chi ti crede, chi conosce mai
Francesco di Giorgio e Bernardo Rossellino?
Sembra che qualcuno rivolti
il piano orizzontale del mare, dissi,
l’orizzonte da qui vedi come è alto.
Bisogna proprio che rivediamo
teorie di prospettive e proiezioni ortogonali.
Poi convenimmo ch’era la strada ripida
a darci tale ingannevole disegno.
Andiamo dal maestro, si diceva, e De Corsi
era lì, davanti al cavalletto,
sempre più vuoto, quasi non dipingeva più.
Chiedeva spesso di fare una passeggiata.
T’amava ancora. L’abside di Santa Maria
conservava certi antichi grigi di madreperla,
e ciuffi d’erba sorridevano da sempre
da qualche crepa in cima.
Esposito Vito, certo t’avviene di passare
per questi luoghi. Dirai:
avrebbero potuto mettere una lapide
alla casa del maestro,
diede pur buon nome a questo paese
che amava. Ma nessuno se ne ricorda.
Che anno era che morì, il cinquantasei?
C’è un bel sole stamattina
a Via Comizi e un vento leggero
che gonfia la camicetta alla ragazza,
e le indovini un petto acerbo
senza segni di biancheria. Ma ora
questa estate quaggiù ha senso d’ordinario
e noi siamo piccoli venditori di poesia
per clienti indaffarati ad altre cose.
Tu nel cinquantasei dipingevi ancora
accanto a quel balcone sul Vico Vaglio?
Se non m’inganno c’era un letto grande
e tante immagini di santi alle pareti.
Tornando qui dovresti stare attento
per non piangere ricordando certe estati
azzurre e scontrose per quel veleggiare
di persiane di tela alle finestre.
Era allora che dipingevi le tue donne
intente alle domestiche cose, intente,
che so, alla macchina per cucire Singer
o a fare conserve di pomodori?
Era il cinquantasei?
Un giorno non ne potrò più
di queste storie e chiederò
una raccolta di cartoline illustrate
che da qualche parte è custodita.
Anche per riavere agli occhi
questo amato paesaggio che scompare
per mano di chi proprio non sa
di Francesco di Giorgio Martini
e di Bernardo Gambarelli detto il Rossellino;
insieme a quel tempo che terremo
nell’attesa della morte, senza l’inganno
che ne avremmo se oggi ci cogliesse.
Qualcuno ci sarà a mostrarmi carte
di questi nostri anni chissà se bene spesi
nel gioco dell’artista e dell’amore,
carte con le incantate figure dipinte
amate ricordate dimenticate odiate.
Qualcuno dirà: maestro, che anno era
che dipingeste questo quadro, era l’ottantadue?
Allora in fretta si chiuderà la cartellina
piena zeppa di fotografie
da cui si squama già la pelle colorata.
All’angolo dell’occhio fugge la pupilla
per pudore. Forse una lacrima, chissà, insegue.

CIRO ADRIAN CIAVOLINO

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tratto da "La Tofa" n. 32 - 6-6-2007

 
 

ID: 6003  Intervento da: Mari virna  - Email: info@torreomnia.it  - Data: giovedì 14 giugno 2007 Ore: 16:50

MA A TORRE C'ERA PURE CHI DI "PENNA" CAMPAVA
Ora farebbe la fame!

La legge Coppino del 1861 con l'istruzione obbligatoria soppresse pure gli scrivani di Torre del Greco.

L’ALFABETO E IL POPOLO VESUVIANO

Non dimentichiamo che l’alfabeto, al di là delle arti grafiche e della letteratura bene, è stato anche il mezzo diretto per esternare i sentimenti più svariati della sfera emotiva dell’uomo. Nella letteratura mondiale solo negli epistolari si è potuto carpire la natura del vero pathos creativo dei grandi autori; nella corrispondenza l’artista si sventra cedendo alla foggia dialettica e alla smania di trasfigurazione artistica, rinunciando alla mascheratura o sublimazione dei suoi istinti caratteriali. Dagli epistolari si attingono le biografie perché la lettera e il vero miraglio dell’anima.

Quante lettere non abbiamo mai scritto! Noi anta ancora trasognamo il fragore delle ultime carrozzelle sull’asfalto di Via Caracciolo o sui basalti del Miglio d’Oro che lega Torre del Greco a Ercolano. Erano i tempi delle interiezioni, della pargolezza che sapeva ancora di candore da Prima Comunione e non di puerizia pilotata da dottrinarismi clinici che tutto prevengano, tranne la predisposizione all’angoscia prematura.
Evoluzioni socioscientifiche che hanno dato un taglio netto a due epoche. Le carrozze sui basalti non sonavano fragore o dirugginii, ma accordi melici. Reminiscenze romantiche che hanno sentore nostalgico, d’accordo. Ma l’asetticità dei giorni nostri non sa meno d’infermità.

Una terra ferace, quella vesuviana, che fa invidia alla motriglia del Nilo. Due raccolti l’anno. Fertilità del terreno grazie anche all’«ingerenza» delle sostanze eruttive dello sterminator Vesevo, che si è accanito nei secoli a svellere in rovinose devastazioni ora le mirifiche e sontuose ville vesuviane, ora i tuguri fatiscenti relativi alla letteratura verista e neorealista.

Sempre nel quadro della napoletanità i nostri autori a cavallo dei due secoli mettevano 1’accento su di un personaggio ora grottesco, ora romantico, a mezza strada tra il barbassoro e il fattucchiere, che si può definire, senza tema di smentita, una sorta di derivazione dell’amanuense: lo scrivano!

Quando, imberbe, apprendevo i primi rudimenti dell’arte tipografica, rammento con nostalgia un vecchio scrivano che, tra l’altro, ha tanto colorito di lirismo la mia fantasia. Veniva a Torre del Greco, a piedi, naturalmente, dall’allora Resina, e ambulava pacato e monacale puntando frequentemente lo sguardo sulle architetture ora di Villa Favorita, ora dell’Istituto S. Geltrude, fino al Palazzo Vallelonga del Vavitelli, che egli scandagliava lentamente, ponendo sulle costole a manca il viluppo di scartoffie nella cartella di bazzana color porpora. Indi si impancava presso il famoso “Caffè Palumbo” a centellinare una bibita, procacciandosi, intanto, il lavoro tra i passanti.

Lo scrivano ha avuto risonanza storica, anche se aneddotica quando partivano i bastimenti, dove diecine di sensali di carne umana trasferivano oltre oceano migliaia di italiani. Lo scrivano era il loro tramite interiore, il loro poeta, colui che coglieva i sentimenti più vivi e sanguinanti dal cuore delle madri, e forse un po’ vizzi e annacquati dall’animo delle mogli, trasmigrandoli nelle Americhe, immortalati sulla carta spesso olezzante di misteriose quintessenze. Lo scrivano adoperava l’alfabeto come un ponte immenso sull’oceano.

So di ditirambeggiare i miei personaggi, ma opino che il tipografo artigiano quello della bottega degli impresepiati centri storici, sia un po’ lo scrivano delle arti grafiche. Una buona parte del suo lavoro sfrutta l’alfabeto come un macchinismo pro-socializzazione. Il bottegaio tipografo napoletano, chissà fino a quando, sviolina i suoi caratteri nel copositoio, concretizzando sentimenti ed emozioni franche ed inaffettate, ora gaudiose o gongolanti, ora meste o austere.

Tratto "Da Magonza a Torre del Greco" di Luigi Mari


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