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Argomento presente: « IL PROF. CACCIAPUOTI »
ID: 4888  Discussione: IL PROF. CACCIAPUOTI

Autore: Vito d'Adamo  - Email: vda27@online.de  - Scritto o aggiornato: sabato 4 novembre 2006 Ore: 21:31

Il Prof. Cacciapuoti

Ferdinando Cacciapuoti, ordinario di lettere in un ginnasio della provincia, contemplava assorto in un vicolo di Napoli un copioso bucato, steso ad asciugare a vento e a sole; vista che sempre suscitava il suo interesse. Mai, però, prima di allora gli sembrava d’aver considerato quei variopinti panni nella loro giusta visuale o, almeno, in quella che sul momento e per le particolari circostanze, tale gli parve.
Osservava, dunque, quei capi sciorinati, col naso in aria, tanto che alcune gocce gli caddero sul volto; e se lo studiava attentamente, perché quel bucato era mosso dal vento; e, ponendo pensiero con quale vocabolo potesse definire quello sventolio, gli venne in mente il verbo garrire. Ne fu sbigottito. Come: accomunava quegli umilissimi panni a gloriosi vessilli?
L’accostamento irriverente! I fatidici labari romani; i meravigliosi stendardi medioevali, portanti l’arme dei loro signori, vassalli, valvassini, valvassori; l’Orifiamma dei re di Francia, all’ombra della quale qualsiasi gente si fosse condotta, mai sarebbe vinta in battaglia, consegnata dall’Angelo del Signore al romito Sansone e da questi al nipote, il figlio di Costantino imperatore, Fiovo Costanzo, fuggiasco dalla corte paterna per offesa subita e vendicata, e in cerca di ventura; i gonfaloni dei Comuni d’Italia: il giuramento di Pontida, Il Carroccio, Alberto da Giussano, contro Federico Barbarossa, che se la cavò pel rotto della cuffia; e via via: le pletoriche insegne spagnole, sotto il sole intramontabile sui loro possedimenti; la verde bandiera di Allah; le aquile napoleoniche; il tricolore dei nostri padri del Risorgimento, di Vittorio Veneto; le svastiche germaniche; l’Union Jack; le Strips and Stars; le insegne del Sol levante, intessute, si narra, coi capelli delle donne nipponiche e da queste offerte - quale atto d’amore! - ai loro uomini in guerra. Cotanta nobiltà, adunque, a paro d’ignobili panni napoletani?
Pure, il soffiare quieto dell’auretta, contro questi muovendo e gonfiandoli, accomunava nel pensiero del docente caparbiamente il tutto; e non parve al Cacciapuoti che potesse trovare pace finché non avesse scoperto la relazione, che certo doveva intercorrere tra le stoffe lì presenti e quelle da lui intraviste nel corso della rassegna d’epoche passate, appena immaginata.
Dov’era, in che consisteva, dunque, quel denominatore comune? Nei filati, da cui si confezionano usuali capi di vestiario, e dalla quale si tagliano le straordinarie insegne? Nell’azione del vento, che gonfia, però, però le vele, che muove le pale dei mulini? Ma no! Si trattava, forse, di ricondurre tutto al fatto che i panni fossero infilati in una canna secca, taluni; talaltri appesi a una corda plastificata o ad un filo di ferro zincato, posizione più solida e recidiva, tirati per la larghezza del vicolo tra finestre e balconcini dirimpettai, e potevano, così, sembrare bandiere? Bandiere bianche di lenzuola e federe candide: ancora più irriverente l’accostamento ai segni della resa.
No, le garrule bandiere non potevano essere simboli di resa, ma vessilli vittoriosi; certo non biancheria ed altri panni stesi ad asciugare, faccenda molto ordinaria, ma il simbolo d’un ideale alto, sublime, di grave momento; un ideale, insomma. Eppure, appunto, la relazione stava proprio lì: quelle erano bandiere di capitolazione, poiché la guerra non si fa soltanto dalla gente vittoriosa, ma anche e, forse, soprattutto dall’altra, quella sconfitta. L’una, con la vittoria, termina di combattere; l’altra, con la sconfitta, continua la sua guerra. La parte vittoriosa copre di gloria le sue insegne; quella sconfitta se le trascina affannosamente nel fango ed è poi costretta a lavarle e a mettere ad asciugare nella maniera osservata, in attesa di tempi migliori, che probabilmente non verranno mai. L’una, con la vitto-ria, riceve gloria, onori, bottino, e conserva gelosamente le sue insegne in ben congegnati trofei ed erige per sé archi di trionfo: all’altra, battuta, tutto quel che rimane sono sempre le solite bandiere infangate, lacere, rattoppate, sbiadite, lavate e stese ad asciugare amorevolmente, ma in luoghi reconditi, di vista secondaria; in vicoli mimetizzati nell’ordito delle strade cittadine; e, non osando altro, erige i propri archi di trionfo con le stesse, stinte bandiere tra finestre e balconcini opposti e vicini, ché se fossero distanti non ci si potrebbe permettere quel memoriale della disfatta. Sono, quelle bandiere traverse ai vicoli, gli archi di trionfo degli sconfitti ed, insieme, i festoni, tesi a celebrare cumulativamente tutte le trascorse gesta, poiché è atto fondamentale di sopravvivenza festeggiare dai vinti contemporaneamente la propria sconfitta e la vittoria altrui.

In verità, il professore Cacciapuoti aveva per l’addietro sospettato che quei bucati fossero esposti nel cuore dei quartieri più popolosi della città partenopea, con l’evidente scopo di scoraggiare il turismo benpensante, come una sorta di segnalazione, che allontanasse i ricchi dalla visione della miseria, per una sofferta dignità popolana. Ma da quando aveva notato che i turisti erano attratti proprio dall’esposizione di quei panni dai candidi o vivaci colori -oggi lavati con detersivi biologici o meno, che più puliti di così non si può, nelle lavatrici automatiche e non più a mano col buon sapone molle, ambrato o scuro, appannaggio degli artigiani di Secondigliano, e non più passati al filtro d’acqua bol-lente e cenere con infuso di foglie di lauro (ohibò: ecco che scopriva un altro elemento glorioso, il lauro; ma si era costretti a nasconderlo nella cenere!)-, e se li fotografavano, ne parlavano, se ne scambiavano diapositive, visioni e ricordi, quasi sola acquisizione salda e durevole delle loro calate al Sud, promosse dalle potenti organizzazioni del tempo libero, ci rifletté su e concluse che l’Ente per il turismo, le Pro loco, avessero a che fare qualcosa con quei bucati; che sovvenzionassero, insomma, in qualche misura le casalinghe napoletane perché stendessero apposta gli indumenti familiari, lavati di fresco, i loro corredi da sposa, tramandati di madre in figlia, a volte comperati in fretta per un matrimonio impellente; alle altre e ancora più frequentemente acquistati a rate dopo il matrimonio, secondo i canoni della più stretta necessità. Tanto, che molte volte:
-Me la sposo anche con la sola camicia addosso!-, gridava l’impaziente fidanzato, esacerbato dalle lungaggini frapposte dalla famiglia della ragazza; lungaggini di natura economica, ma che si volevano far passare per altro e ben più eccelso genere. Il fidanzato era portato piano piano, sapientemente e finalmente a quel grido disperato e decisivo da tutto un clan, coalizzato a tal fine, in risposta del quale lo si prendeva immediatamente in parola.
Pensava, insomma, che i prefati Enti assegnassero alle suddette popolane un piccolo contributo, magari un buono per l’acquisto di un paio di scarpette per il più piccolo della casa, che ne aveva sempre immediato bisogno. La contropartita era che esponessero in pubblico i loro bucati e li rendessero, così, attrattiva, meta di pellegrinaggio, di safari fotografico da parte dei turisti, in cerca di colore locale e di facili motivi di scandalo. Non era, ad onore del vero, mai giunto a pensare che i panni occorrenti a tale bisogna fossero forniti, nel tipo ministeriale, dai summenzionati uffici.
Quale incentivo alla fantasia dei giovani! Bastava che questi levassero gli occhi in uno qualsiasi di quei vicoli: la biancheria intima delle ragazze, esposta al salace commento corale! C’era, per la verità, anche quella delle loro madri, delle nonne e di qualche zia nubile per antico amore perduto e mai più sostituito. Ma ciò conciliava ed esaltava i paragoni. Cacciapuoti, sempre pronto per studi e professione al ricorso d’esempi classici, scorgeva in ciò l’equivalente alle passeggiate delle donne anticoromane, le quali usavano esaltare la loro avvenenza con civetterie d’ogni genere, cosmetici, monili e minituniche trasparenti, accompagnandosi a vecchie laide sdentate sciancate, nane e fanciulle sgraziate; e i buoni romani cascavano tramortiti.
A mirare quella biancheria, mossa dall’aria, non v’era amante che non si lasciasse andare ad immagini lascive ed eccitanti, previsioni accese di onesti piaceri coniugali e futuri, oppure mano onesti, ma più immediati. E che scenate di gelosia, quante parole amare d’innamorati! Il tutto incorniciato dal pungente sottofondo del commento in vernacolo; il quale non è soltanto sarcasmo, ma sottintende tante altre cose; e gli scugnizzi in ciò hanno sprazzi e voli, degni delle antiche atellane, che sono cosa campana anch’esse.
Su ciò fantasticava il prof. Cacciapuoti e d’altro. Ma da quale guerra erano reduci presentemente quei suoi napoletani? Atavicamente, l’avrebbe capito; se fosse andato a ritroso di cinquant’anni, lo avrebbe compreso ancora meglio. Ma ora? Eppure, la guerra c’era e continuava, se sventolavano tuttora quelle bandiere di una sconfitta senza fine. La guerra di sempre: la guerra del povero contro il ricco, del misero contro il potente, dell’indigenza contro il superfluo, della finestrella col garofano contro le 1790 finestre d’una delle tante reggie, che infiorano Napoli e celebrati dintorni; dell’acqua razionata o, peggio, tagliata, contro le cascate vanvitelliane e borboniche nei vasti parchi; dello spa-zio da scatola per dieci e più persone, contro l’immensità dei palazzi diserti; del boccone stento e contato, infine, contro il più scriteriato e godereccio benessere, proprio della cosiddetta civiltà dei consumi della presente epoca, che ha per sfondo la violenza, in cui la malversazione è d’obbligo, il ricatto, morale o materiale che sia, è la sola legge valida sulla quale contare e alla quale uniformarsi per le quotidiane relazioni umane, d’affari o sociali e persino amorose.

Non era un arruffapopoli il Cacciapuoti, anzi: era amante dell’ordine, qual che fosse , senza preferenze, dal tipo autoritario a quello democratico corrente su tutta la gamma, ché i galantuomini -si ripeteva spesso- non paventano i confini della propria libertà nei confronti della libertà di ciascuno e di tutti; un onest’uomo, poi, non ha mai nulla da nascondere e, quindi, da temere. Egli, diceva a se stesso, si limitava a constatare semplicemente alcuni fatti, nemmeno poi tanto difficili da interpretare, né erano pensieri i suoi, rimuginava, ispirati dal colore locale, ma su di un esempio tipico, che s’inquadrava in una congerie più vasta di tristezza e, addirittura, di delitti. Bastava pensare alla fame dell’India, alle popolazioni del Biafra, del Vietnam (del Nord o del Sud che si voglia, ché egli vedeva in contrapposizione sistemi egualmente deprecabili e sofferenze per tutti e per lui non sussisteva differenza). E gli affioravano alla mente e le elencava a casaccio, cose come il criminale ingaggio dei minori al lavoro, duri e irretribuito; la diserzione, complici gli indigenti genitori, dalla scuola dell’obbligo; la tragedia della disoccupazione, della sottoccupazione e l’emorragia dell’emigrazione, ove lo Stato vende braccia ed identità culturale; le guerre che, specie da quando si parlava tanto di pace, sconvolgevano intere zone del pianeta, con la compiacenza, la complicità e l’arricchimento mostruoso delle nazioni, che vi avevano interessi; i rapimenti dei privati e dei politici a scopo di lucro o di contropartite, spesso d’impossibile ottenimento; al dirottamento continuo di aerei da parte di pirati dell’aria; i feddaim e quello che era successo durante le Olimpiadi di Monaco o d’Atlanta; gli israeliani i palestinesi nel trattare la pace, che si rivelava più funesto della stessa guerra; l’integralismo islamico; il terrorismo, le ritorsioni, gli stati di polizia; i terribili e temibili blocchi militari, che si erano più o meno concordemente spartita la Terra ed ora che dicevano questi blocchi inesistenti, il pericolo era aumentato poiché non più avvertito; il razzismo, il problema dei negri, los ninhos de rua; la crisi energetica, la droga, l’immigrazione clandestina; i protestanti contro i cattolici in Irlanda e viceversa; la corsa agli armamenti convenzionali ed atomici, il loro commercio e contrabbando; l’apprestamento in laboratori segretissimi e bene in fondi delle piacevolezze della guerra chimica e batteriologica; l’aumento irrefrenabile delle organizzazioni malavitose, per cui ognuno teme per i suoi cari, per sé e per la sue cose; il dramma del terzo mondo; la natalità che cresce pericolosamente in talune zone e che decresce a caduta verticale in altre e via discorrendo, solo per elencare alcuni dei tanti mali, così come gli capitava di ricordare.
Certo, non toccava a lui avanzare proposte e suggerire rimedi, fra l’altro già suggeriti, regolarmente inascoltati, da ben altre sedi. Non avrebbe saputo nemmeno da dove incominciare. Intendeva essere, quella del Cacciapuoti, un’interpretazione, seppure del tutto soggettiva, di un fatto, presentato magari in maniera poco ortodossa, un solo a mo’ d’esempio, indice, però, della perenne sconfitta, sofferta dalle classi, dalle popolazioni, dalle nazioni più umili, che pur culminava nella vittoria più antica, più essenziale e più desiderata dall’uomo: la sopravvivenza, condicio sine qua non della presen-za di quei bucati sciorinati nei vicoli di Napoli, della permanenza umana nel Cosmo, nelle sue infinite contraddizioni.
A quale prezzo! Era l’altezza, la sproporzione abnorme di questo prezzo, che egli contestava. Eppure, a tutto questo la maggior parte degli uomini -pensava- oggi, nel tempo delle conquiste spaziali (la superbia!), non sapeva opporre che disgusto e disprezzo, derivanti sia dal diffuso egoismo, sia dal senso estetico, offeso da simili spettacoli, che avrebbero dovuto, invece, fare arrossire dalla vergogna, mentre capitava che solo distrattamente si volgesse uno sguardo ad un angolino meno affannato, ma più pigro della mente, se per avventura ci si trovasse ad essere messi a contatto con una realtà, alla quale si volesse disperatamente, con ogni mezzo sfuggire. E quel poco che si faceva per ovviare a tutti quei guai, si disperdeva; denunce ed appelli cadevano nel vuoto, la situazione s’aggravava sempre di più.

Il professore Cacciapuoti viveva, dunque, acriticamente tutta una problematica, ch’era enorme e che sorpassava le sue capacità di comprendonio, più esercitate nelle questioni, inerenti alla sua professione, che nella vasta panoramica, aperta inopinatamente in lui alla visione d’uno scorcio variopinto di bucati, esposti nel profondo vicolo partenopeo.
“O è selezione naturale tutto ciò -pensava-: guerre, carestie, pestilenze, siccità, fame, disoccupazione, emigrazione, miserie, sconfitte, sofferenze, morti precoci? Selezione, ora tanto più riscontrabile, in quanto la popolazione del pianeta raggiunge limiti di densità eccezionali, con tendenza all’incontrollato aumento in talune fasce?”.
Offriva questa scappatoia ad un suo immaginario interlocutore, nel caso ne volesse approfittare, fosse anche per contraddirlo, per rintuzzare quella sua tormentata prospettiva.
“Ma quest’uomo -seguitava-, quest’individuo, che reca il suggello di Dio, la Sua impronta, che è fatto a Sua immagine e somiglianza, dovrà proprio estinguersi, affogando nei mali, con la sua Terra, per esplosione termonucleare o per altre diavolerie del genere?”.
Già, era noto, si saggiavano gli spazi extraterrestri e s’era posto piede sulla Luna! Che fosse questa un’altra delle infinite riserve del potere? Che, cioè, una minoranza umana s’apprestasse in un futuro, ormai non lontano, a lasciare alla sua sorte quest’impossibile pianeta, nel caso fosse dannato? Una minoranza eletta, s’intende, che ne valicasse i confini per sopravvivenza ultima, definitiva?
A che punto era pervenuta ormai l’umanità e quanto si fosse impoverita, se per evitarsi lo spettacolo di miseri panni stesi ad asciugare, pensava d‘essere costretta, in una propria élite a superare per sempre le barriere gravitazionali terrestri e tentare le via della continuazione della specie terrestre in mondi alieni, lontani, di remote galassie?
“Ma conoscendo l’uomo, com’io lo conosco -concludeva il professore Cacciapuoti -e ci sarebbe stato da domandarsi donde avesse poi derivato un’esperienza così decisamente compiuta, come quella ch’egli affermare di possedere-, chi ci farà certi che in questa estrema evenienza e in questi nuovi mondi, bucati a pubblica vista non se ne stenderanno mai più; che non se ne esporterà l’esperienza?”.
Un di quei bucati napoletani, intendeva, che aveva assunto a simbolo e a denuncia dei mali che hanno afflitto l’umanità, come l’affliggono e l’affliggeranno, a meno che non fosse intervenuto un miracolo, di quelli grossi, ma talmente grossi, che sarebbe stato già un articolo di fede pensare che potesse avvenire e sperarvi.
“Poiché -citava a memoria Einstein- la bomba atomica ha cambiato il volto dell’umanità, non il suo modo di pensare”.

Vito d’Adamo




Primo scritto dopo dodici anni di silenzio completo, iniziato a Torre del Greco (NA) dopo le vicissitudini sicule, e terminato in emigrazione, anni 1970/71. Fu pubblicato con una composizione approssimativa, non corretto ed incompleto da “LA SETTIMANA”, periodico edito a Stoccarda a cura di Vittorio Bertolani.

 
 

ID: 4935  Intervento da: Luigi Mari  - Email: info@torreomnia.com  - Data: sabato 4 novembre 2006 Ore: 21:31

Un ottimo "pezzo" di narrativa quello di Vito D'Adamo, autore che io consolido col mio parere: scrittore professionista.
Negli ultimi anni però, il mondo dell'informazione si è dilatato sempre più. Ai canali tradizionali, giornali, radio, televisione, si sono aggiunte la galassia di Internet e la velocità delle telecomunicazioni satellitari. Eppure le informazioni ci arrivano sempre più confuse e inquinate. Insomma molta zavorra.
Mettere in rete un racconto si rischia di renderlo dispersivo, ma se questo è stilato dentro certi canoni di professionalità a cui il lettore è già abituato col cartaceo, allora il narrato non perde di forza. Anzi brilla di luce propria nella rete.
Il presupposto è che la lettura è un fatto umano che coinvolge radicalmente la vita del lettore e lo mette in gioco a livello di significati e visioni.

Diceva Carlo Bo: la letteratura è «come» la vita nel senso che la letteratura è chiamata ad avere la stessa «qualità» della vita. Entrambe sono «strumenti di ricerca e quindi di verità: mezzi per raggiungere l’assoluta necessità di sapere qualcosa di noi, o meglio di continuare ad attendere con dignità, con coscienza una notizia che ci superi e ci soddisfi».

Scrive Celan in un suo saggio: “l'unica cosa che si salva è la parola, ma essa deve attraversare "le proprie impossibilità di rispondere, la propria tendenza ad ammutolire". Ecco il punto: la poesia non ha la natura di un "pauroso ammutolire". Non è "qualcosa che toglie [...] il respiro", né tende a diventare "respiro di pietra" ("Steinatem"). Per Celan la parola può attraversare "mille tenebre" ma alla fine la capacità di parola si salva dal mutismo, dall'afasia sempre incombente. Resta dunque l'attesa, la speranza, la prospettiva di una salvezza della parola.”

Ciò che differenzia il raccontino da scrittorucolo di giornaletti locali o di romanzucci da dopolavoro comunale è lo stampo professionale di un testo.
Nel Caso del Prof. Cacciapuoti l’estetica allarga le braccia per far posto ai contenuti che, almeno in primis, si impongono con la fusione dei significati: gloria popolare nella simbologia dei panni sciorinati della "razza" napoletana, ora vessata da dominazioni, ora eroina di sopravvivenza e scaltrezza, miscelata alla gloria di vessilli e stendardi d’armi nazionali ricche o prive di gloria di leopardiana memoria: “’O Patria mia vedo le mura e gli archi e le colonne e i simulacri e l’erme, torri degli avi nostri, ma la gloria non vedo…”
Vittoria e sconfitta nei due archetipi. Poveri indumenti popolari scikorinati nei vicoli o gloriosi stendardi, una identica simbologia nell’ideologia de “Il resto di niente” il moderno grande romanzo storico di Striano che avrebbe messo il Prof. Cappiapuoti ed Eleonora Pimmentel de Fonseca, a distanza di un secolo, nella certezza che possesso e conquiste caduche per destino umano conducono allo stesso differito pugno di mosche nelle mani non già solo senza speranza, ma precludendo poesia, senza amore per la vita intera.
Cacciapuoti “prima” ed il suo autore “dopo”, si soffermano sulla differenza materiale degli orditi e sulla simbologia ugualmente devastante delle vittorie e delle sconfitte, puntanto diritti sulla metafora rafforzando il linguaggio figurato per liricizzare le proposizioni. Ma il “pezzo” del D’Adamo è univoco perché raccoglie in due ali letterarie la fantasia del lettore rendendolo complice e coautore.
Ora autore e lettore si fondono inconsapevolmente in un afflato storico-letterario che sazia e induce diritto alla catarsi, senza trascurare la fisiologia umana, lo hanno dimostrato i grandi poeti come D’Annunzio o Pasolini con aspetti salati di fisicità.
Il d’Adamo lirico cala nel D’Adamo uomo, con la sensualità ignea vesuviana, coinvolgendo personaggi e lettore:

”A mirare quella biancheria, mossa dall’aria, (dove) non v’era amante che non si lasciasse andare ad immagini lascive ed eccitanti, previsioni accese di onesti piaceri coniugali e futuri, oppure mano onesti, ma più immediati”.

Dunque la realtà urbana della stoicissima Partenope ricompare nella sua plasticità moderna masaniellistica e lazzaronica per fatto cromosomico. E lazzi e frizzi, e angoli di vita quotidiana. E storici palazzi da migliaia di finestre abbandonati al potere incapace, alla malversazione. E il dualismo bene-male apparentemente sposato a Napoli. E un sentore decadentistico malapartiano solleticano le narici del Professore.

E poi giù le differenze sociali etniche, etica e morale seminata a largo getto sotto gli occhi del lettore. Quindi niente soluzione, niente palingenesi nemmeno dietro la conclusione del racconto: l’ultima stupidaggine umana: la bomba atomica. L’ultimo cieco esorcismo contro l’impotenza dell’uomo del proprio destino di mortale.

Luigi Mari


ID: 4904  Intervento da: Serena Mari  - Email: sery_mari@hotmail.com  - Data: giovedì 2 novembre 2006 Ore: 09:34

Altra recensione di papino.

La poesia di Ciccio Raimondo ha forza nella voce caustica del "trasgressivo a tutti i costi", in una dimensione e un parallelo, come dire, pre-evolutivo; un messaggio, perciò, anche candido, quasi una religiosità nella fisiologia erotica, che rasenta talvolta una sorta di venerazione deistico-verginale della donna, un eterno femminino comunque emendato nei suoi canoni classici, una sublimazione del fisiologico, ma devastato immediatamente o contemporaneamente, spesso per ingerenze dalla stessa donna, o della donna rivale nel ruolo di suocera, per subito rimanerne ammaliati, per poi odiare, amare ed odiare ancora.
Una voce, in questi versi, che ha la pregnanza dell'autentico e la spontanea icasticità dello scatto linguistico se pur costruito sul vernacolo partenopeo ortodosso, speculare e modellato, però, sull'idioma torrese che, pur non graficamente presente, verrà comunque colto dai corallini, che ne sentiranno la musicalità, il ritmo.
Il vivianesco, il russiano, fino al digiacomiano soccombono, però, come parametri soliti, non già per l'originalità dell'autobiografismo evidente, ma per la profonda e complessa tematica psicosessuale di stampo partenopeo tipica degli anni 60, che il Raimondo sembra solo sfiorare, con tocchi ironici lazzi e frizzi, come a voler celare e difendere il lettore alleggerendo questa problematica che comunque si evince. Esorcizzare con la nostra capacità di sdrammatizzare, noi, vesuviani, che se dobbiamo dire: "Mi fai piangere" diciamo "Mi fai ridere sotto gli occhi".
Uno spaccato dei sentimenti, dei pregiudizi, dei timori, degli egoismi e degli egotismi, fuori etica, fino ad un mercanteggiamento della materia corpo come fonte di benessere, come investimento di potere e di successo, come strumento di plagio e di sopraffazione, come arma di tattiche meschine; comunque la violenza psicologica dell'uomo contro l'uomo. Ciò evidenziato in un contesto geografico con un reddito (sperequato) superiore alla media nazionale.
E sono certo che persino all'autore, infondo, possa sorgere il dubbio di quali siano le vittime e quali i carnefici, se ci sono, o se sono da ritenere tali, vista questa penosa instabilità epocale, tra screzi, ripicche, tradimenti, immaturità, e folleggiamenti delineati nei personaggi descritti.
Segue una breve raccolta di poesie dove eccelle il contenuto sulla forma che, volutamente, ha stesura libera senza metrica, rime o sofisticherie di maniera. Quasi una prosa detta, una stenografia di un discorso unico ma frammentato. E' un Ciccio desueto, lontano dalla sua storiografia riallacciata a quella paterna, distante ma ricucibile all'inimitabile e letterariamente ben messo "La prima volta di Enzuccio" che potete leggere in questa sezione. Più che un fatto d'arte l'autore ha inteso qui comunicare, lanciare un messaggio sociale, ampio, ad estuario: protesta, dubbio, domanda, risposta, grido, rabbia, gioia, rammarico, dolore ed in alcuni passi: preghiera. Un valido ed attuale messaggio di interrogativo esistenziale. Tuttavia pur non giocando col vago e con l'ambiguo non si libera nello sventramento della confessione.
Luigi Mari

www.torreomnia.it/Testi/ciccio_poesie/set_frame_ciccio_poesie.htm

Ora un affresco narrativo che va al di là dell'erotismo di un Pasolini o di un Aldo Busi per l'esasperazione idiomatica senza emulazione di questi capiscuola. Uno stile inedito. Esposto, purtroppo, in una piazza spinosa per le sperimentazioni letterarie ardite.

www.torreomnia.it/Testi/raimondo/set_fra_enzuccio.htm

Alcuni messaggi del Forum:

www.torreomnia.it/Testi/forum_torreomnia/messaggi_forumi1.htm

Serena Mari





ID: 4899  Intervento da: Serena Mari  - Email: sery_mari@hotmail.com  - Data: giovedì 2 novembre 2006 Ore: 00:31

Un'altra bella recensione di Mio Padre al bravissimo, insostituibile collaboratore Salvatore Argenziano:

www.torreomnia.com/Testi/argenziano/poesie/set_fra_poesie.htm

Serena Mari


ID: 4897  Intervento da: Serena Mari  - Email: sery_mari@hotmail.com  - Data: giovedì 2 novembre 2006 Ore: 00:19

Caro nonno vito,
grazie per le belle parole dette a papà! Non facilmente accade che si singrazi mio padre, specie pubblicamente!
Torreomnia è zeppa di recensioni e presentazioni di mio padre, tutte analitiche approfondite, esaustive.
Se vai nella sezione "opere" di Torreomnia potrai gustarne parecchie, Ne riporto qui un paio:

IL DIVANO DI SIGMUND
di Aniello Langella

In questo sorprendente racconto del dott. Aniello Langella il vulcano, come un'ombra, su passato e futuro, vigila da lontano e tace. Impegnando tutto l'orizzonte e si perde nella cataratta della foschia morbida. Nessuno sbuffo di fumo, nessun tremore. Una sola ingombrante presenza, austera e minacciosa.
Il mono-personaggio ancora non sfora le quinte eppure il cratere e già presente.
Non prevedibile lo zotico campano e la malattia astratta; ma immaginabile una muliebre donzella cagionevole.
L’evento narrativo si scuce sul timore delle eruzioni che per il vesuviano sta nel DNA come una collettiva malattia genetica, una endemìa atavica. E' stato "inoculato" attraverso i secoli. Esso è presente pure nelle persone che vivono lontano dal Vesuvio, perché il vulcano è, sì, lontano, ma il terrore di esso è dentro di noi e viene sostituito da surrogati in questo che è stata definito "il secolo della paura".
Guerre, attentati, bioterrorismo, epidemie, calamità naturali, delitti efferati: i drammi che avvengono nei quattro angoli del proprio paese o del mondo intero e le malattie debilitanti e frustranti e soprattutto quelle incurabili sono amplificati dai mass-media e portati in tutte le case tutti i giorni. Nessuno riesce a sfuggirne.
Non a Caso Aniello Langella ha scomodato Freud per titolare il suo interessante racconto pregno non già di autobiografismo reale, ambientale od esteriore, ma appunto inconscio, là dove. probabilmente, Egli stesso ne ignora la finezza dei capillari narrativi come risposta a sintomi comuni nel triangolo scrittore, attore e lettore.
L'autore possiede una sorta di potere dell'ubiquità, vivendo fisicamente nel goriziano tra le Valli dell' Isonzo e del Vipacco, pur avendo anima ed animo mai sradicati dalle zolle dure dell'atrio del Cavallo, o dalla vitrea "terra nera” seminata dal braccio idrico del bagnasciuga sul lungomare corallino.
Felice la conseguenza del dialogo interiore trasferito nel monopersonaggio. Un Aspetto culturale del Nostro medico friulo-campano sorprendente e di ottimo spessore narrativo moderno, pur non tradendo, per vocazione, i canoni classici della battuta oleografica della "terra del sole e del fuoco".
La problematica dello zotico Antonio Serpe si svolge in un’ambientazione incerta. Il problema conscio è il Vesuvio, ma potrebbe essere "in cantina", per dirla con Sigmud, lo tzunami, il terremoto, la frana e quant'altro.
Il dialogare del dottore è aulico e ricercato non solo per etica professionale, o per snobbismo ma per mettere in risalto la rozzezza del paziente a dimostrazione che la "paura" non solo non ha classi sociali, ma non ha patrie.
Il Dott. Langella ci induce a riflettere che qualsiasi paura ambientale apparentemente reale non solo condiziona l'ambiente sociale ad una sorta di precarietà e una induzione alla lotta civile nei rapporti interpersonali e sociali, ma si allarga ad estuario verso l'oceano della paura propriamente detta, cioè quella esistenziale che fa sempre capo all'idea del dolore fisico, nella fattispecie del contesto craterico campano dalla "lapidazione" tramite grossi lapilli morali, dall'asfissia di gas venefici come flatulenze demoniache degli inferi, e dall'ardenza di fuoco etico giustiziere, quasi sodoma-gomorriano.
L'autore traccia con semplice e decise pennellate narro-vesuviane l'ansia endemica ed atavica cromosomica della plaga vesuviana non disgiunta per i tessuti connettivi con la problematica grave delle società sviluppate: il senso generalizzato di insicurezza e vulnerabilità sentito in modo planetario non solo da calamità, terrorismo e malattie, ma dalla oramai altrettanto cromosomica minaccia atomica.L'ansia del monopersonaggio Antonio Serpe de’ “Il
divano di Sigmund” serve all'autore soprattutto per rivelare una giustificazione ai problemi annosi associati a quelli epocali della cintura vesuviana, ma il medico si interroga e dà ad intendere che tutto può accadere, che non ci sono più certezze o luoghi assolutamente sicuri. E anche quando la vita quotidiana si svolge a livelli di reddito e comfort elevati scatta un malessere esistenziale complesso, il timore per la sofferenza, per un pericolo futuro. E l’alterego- personaggio che di e all’autore: “Siamo sulla stessa barca” contadini e professori.
Lo scrittore, inoltre risveglia la consapevolezza che quello del Vesuvio è sicuramente un disastro annunciato.
Interessante lo sdoppiamento interlocutorio medico-paziente, forse per deformazione professionale, che fa del medico-narratore non già una creatività di prima mano, ma un sentire interiore quasi narrativamente sperimentale.
Aniello Langella sa bene che i rapporti umani vengono incrinati non già dalla forza, ma dalla debolezza. Non dal coraggio, ma dalla paura. Infatti l'unico modo per lasciare in pace gli altri è lasciare in pace se stessi. Ma la diffusione continua di notizie diventata una sorta di “malattia mediatica” o comunque un sentimento diffuso di angoscia e terrore, dovuto anche all'uso insistente delle immagini televisive, del cartaceo e sconfinatamente da Internet.
Ma l'autore-medico fa finta di ignorare e fa semplicemente dire a Serpe: "Ho paura io del Vesuvio, ha avuto paura mio padre, mio nonno". Sottolineando la storicità della paura del vulcano.
Langella narratore dice: "La consapevolezza devastante della verticalità delle paure". E sapientemente introduce la componente religiosa come toccasana, come ultima spiaggia, come almeno probabilità salvifica post-mortale.
"Dotto' sono andato anche da Don Luigi, il parroco di Cappella Bianchini". "E Don Luigi mi ha detto che ho ragione: per questo i vesuviani vivono nella precarietà, sono tutti così, imbrogliano, vendono cose andate a male, tanto domani viene la montagna".
Fare i soldi in fretta e a tutti i costi, senza esclusione di colpi e di bersaglio. Domani potrebbe essere tardi.
"Il divano di Sigmud” di Aniello Langella è un messaggio apparentemente grottesco, una farsetta scarpettiana, ma solo in superficie, perché il messaggio intrinseco non solo è attuale, ma è anche atavico per capire il caratteriale di una determinata area geografica, unica in tutto il mondo!
Perché mai nel globo sono state ricostruite dieci città sopra una polveriera esplosa centinaia di volte nei secoli, sotto la scusante di un popolo tenace, coraggioso e testardo. In realtà profondamente incosciente!
"Caro dottore - dice il Serpe - voi mi avete capito ed io ho capito voi. Siamo sulla stessa barca". "Voi avete ragione io ho paura dei Vesuviani".
E qui l'autore fa crollare il concetto di natura infame rivelando la vera morale della favola: il degrado del popolo vesuviano e la qualità della vita a ridotta a zero, al punto che lo zotico conclude con una soluzione cruenta.
"In settimana prossima vado a Mondragone e spero che il Vesuvio inghiotta tutti buoni e cattivi. Lo dicono tutti e lo dico anch'io".
La meraviglia di questo racconto è come possa essere stata descritta la confusione mentale epocale odierna in metafora tanto che in questa ultima battuta non si capisce se questo monopersonaggio sia vittima o carnefice.
”...muoiano buoni e cattivi. Lo dicono tutti e lo dico anch'io" (pur di finirla con questa maledetta ansia). Il “mors tua vita mea” come esorcismo, dare in pasto alla “belva” la propria gente corrotta e disonesta, giustificando la propria di ansia fatta di fuga e condannare quella degli altri da immolare indiscriminatamente.
Fare del male per somiglianza perché fa tendenza. Questa è una seconda chiave di lettura del racconto.

Luigi Mari

Per leggere Il divano di Sigmund:

www.torreomnia.com/Testi/divano/set_fra_divano.htm


ID: 4895  Intervento da: Vito d'Adamo  - Email: vda27@online.de  - Data: mercoledì 1 novembre 2006 Ore: 22:23

Caro Gigimari,
ti ringrazio della recensione al "Cacciapuoti", con la quale hai scavato da vero critico entro e oltre la narrazione; e ti dico bravo per aver superato il timore di essere tacciato di dadamite, il che mette definitivamente a posto la questione, inerente al Forum, riaperto a tutta la gamma degli interventi possibili di ognuno e di tutti.
Bravo, ripeto, senza timore di essere eventuamente tacciato di gigimarite. Si prosegue, dunque, nel migliore dei modi.
Ti stima e ti abbraccia nonno Vito.


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