ID: 5185 Discussione: UN MARXISTA TUTTO NOSTRO
Autore:
Vito d'Adamo
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Scritto o aggiornato:
martedì 5 dicembre 2006 Ore: 19:27
Cari amici,
il racconto che questa volta propongo potrebbe sembrare uno scritto di propaganda antimarxista; ma, credetemi, è pura cronaca.
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UN MARXISTA TUTTO NOSTRO
Una sera, in Circumvesuviana, fra lavoro e casa, un caro amico ed io, impiegavamo il tempo, discorrendo piacevolmente, quando notammo, dirimpetto a noi, un coetaneo, che dava in smanie alle nostre parole.
Era una sera d’inverno delle più miti e serene, ed egli era equipaggiato come se tornasse da una spedizione antartica o come se credesse di esservi giunto. Aveva una grossa valigia ed alcune riviste, che sfogliava con gesti nervosi.
Finimmo per attaccare discorso. Apprendemmo, così, che era settentrionale e rosso e che odiava il Sud. Parlava con sufficienza irosa, trattandoci da buoni a nulla, convinto che fossimo politicamente inetti. Disse ch’era calato in Vandea, inviato di partito, con il compito di diffondere e rafforzare negli indigeni la fede nel verbo marxista.
Noi lo guardavamo con occhi sbarrati, non credendo alle nostre orecchie: egli si esprimeva duramente sui dirigenti comunisti del Sud. Avrebbe fatto vedere lui come si organizza una cellula, come si lotta, come si pone termine ai privilegi, agli arrivismi, agli inspiegabili e prolungati torpori di certa gente. Criticò, poi, i nostri costumi, il nostro umorismo, i nostri principi religiosi e politici.
Era troppo! Bisognò interessarsi seriamente al settentrionale e farselo amico. Iniziammo, così, a frequentarlo e, nonostante la sua spiccata pronunzia nordica, il suo strabuzzare gli occhi alla vista delle nostre ragazze e certe sue idee sulla civiltà, che albergherebbe solo su territori più o meno perennemente invasi dalle nevi, fummo attratti, fin dai primi sintomi, dal processo di disgelo, che stava avvenendo nel nostro marxista, senza che lui stesso se ne rendesse conto.
Cominciò, infatti, dopo un paio di settimane di sole in pieno febbraio, a riconoscere lati “molto equilibrati” del Sud. Nell’ascoltare le nostre canzoni, poi, dopo alcuni guaiti sul come tutti i mezzi fossero buoni per oppiare il popolo, canzoni comprese, convenne che si trattava in ogni caso di composizioni orecchiabili e ripetibili, anche nell’orribile pronuncia nordica del più nobile vernacolo partenopeo. Era convinto che fossero indice dell’anima, delle sofferenze, delle passioni popolari e ciò in omaggio di precedenti non del tutto ortodossi della politica marxista.
Insomma, le canzoni gli piacquero perché nelle Repubbliche socialiste sovietiche il colore locale era tenuto in considerazione, tanto da provocare l’istituzione di scuole atte a fornire funzionari specializzati in folclore, da adibire alla conservazione del fenomeno.
* * *
Venne la stagione dei bagni e il nostro rosso si trovò a tu per tu con il Tirreno, in un mirabile arco, aperto da Capo Miseno alla Punta della Campanella, intervallato dalle isole di Procida, Ischia e Capri. Per lui fu una scoperta, che gli procurò l’emozione più risarcente che potesse desiderare in fatto di mari italici. Il Tirreno, infatti, gli dette modo di colmare ampiamente il vuoto lasciatogli nell’animo dall’Adriatico, quando dovette rinnegarlo dal momento che bagnava, oltre che l’Italia, anche la repubblica, retta dal social-traditore Tito.
Ed il Vesuvio! Volle sapere tutto sul nostro vulcano. Si fece descrivere come fosse, esporre quanti metri cubi di materia ignea credevamo potesse produrre nel giro di un piano quinquen-nale; ne volle conoscere le misure, le verste che bisognava percorrere per raggiungerne il cratere partendo da varie destinazioni. Ci chiese, infine, se fosse un vulcano attivo nell’economia nazionale. Rispondemmo ch’era attivissimo, anche se per il momento aveva smesso la sua mansione più appariscente.
Gridò che tutto questo era uno schifo, che nelle repubbliche socialiste non sarebbe stato tollerato neppure per un istante. Sapemmo, poi, che in una relazione, inviata ai compagni del Nord, descrisse il Vesuvio come un vulcano alleato dei capitalisti. Coniò, per l’occasione, un termine, equivalente a social-traditore per l’oreografia campana.
Il Vesuvio, tuttavia, gli piaceva sempre più. Volle andarci e ci ritornò più volte. Divenne “scemo” per il Vesuvio (l’espressione è esattamente quella che adoperò), non faceva altro che guardarlo da mattina a sera, notando le sfumature cangianti, i colori, che il vulcano assumeva nei giorni di sole, nei giorni di nuvolo, in quelli di pioggia. Guardava a lungo il Tirreno, Capri, Ischia. Girovagava per Napoli in cerca di vedute, di pini, di finestrelle. Sospirava.
Scoprimmo che era innamorato. Aveva trovato la sua “anima gemella”, era bello e cotto. Si convinse che non era mai vissuto, prima di allora. Divenne il suo intimo assillo aver sprecato i migliori anni della sua vita lontano da queste terre. Era su queste spiagge felici (l’antica Campania Felix, riproponeva e confermava, con la terminologia, le proprie qualità), che bisognava fondare le repubbliche socialiste.
- Questo è il migliore dei mondi possibile! -, affermava a proposito e a sproposito. Raffrontò l’amore di certe attiviste nordiche di sua diretta conoscenza a quello di una borghesina nostrana, col felice ed apprezzabile risultato di scoprirsi uno dei più privilegiati mortali della repubblica terrestre.
Ormai il Sud aveva ancora una volta assolto la sua funzione temperatrice. L’aveva reso umano, smussando tutte le asperità del suo legnoso carattere.
Al nostro amico, roseo ora, non occorreva altro che il colpo di grazia. Questo gli fu dura-mente inferto dagli stessi dirigenti di partito, che con i loro discorsi, con le loro pretese e direttive, lo misero in condizione di dover paragonare il Sud e la gente del Sud con la fredda razionalità dei suoi compagni e delle loro idee.
Un primo ritorno al Nord non produsse solo l’effetto di staccarlo dalle punte più intransi-genti della sua parte politica: il freddo intenso e le noiose giornate di nebbia fecero il resto, insieme con la nostalgia per il clima meridionale, per il suo amore lasciato quaggiù e, volemmo sperare, per l’affetto vivo e squisitamente apolitico dei suoi amici.
Così, col trascorrere del tempo, quello che fu un marxista convinto, fatto d’altra tempra e materia degli altri mortali, finì per acclimatarsi al nostro solare modo di concepire le opere e i giorni.
L'ultima sua andata al Nord fu un disastro, la rottura: i dirigenti gli chiesero conto dell’impiego del suo tempo. Non riuscivano a capacitarsi come mai il nostro non avesse con sé le relazioni, richiestegli sulla situazione della Navalmeccanica, della Bencini, della Cirio. Lo considerarono traditore potenziale e annotarono l’accaduto nei loro archivi.
Il voto rappresentò l’ultimo atto. Ci confidò che aveva votato un partito di sinistra, sì, ma democratico. Gli rispondemmo che con amici come noi non occorreva mentire: aveva votato il suo partito ed aggiungemmo che così doveva fare, poiché quel voto sarebbe stato l’ultimo debito pagato al passato, la conclusione di un periodo e l’inizio di uno nuovo.
Ci abbracciò commosso. Lo eravamo anche noi.
* * *
Giorni dopo ci confidò la sua decisione di trasferirsi definitivamente a Torre del Greco “tra amici”. Aveva preso in affitto un appartamentino verso i Cappuccini e non appena fu possibile, invitò tutti a casa, noi e le nostre ragazze, e festeggiammo a polenta, grana padano e Sangiovese la sua liberazione.
- Mi sono meridionalizzato. Vedete: questa è la mia Terra. Qui è la mia casa.
Sì, era ancora un po’ retorico, nell’esternarsi, ma sincero. Dovette avvertire qualcosa nelle nostre espressioni, tra ironiche ed affettuose:
- Sono rimasugli del passato-, spiegò.
- E che ne pensi del Nord, che hai abbandonato?
- Non recuperabile-, ci rispose, strizzando un occhio.
Vito d’Adamo
TdG – Febbraio 1966
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Buona domenica.
Nonnovito.