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Argomento presente: « RIASSAGGIO DEL PAESE »
ID: 4434  Discussione: RIASSAGGIO DEL PAESE

Autore: Vito d'Adamo  - Email: vda27@online.de  - Scritto o aggiornato: venerdì 22 settembre 2006 Ore: 17:28

Carissimi,
segue un cronaca sui generis, spero sia di vostro gradimento.
Se mi sarà possibile, spedirò domani un nuovo intervento. Poi mi dedichero agli ospiti dall'Italia, fino ai principi di ottobre.
Ringrazio il Maresciallo D'Urzo per l'ottimo lavoro di ricerca, che sta eseguendo. Ne ho letto con interesse la documentazione: è in questa direzione, che bisogna muoversi, oltre, beninteso, quella ufficiale. Augurandogli buon lavoro, lo saluto cordialmente.
Nonno, zio, fratello Vito.


RIASSAGGIO DEL PAESE

Torre del Greco, ottobre 1974


Nino Fiorito sedeva nel 154, pressato da tutte le parti da un gruppo di studentesse liceali e una di queste gli premeva una coscia sulla spalla sinistra. Le ragazze chiacchieravano e ridevano fra loro e si divertivano alla ressa e si lamentavano per i molti libri, che anchilosavano loro il braccio e per la corsa fatta per prendere il filo-bus e per la fame, che avevano.
- Ed ora va a casa e sorbettati lo scatolame!
- Dio, mangia la pizza, quella.
- Chi?
- Guarda, per la strada.
- Oddio, come inghiotte la focaccia! Le vada per traverso! Ma perché quando ho fame io, mangiano sempre gli altri? (1).
Si susseguirono tre scossoni. Nino avvertì un seno giovane premergli l’orecchio. Cercò di spostare il capo, imbarazzato, ma il risultato fu che la ragazza perse completamente l’equilibrio e il seno gli si schiacciò sul viso.
- Potrò contarla, mi hanno violentato in filobus. Minorenni. Non se ne curano: sono più a disagio io che loro.
Sopportò per qualche istante ancora la pressione del seno della brunetta sull’occhio, poi tutto il peso della ragazza, che stentava a riprendere stabilità, mentre la coscia della biondina continuava a strofinargli la spalla. Infine la bruna riuscì a mettersi ritta.
- Ho riposato fra i tuoi seni -, pensò Nino, mentre gli scossoni accrescevano i contatti e la brunetta ridac-chiava.
- Sai, ho qualcosa da raccontarti, dopo.
- E io no?
- È che non posso proprio muovermi.
- Non puoi muoverti perché ti piace?
- Non potrei muovermi anche se non mi piacesse! -, rispose l’altra.
Un uomo anziano presso la porta d’uscita s’accasciò. Cercò di rizzarsi, ma venne meno di nuovo. Una stu-dentessa lo sostenne. La porta si aprì alla fermata e l’uomo discese barcollando. Di corsa, incespicando, si la-sciò andare di schianto sui gradini di un portone, quasi vi si distese, attraversato a tuffo il marciapiede. Accorse gente, mentre il veicolo riprendeva la corsa.
- È ubriaco?
- Non saprei. Forse gli è venuto un malore.
- A me sarebbe venuto un malore se lo avessi sostenuto. Che coraggio hai avuto, tu!
- Per poco non svenivo.
- Accidenti a quanta gente finge malori da queste parti.
- Accidenti un corno! Può darsi che stava male per davvero. Perché diffidiamo sempre del prossimo?
- Perché il prossimo c’induce a diffidare sempre, da quello che si vede e che si sente.
- Sarebbe sempre meglio soccorrere novantanove simulatori che abbandonare a se stesso un sofferente.
- Cos’è, il nuovo catechismo olandese? Non te lo dico io che sei scema? Quello ora si fa i quattrini, sdraiato sui gradini con tutta la gente intorno.
- Ora quello potrebbe anche morire perché la gente gli mette in mano cento lire e si crede affrancata da ogni responsabilità di soccorso. Magari quello crepa con un bel gruzzoletto tra le mani, tra l’indifferenza della gente, schifata di cascarci sempre.
- Cristo, la fame! Quando si arriva?
- Signora, che è seduta, lei, mi regga, per favore, questi libri.
- Mi dispiace, due fermate e scendo.
- Oh, non spinga, lei!
- Mi fai ridere, non spinga -, rispose il giovanotto e filò avanti a colpi di gomito.
Infine le studentesse scesero e Nino Fiorito fu liberato dalla stretta di tutta quella pulsione esuberante, che lo aveva rimescolato durante il tragitto.

* * *

L’ininterrotta teoria dei caseggiati, che partiva dal capolinea in Piazza Castello, e seguiva lungo il percorso la curva del Golfo, divenne via via la periferia di Napoli; e, poi, San Giovanni a Teduccio, San Giorgio a Cremano, Portici, Resina, Torre del Greco. L’insieme dava impressione di trascuratezza, di sovraffollamento, di polveroso e di negletto, con le facciate delle case non dipinte da prima della guerra e i sacchetti dell’immondizia, non tutti chiusi, si levavano a cumuli cani e gatti rovistavano nel mucchio.
Alcune donne, sedute in fondo, si lamentavano:
- Il fitto non ti dico: ottantamila, centomila, chi ci capisce più niente!
- E mio marito, che è operaio, e guadagna a stento duecentomila lire il mese!
- Il mio è impiegato, ma non guadagna di più.
- Signore, non peggio! Io, però, ho il fitto bloccato e il padrone di casa si aggiusti.
- Beata a vui. Noi dobbiamo dare tutto il mensile al padrone di casa, fino all’ultima lira.
- Che, vuoi andare in mezzo alla strada? C’è la nuova legge.
- Hanno già escogitato i rimedi.
- San Gennaro, San Ciro, Santa Colomba, Cuore di Gesù!
- Tira a campa’. “loro” si arrangiano. Arrangiamoci anche noi.
- Ci sarebbe la disobbedienza civile -, azzardò una del gruppo.
-Cos’è, un’altra diavoleria dei “cinesi”? (2).
La sensazione era di vecchi e di stantio: i discorsi sull’aumento del costo della vita, l’indifferenza atavica, il tra-dizionale tirare a campare il fatalismo e lo sporco e i negozietti acchiappagonzi con le loro perpetue svendite, i molti esercizi commerciali chiusi, sbarrati e la solita troppa gente per la strada e la scritta di protesta sui muri e le risposte veementi; e manifesti e pubblicazioni pornografiche e donne uomini bambini vestiti secondo i detta-mi di quella strana moda “vestiti come ti pare e se ti pare” e non c’è bisogno che uno distingua se sei maschio o sei femmina con i blugins e i capelloni e le borsette; larghi pantaloni giù, aderenti alle cosce, a dar forma al posteriore, anche se ce l’avevi basso e sproporzionato e certa gente proprio non dovrebbe, non può conciarsi così senza quel che dovrebbe avere. Moda da grandi magazzini, pratica, a volte fuori di ogni gusto, o da sven-dita di boutique. Il maquillage, però, palesava l’impiego di prodotti costosi, in genere.
Due litigavano in fondo al filobus, il bigliettaio e un operaio:
- Io il biglietto non me lo faccio se non mi dai il resto. Cento lire di biglietto le vuoi pagate cinquecento?
- Se il resto non ce l’ho, che posso farci?
- Chi ti dice di fare qualcosa. Non mi faccio il biglietto io, punto e basta.
- Non hai letto sul cartello che bisogna premunirsi di moneta spicciola prima di salire?
- E dove ti procuri la moneta spicciola, tu?
- Ferma, ferma, ché uno deve scendere!
- Io non scendo.
- Lo dici tu!
- Perché, che mi fai?
Il bigliettaio non seppe che rispondergli e il conducente a gridare:
- Vado?
- Vai! rispose l’operaio.
- Se fra operai cominciamo a litigare...
- Chi litiga? Andiamo.
- Ma tu non hai il biglietto!
- E tu non hai il resto.
- Allora, che si fa?
- Niente si fa.
- Chi ha cinquecento lire da cambiare?
Ognuno s’impicciò degli affari suoi.
- Allora?
- Va bene, te la piangi ti se sale il controllore.
- Me la piango io, d’accordo!
- È un casino -, sbottò l’uomo, che aveva trovato posto accanto a Nino.
- Sempre così?
- Quando non peggio.
Argomento esaurito, inutile sprecare altro fiato sulla situazione.
Dietro, due parlavano del pareggio Roma-Napoli.
- Ce ne hanno mezzo accoppato uno, ma ce l’abbiamo fatta.
- Che hai fatto, tu?-, chiese con tono provocatorio un terzo
- Si diceva così, per dire.
- Non te ne frega niente, vero?
- Non me ne frega niente, era solo un modo di dire, si parlava per parlare.
Gliene importava, ma si capiva solo che non voleva, ora, ammetterlo in pubblico davanti all’estraneo.
- Senti, senti -, esclamò uno, che leggeva “Il Mattino”. Oggi t’interrogano gli arrestati.
- E che li interrogano a fare? -, interloquì il vicino.
- Come, volevano fare il colpo di Stato.
- E perché non l’anno fatto, quegli imbecilli, invece di farsi acchiappare?
- Che, sei fascista?
- Sono uno che sta male da tanti anni ogni giorno di più.
- Come stavi sotto Mussolini?
- Chi c.... se lo ricorda. Ho trentadue anni, io!
- Lascia dire a chi c’è vissuto, allora.
- Come vanno con questo Governo?
- Oggi Leone decide qualcosa.
- Sotto terra vi sono ossa che fremono – intervenne un altro.
- Quelle ossa fremono da troppo tempo: ci avranno fatto il callo.
- Zitti, sporcaccioni!
- Neh, perché zitti e perché sporcaccioni?
Le cose si stavano mettendo a male. In quella s’udì ululare una sirena, sfrecciò una macchina, seguita da un’altra. Spartivano il traffico come impazzite.
- La polizia insegue quella macchina. Benzina sprecata, non la prenderanno. Vedrete come la blocche-ranno nel traffico, la “Pantera”.
- Come siamo combinati: abbiamo tutto quello che ci meritiamo!
Nino scese svelto e disgustato a Fiorillo:
- Al primo assaggio -, pensò. Era arrivato la sera prima dalla Germania, dopo tre anni.

Vito d’Adamo
Torre del Greco, ottobre 1974.

(1) Specie di gergo studentesco.
(2) “cinesi”. Così erano chiamati gli appartenenti ad un gruppo estremista, che proclamava, fra l’altro, l’autodeterminazione dei prezzi da parte degli utenti, la disobbedienza civile, ecc.

_______________________________

Questo scritto fu pubblicato nel 1975 dall’organo dell’ALFA (Associazione Letteraria e Facoltà Artistiche), “IL MULINO LETTERARIO”, mensile edito a Nordrach, Germania Federale, con metodi artigianali, tuttora in vita, dopo ben 37 anni. Proprietario e Direttore: Antonio Pesciaioli. La Redazione ha subito diversi sostanziali cambiamenti nel corso di tutti questi anni. La pubblicazione costituì la base di partenza per alcuni esperimenti, degni d’attenzione, di cui tratterò prossimamente, mettendo a confronto due emigrazioni, diversificate dai luoghi d’insediamento dei nostri connazionali: oltreoceano e Nazioni europee.
Il racconto che oggi propongo è un libero resoconto di quanto succedeva dalle nostre parti all’epoca e che colpì dolorosamente il protagonista, che mancava da Torre del Greco da “soli” tre anni. Lo scritto fu ripreso anche da altre pubblicazioni in lingua italiana, edite in Germania, con qualche cambiamento lessicale, ma specialmente strutturale per quanto riguarda i dialoghi, raccolti a gruppi (es.: Alcune donne, sedute in fondo, si lamentavano:
“Il fitto non ti dico: ottantamila, centomila, chi ci capisce più niente!”. “E mio marito, che è operaio, e guadagna a stento duecentomila lire il mese!”. “ Il mio è impiegato, ma non guadagna di più”. “Signore, non peggio! Io, però, ho il fitto bloccato e il padrone di casa si aggiusti”. “Beata a voi. Noi dobbiamo dare tutto il mensile al pa-drone di casa, fino all’ultima lira”. “Che, vuoi andare in mezzo alla strada? C’è la nuova legge”. “Hanno già e-scogitato i rimedi”. “San Gennaro, San Ciro, Santa Colomba, Cuore di Gesù!”. “Tira a campa’. loro si arrangia-no. Arrangiamoci anche noi”. Ci sarebbe la disobbedienza civile -, azzardò una del gruppo. “Cos’è, un’altra dia-voleria dei cinesi?”.). Tale forma fu ritenuta più immediata della trascrizione usata. Si evidenziarono sia i riporti al linguaggio e il mutato comportamento giovanile, sia i riferimenti ad un certo modo di vedere, proprio dei “ci-nesi” del tempo. Fu, inoltre, occasione di verifica del punto di penetrazione di talune tesi (“vangelo olandese”) e ideologie (“cinesi”) nel corpo sociale.

Colgo l’occasione per salutare il mio caro coetaneo d’America, Angelo Guarino. Mi reputo favorito dalla sorte per l’opportunità, che mi si offre, di poterlo conoscere, seppure di molto lontano, ed auguro alla pubblicazione, ora leggibile sul TORREOMNIA, ogni successo. Essa fa parte di un filone, di cui ho anticipato l'esistenza.


 
 

ID: 4451  Intervento da: Vito d'Adamo  - Email: vda27@online.de  - Data: venerdì 22 settembre 2006 Ore: 17:28

Rif. ID 4450.

Cara Serenella,
io consiglierei di non pubblicare a "pezzi" quello che attiene alla vita del venerabile Fratel Gregorio, ma di esporre in un corpo unico, organico, tutta la vicenda, che si sta componendo giorno per giorno.
Ho già pronto un piano di lavoro che comprende Curriculum vitae, testimonianze, servizi (quello del Maresciallo D'Urzo, ad esempio, al quale aggiungere i documenti promessi dal Gruppo di preghiera, diretto dalla Signora Fausta Serra), foto dei luoghi in cui nacque, visse, insegnò e morì, giudizi ufficiali sulla vita e sull'operato del Nostro, qualche sua lettera, ecc.
Comprendo la fibrillazione e me ne compiaccio, perché ne sono partecipe. Ho in animo, inoltre, di raggiungere il villaggio presso Rottweil - dista non più di 60 Km. da Haslach -, dove Fratel Gregorio nacque, visitarlo, raccogliere testimonianze e parlare con membri del gruppo, che si recò a Roma in occasione della proclamazione ufficiale di Fratel Gregorio a Venerabile.
Ho scritto molto in fretta e, quindi, male. Sono pressato da parecchie faccende, alle quali sto rubando il tempo, credimi.
Ho appuntato quello che mi ha scritto Francesca (ID 4449); ma stento ancora a prendere il FORUM.
Ringrazio ambedue per l'interessamento e la disponibilità e ciao: saluta tutti nonno Vito.



ID: 4450  Intervento da: Serena Mari  - Email: sery_mari@hotmail.com  - Data: venerdì 22 settembre 2006 Ore: 14:52

Caro Vito,
la macchina di Torreomnia è in fibrillazione. Stamane in Tipografia una signora ci ha informati che nella Chiesa S. Antonio di Padova, qui a Via Nazionale, ogni Lunedì si celebra una messa alle ore 19,30 in onore di fratel Gregorio Wendelin Buhl.
C'è un gruppo di preghiera a Lui dedicato, diretto dalla Signora Fausta Sella.
Ci ha promesso immagini e una biografia dettagliata del secondo beato torrese.
la pubblicheremo appena arriva.
Serena


ID: 4449  Intervento da: francesca mari  - Email: zigymari@libero.it  - Data: venerdì 22 settembre 2006 Ore: 14:44

Caro Vito,
sono la redattrice senior Francesca Mari. Rispondo alle tue e-mail private alla redazione.
Il forum è stato in down ieri, non più di due ore, perché mio padre ha approntato un secondo forum. Lui dice che lo dedica ai "senza peccati" che tremano all'idea di comparire nel forum 1; in realtà il forum 2 è una seconda possibilità, quando il data-base del primo sarà così saturo di dati che le funzioni rallenteranno.
Ad ogni modo, poiché sono stati spostati i percorsi del forum, è probabile che Tu carichi sempre la vecchia pagina memorizzata nella cache memory del PC.
Vai in internet Explorer/opzioni e cancella le pagine memorizzate per l'utenza fuori rete, oppure clicca l'iconcina "aggiorna" in alto ad internet-esplorer.
Ciao nonno Vito
Francesca Mari senior


ID: 4446  Intervento da: Vito d'Adamo  - Email: vda27@online.de  - Data: venerdì 22 settembre 2006 Ore: 11:29


Caro Paolo,
grazie per essere intervenuto sul "RIASSAGGIO DEL PAESE" e per aver riproposto la pagina del Malaparte (ID 4437).
Curzio è stato il mio Autore preferito per molti anni. Delle sue opere conservo ancora gelosamente "La Pelle" in una vecchia e squinternata edizione.
Ti conoscevo già ed apprezzo le tue attività: ho ripreso foto e curriculum dall'elenco dei collaboratori. Ti auguro di persistervi sempre in meglio.
Ho accennato giorni fa ad una pizzeria di Miezzo a San Gaitano (Sant'Aitano). Non ti ricorda niente, non me ne sapresti dire qualcosa? Ricordo che di pizzerie ce n'erano due, ma non potrei specificarti di più. Forse si trattava di don Vicienz 'a Chiazzetta, o forse no. Mi riferisco agli anni 49/50.
Bene, ti saluto. Ci sentiremo attraverso il FORUM. Ciao, stammi bene
Vito.


ID: 4437  Intervento da: Paolo Di Luca  - Email: paolodiluca1@freemail.it  - Data: giovedì 21 settembre 2006 Ore: 11:17

Caro Vito D'Adamo,
i tuoi post ci stanno portando mezzo secolo addietro. Fatti e avvenimenti sicuramente dimenticati. Voglio farti omaggio di alcuni stralci del capitolo sull'eruzione del 1944 de' "La pelle" dell'italo tedesco come te, tratti da questo stesso forum.
Sicuramente avrai letto "La pelle", almeno nel dopoguerra, ma molti, specie i giovani, non conoscono il grande scrittore.

MALAPARTE DESCRIVE L'ERUZIONE DEL 1944

NON LEGGERE QUESTA PAGINA E’ UN ...SACRILEGIO CULTURALE. Come per “Il figlio di Adamo”, ambientato a Torre, sono stati presi solo alcuni stralci del lungo capitolo per motivi di Copyrigt. "La pelle" di Curzio Malaparte. Ediz. 1967. Vallecchi editore. Un grande, discusso, amato, contrastato, apprezzato, vilipeso capolavoro della letteratura mondiade del XX secolo.

IL GIGANTE DI FUOCO

"1944 (…) un grido terribile sconvolse la notte e un immenso bagliore di sangue illuminò il cielo a oriente; squarciato da un’immensa ferita, sanguinava, e il sangue tingeva di rosso il mare. L’orizzonte si sgretolava, ruinando in un abisso di fuoco. Scossa da profondi sussulti, la terra tremava, le case oscillavano sulle fondamenta, e già si udivano i tonfi sordi dei tegoli e dei calcinacci che, staccandosi dai tetti e dai cornicioni delle terrazze, precipitavano sul lastrico delle strade, segni forieri di una universale rovina. Uno scricchiolio orrendo correva nell’aria, come d’ossa rotte, stritolate. E su quell’alto strepito, sui pianti, sugli urli di terrore del popolo, che correva qua e là brancolando per le vie come cieco, si alzava, squarciando il cielo, un terribile grido. Il Vesuvio urlava nella notte, sputando sangue e fuoco. Dal giorno che vide l’ultima rovina di Ercolano e di Pompei, sepolte vive nella tomba di cenere e di lapilli, non s’era mai udita in cielo una cosi orrenda voce. Un gigantesco albero di fuoco sorgeva altissimo fuor della bocca del vulcano: era un’immensa, meravigliosa colonna di fumo e di fiamme, che affondava nel firmamento fino a toccare i pallidi astri.
Lungo i fianchi del Vesuvio, fiumi di lava scendevano verso i villaggi sparsi nel verde dei vigneti. Il bagliore sanguigno della lava incandescente era così vivo, che per un immenso spazio intorno i monti e la pianura n’erano percossi con incredibile violenza. Boschi, fiumi, case, prati, campi, sentieri, apparivano nitidi e precisi, come mai avviene di giorno: e il ricordo del sole era gia lontano e sbiadito. Si vedevano i monti di Agerola e i gioghi di Avellino spaccarsi all’improvviso, svelando i segreti delle loro verdi valli, delle loro selve. E sebbene la distanza fra il Vesuvio e il Monte di Dio, dall’alto del quale contemplavamo, muti d’orrore, quel meraviglioso spettacolo, fosse di molte miglia, il nostro occhio, esplorando e frugando la campagna vesuviana, poc’anzi quieta sotto la luna, scorgeva, quasi ravvicinati e ingranditi da una forte lente, uomini, donne, animali, fuggire nei vigneti, nei campi, nei boschi, o errar fra le case dei villaggi, che le fiamme gia lambivano d’ogni parte.
(...) E non solo coglieva i gesti, gli atteggiamenti, ma discerneva fin gli irti capelli, le arruffate barbe, gli occhi fissi, e le bocche spalancate. Pareva perfino di udire il roco sibilo che erompeva dai petti. L’aspetto del mare era forse più orribile che non 1’aspetto della terra. Fin dove giungeva lo sguardo, non appariva che una dura crosta e livida, tutta sparsa di buche simili ai segni di qualche mostruoso vaiolo: e sotto quella immota crosta s’indovinava l’urgenza di una straordinaria forza, di un furore a stento trattenuto, quasi che il mare minacciasse di sollevarsi dal profondo, di spezzar la sua dura schiena di testuggine, per far guerra alla terra e spegnere i suoi orrendi furori.
(...) Davanti a Portici, a Torre del Greco, a Torre Annunziata, a Castellammare, si scorgevano barche allontanarsi in gran fretta dalla perigliosa riva, col solo, disperato aiuto dei remi, poiché il vento, che sulla terra soffiava con violenza, sul mare cadeva come un uccello morto: e altre barche accorrere da Sorrento, da Meta. da Capri, per portar soccorso agli sventurati abitanti dei paesi marini, stretti dalla furia del fuoco. Torrenti di fango scendevano pigri giù dai fianchi del Monte Somma, avvolgendosi su se stessi come nere serpi; e dove i torrenti di fango incontravano i fiumi di lava, alte nubi di vapore purpureo si alzavano, e un sibilo orrendo giungeva sino a noi, quale lo stridore del ferro rovente immerso nell’acqua. Un’immensa nube nera, simile al sacco della seppia, (e seccia e chiamata appunto tal nube), gonfia di cenere e di lapilli infocati, si andava strappando a fatica dalla vetta del Vesuvio e, spinta dal vento, che per miracolosa fortuna di Napoli soffiava da nord-ovest, si trascinava lentamente nel cielo verso Castellammare di Stabia. Lo strepito che faceva quella nera nube gonfia di lapilli rotolando nel cielo era simile al cigolio di un carro carico di pietre, che si avvii per una strada sconvolta. Ogni tanto, da qualche strappo della nube, si rovesciava sulla terra e sul mare un diluvio di lapilli, che cadevano sui campi e sulla dura crosta delle onde col fragore, appunto, di un carro di pietre che rovesci il suo carico: e i lapilli, toccando il terreno e la dura crosta marina, sollevavano nembi di polvere rossastra, che si spandeva in cielo oscurando gli astri. Il Vesuvio gridava orribilmente nelle tenebre rosse di quella spaventosa notte, e un pianto disperato si levava dall’infelice città.
(…) I muri di uno stretto vicolo erano percossi da un tal furore di luce vermiglia, uomini che camminavamo come ciechi, brancolando. Da tutte le finestre, gente ignuda si sporgeva agitando le braccia, con alte grida e striduli pianti chiamandosi l’un l’atro, e coloro che fuggivano per le strade alzavano il viso gridando anch’essi e piangendo, senza arrestar ne rallentare la precipitosa fuga. Per ogni parte gente d’aspetto miserabile e feroce, quali vestiti di stracci, quali nudi, accorreva portando ceri e torce alle Madonne e ai Santi dei tabernacoli, o inginocchiata sul lastrico invocava ad alta voce l’aiuto della Vergine e di San Gennaro, battendosi il petto e lacerandosi il viso con selvagge lacrime. Come avviene in un grande e disperato pericolo, che un’immagine sacra, o il debole chiarore di una candela in un tabernacolo, richiama all’improvviso al cuore il ricordo di una fede da tanto tempo negletta, e riaccende speranze, pentimenti, timori, e la fiducia, da tempo negata, o dimenticata, in Dio, e l’uomo che aveva dimenticato Dio si ferma, e stupito, commosso, contempla la sacra immagine, e il cuore gli trema, tutto acceso d’amore, cosi avvenne a Jack. Si fermo all’improvviso davanti a un tabernacolo, e si copri il viso con le mani, gridando:
« Oh Lord! oh my Lord! » A quel grido rispose dal fondo del tabernacolo un pigolio, come d’uccelli. E udimmo un debole batter d’ali, un fremito come d’uccelli in un nido. Jack si ritrasse spaventato.
« Non aver paura, Jack, » gli dissi stringendogli il braccio, «son gli uccelli della Madonna. In quei terribili anni, non appena le sirene d’allarme annunziavano l’avvicinarsi dei bombardieri nemici, tutti i poveri uccellini vesuviani andavano a rifugiarsi nei tabernacoli.
Eran passeri, eran rondini, dalle piume arruffate, dai tondi occhi lucenti sotto la palpebra bianca. Si nascondevano in fondo ai tabernacoli come in un nido, stretti l’uno all’altro e tremanti, fra le statuine di cera e di cartapesta delle anime del Purgatorio.
«Credi che li abbia spaventati?» mi domando Jack a voce bassa.
E ci allontanammo in punta di piedi, per non spaventare gli uccellini della Madonna. Vecchi quasi nudi, dagli stinchi scarniti e bianchicci, camminavano reggendosi ai muri, la fronte avvolta di candidi capelli arruffati dal vento della paura, e venivan gridando monche parole, che mi parevan latine, ed eran forse magiche formule rituali di maledizione, o di esortazione a pentirsi, a confessare ad alta voce i proprii peccati, a prepararsi cristianamente alla morte.
Torme di popolane dalla faccia stravolta procedevano in furia, quasi correndo, strette l’una all’altra come guerrieri all’assalto di una fortezza, e correndo gridavano alla gente, gesticolante e piangente alle finestre, insulti osceni e minacce, esortandola a pentirsi delle comuni infamie, poiché era finalmente venuto il giorno del giudizio, e il castigo di Dio non avrebbe risparmiato ne donne, ne vecchi, ne bambini. A quegli insulti e a quelle minacce la gente dalle finestre rispondeva con alti pianti, con ingiurie atroci e imprecazioni nefande, cui dalla strada la folla faceva eco con gemiti e grida, tendendo i pugni al cielo e orribilmente singhiozzando. Finche la folla irruppe nella casa, e ne usci trascinando per i capelli ignude puttane e soldati negri sanguinanti e atterriti, che la vista del cielo in fiamme, delle nubi di lapilli sospese sul mare, e del Vesuvio avvolto nel suo orrendo sudario di fuoco, faceva umili come bambini spauriti.
All’assalto ai bordelli si accompagnava quello ai forni e alle macellerie. Il popolo, come sempre, al suo cieco furore mescolava la sua antica fame. Ma il fondo di quel furore fanatico non era la fame: era la paura, che si voltava in ira sociale, in brama di vendetta, in odio di se stesso e di altri. Come sempre, la plebe attribuiva a quell’immane flagello un significato di punizione celeste, vedeva nell’ira del Vesuvio la collera della Vergine, dei Santi, degli Dei del cristiano Olimpo, corrucciati contro i peccati, la corruzione, i vizii degli uomini. E insieme col pentimento, con la dolorosa brama di espiare, con l’avida speranza di veder puniti i malvagi, con l’ingenua fiducia nella giustizia di una così crudele e ingiusta natura, insieme con la vergogna della propria miseria, di cui il popolo ha una triste consapevolezza, si svegliava nella plebe, come sempre, il vile sentimento dell’impunità, origine di tanti atti nefandi, e la miserabile persuasione che in cosi grande rovina, in cosi immenso tumulto, tutto sia lecito, e giusto. Talché si videro in quei giorni compiere atti turpi e bellissimi, con cieca furia o con fredda ragione, quasi con una meravigliosa disperazione: tanto possono, nelle anime semplici, la paura, e la vergogna dei proprii peccati.
(…) Il tumulto si faceva ad ogni passo più denso e furioso: poiché avviene delle commozioni popolari come nel corpo umano delle commozioni del sangue, che in una medesima parte tende a raccogliersi e a far violenza, ora nel cuore, ora nel cervello, ora in questo o in quel viscere. Dai più lontani quartieri della città il popolo scendeva a raccogliersi in quelli che fin dai più antichi tempi son reputati i luoghi sacri. Il tumulto era immenso, e prendeva talvolta l’aspetto di una sommossa. I soldati americani, confusi in quella spaventosa folla che li menava or qua or la nella sua rapina, voltandoli e percuotendoli, tal la bufera infernale di Dante, parevan anch’essi invasi da un terrore e da un furore antichi. Avevano il viso brutto di sudore e di cenere, le uniformi a brandelli. Ormai umiliati uomini anch’essi, non più uomini liberi, non più orgogliosi vincitori, ma miserabili vinti, in balia della cieca furia della natura; anch’essi inceneriti fin nel profondo dell’animo dal fuoco che bruciava il cielo e la terra. Di quando in quando un cupo, soffocato rombo, propagandosi per le misteriose latebre della terra, scuoteva il lastrico sotto i nostri piedi, faceva sussultare le case. Una voce rauca, profonda, usciva gorgogliando dai pozzi, dalle bocche delle fogne. Le fontane soffiavano vapori sulfurei, o gettavan zampilli di fango bollente. Quel sotterraneo rombo, quella profonda voce, quel fango bollente, stanavano fuor delle viscere della terra la miserabile plebe che in quei dolorosi anni, per sottrarsi agli spietati bombardamenti, s’era rintanata a vivere nei meandri sotterranei
(…) Erano i giorni di Pasqua allieta ogni più squallida casa napoletana, ed e sacro, perché e l’immagine di Cristo. Quella «resurrezione», cui la coincidenza della Pasqua dava un senso atroce, il risorgere dal sepolcro di quelle torme cenciose, era segno sicuro di grave e imminente pericolo. Poiché ciò che non possono ne la fame, ne il colera, ne il terremoto, che e antica credenza ruini i palazzi e i tugurii, ma rispetti le grotte e i cunicoli scavati sotto le fondamenta vesuviane, potevano i fiumi di fango bollente con che il maligno Vesuvio godeva a stanar dalle fogne, come topi, quei poveretti.
Quelle turbe di larve bruttate di fango, che sbucavan da ogni parte di sotterra, quella folla che, simile a un fiume in piena, precipitava schiumando verso la città bassa, e le risse, gli urli, le lacrime, le bestemmie, i canti, le paure e le fughe improvvise, le lotte feroci intorno a un tabernacolo, a una fontana, a una croce, a un forno, facevano dappertutto un orrendo e meraviglioso tumulto (…) Vesuvio rovente, delle fiumane di lava serpeggianti lungo i fianchi del vulcano, dei villaggi in fiamme (il riverbero dell’immane incendio si spandeva fino all’isola di Capri, errante all’orizzonte, fino alle montagne del Cilento bianche di neve), la folla cadeva in ginocchio: e alla vista del mare, tutto coperto di un’orribile pelle chiazzata di verde e di giallo come la pelle di uno schifoso rettile, con alti pianti, con urla bestiali, con bestemmie selvagge, invocava soccorso dal cielo.
E molti si gettavano nelle onde, sperando di poterle calpestare, e miseramente annegavano, incitati dalle imprecazioni e dalle atroci ingiurie della plebe inferocita e gelosa. E la, di fronte a noi, tutto avvolto nel suo mantello di porpora, ci apparve il Vesuvio.
Quello spettrale Cesare dalla testa di cane, seduto sul suo trono di lava e di cenere, spaccava il cielo con la fronte incoronata di fiamme, e orribilmente latrava. L’albero di fuoco che usciva dalla sua gola affondava profondamente nella volta celeste, scompariva negli abissi superni. Fiumi di sangue sgorgavano dalle sue rosse fauci spalancate, e la terra, il cielo, il mare tremavano.
(...) La folla che gremiva le piazze aveva visi piatti e lucidi, screpolati d’ombre bianche e nere, come in una fotografia al lampo di magnesio. Qualcosa di quel che d’immoto, di gelido, di crudele, ha la fotografia, era in quegli occhi sbarrati e fissi, in quei volti intenti, nelle facciate delle case, negli oggetti, e quasi nei gesti. Il bagliore del fuoco batteva nei muri, accendeva le grondaie e i cornicioni delle terrazze: e contro il cielo sanguigno, di un tono cupo, teso al viola, quella gengiva rossa che orlava i tetti contrastava con effetti allucinanti. Turbe di gente traevano al mare sbucando dai cento vicoli che d’ogni parte sfociano nelle piazze, e camminavano col viso rivolto in alto, alle nere nubi, gonfie di lapilli infocati, che rotolavano in cielo a picco sul mare, alle pietre roventi che solcavano l’aria torbida, stridendo, come comete. Clamori terribili si alzavano dalla piazza. E ogni tanto un profondo silenzio cadeva sulla folla: rotto di quando in quando da un gemito, da un pianto, da un grido improvviso, un grido solitario che subito moriva senza frangia d’eco, come un grido sulla nuda vetta di un monte.
La in fondo alla piazza, torme di soldati americani facevan forza contro le cancellate che chiudono il porto, tentando di spezzare le grosse sbarre di ferro. Le sirene delle navi invocavano aiuto con rauchi gridi lamentosi, sui ponti, lungo le murate, si schieravano in gran furia picchetti di marinaj armati, zuffe feroci si accendevano sui moli e sulle passerelle, fra i marinai e le torme di soldati, impazziti dal terrore, che davan l’assalto alle navi per cercar scampo dall’ira del Vesuvio.
(…) Qua e la, perduti nella folla, soldati americani, inglesi, polacchi, francesi, negri, erravano attoniti e sbigottiti, e quali stringevano per il braccio donne piangenti, cercando di farsi largo nella ressa, e pareva che le avessero rubate, quali si lasciavan trascinare dalla corrente, istupiditi dalla crudeltà e dalla novità dell’immane flagello. Negri quasi nudi, come se avessero in quella folla ritrovata l’antica foresta, si aggiravano nel tumulto con le froge dilatate e rosse, i tondi occhi bianchi sporgenti dalla nera fronte, attorniati da branchi di prostitute mezze nude anch’esse, o avvolte nei sacri paludamenti di seta gialla, verde, scarlatta, dei bordelli. E alcuni intonavano certe loro litanie, altri gridavano parole misteriose con acutissima voce, altri invocavano in cadenza il nome di Dio. «Oh God! oh my God!» annaspando con le braccia su quel mare di teste e di facce stravolte, e tenere. Una tenebra verde avvolgeva la funerea campagna. Appena passata Ercolano una pioggia di fango caldo ci sferzò il viso per un lungo tratto. A picco sopra di noi, il Vesuvio ringhiava minaccioso, vomitando alte fontane di pietre roventi, che ricadevano sulla terra stridendo.
(...) Poco prima di Torre del Greco ci sorprese un’improvvisa pioggia di lapilli. Ci riparammo dietro il muro di una casa, presso la marina. Il mare di Torre del Greco era di un meraviglioso color verde, pareva una testuggine di rame antico. Un veliero solcava lentamente la dura crosta del mare, dove la pioggia di lapilli rimbalzava con un crepitio sonoro. Nel luogo dove eravamo si stendeva, a ridosso di un’alta roccia che lo riparava dal vento, un breve prato, sparso di cespugli di rosmarino e di ginestre fiorite. L’erba era di un color verde acerbissimo, un verde crudo e lucente, di un bagliore cosi vivo, cosi inatteso, cosi nuovo, che pareva appena allora creato: un verde ancora vergine, sorpreso nel momento della sua creazione, nei primi istanti della creazione del mondo. Quell’erba scendeva fin quasi a toccare il mare: che, per contrasto, appariva di un verde gia stanco, come se il mare appartenesse a un mondo gia antico, da remoto tempo creato. Intorno a noi la campagna, sepolta sotto la cenere, era qua e la bruciata e sconvolta dalla matta violenza della natura, da quel ritornato caos. Gruppi di soldati americani, il viso chiuso dentro maschere di gomma e di rame simili a celate di antichi guerrieri, andavano vagando per la campagna, e recavan barelle, raccoglievan feriti, avviavano gruppi di donne e di bambini verso una colonna di macchine ferma sull’autostrada. Alcuni morti eran distesi in margine alla strada, presso una casa diroccata: avevano il viso murato dentro un guscio di cenere bianca e dura, talché pareva avessero un uovo al posto del capo. Erano morti ancora informi, non del tutto creati, i primi morti della creazione. I lamenti dei feriti venivano fino a noi da una zona posta di la dall’amore, di la dalla pietà, di la dalla frontiera fra il caos e la natura gia composta nell’ordine divino della creazione: erano l’espressione di un sentimento non ancora conosciuto dagli uomini, di un dolore non ancora sofferto dagli esseri viventi pur mo’ creati, erano la profezia della sofferenza, che veniva fino a noi da un mondo ancora in gestazione, ancora immerso nel tumulto del caos.
E li, su quel breve mondo d’erba verde, appena uscito dal caos, ancora fresco del travaglio della creazione, ancora vergine, un gruppo d’uomini scampati al flagello dormivano distesi sulla schiena, il viso rivolto al cielo. Avevano visi bellissimi, dalla pelle non bruttata di cenere e di fango, ma chiara, come lavata dalla luce: erano visi nuovi, appena modellati, dalla fronte alta e nobile, dalle labbra pure. Erano distesi nel sonno, su quell’erba verde, come uomini scampati al diluvio sulla vetta del primo monte emerso dalle acque. Una ragazza, in piedi sulla riva sabbiosa, la dove l’erba verde moriva nelle onde, si pettinava guardando il mare. Guardava il mare come una donna si mira in uno specchio. Da quell’erba nuova, appena creata, ella nuova alla vita, ella appena nata, si mirava nell’antico specchio della creazione con un sorriso di felice stupore, e il riflesso del mare antico tingeva di un verde stanco i suoi lunghi, morbidi capelli, la sua pelle liscia e bianca, le sue mani piccole e forti. Si pettinava lentamente, e il suo gesto era gia d’amore.
Una donna vestita di rosso, seduta sotto un albero, allattava il suo bambino. E il seno, sporgente fuor del corpetto rosso, era bianchissimo, splendeva come il primo frutto di un albero appena sorto dalla terra, come il seno della prima donna della creazione. Un cane, accucciato presso gli uomini addormentati, seguiva con gli occhi i gesti lenti e sereni della donna. Alcune pecore brucavano l’erba, e ogni tanto alzavano la fronte, guardando il mare verde. Quegli uomini, quelle donne, quegli animali, erano vivi, erano salvi. Lavati dei loro peccati. Gia assolti della viltà, della miseria, della fame, dei vizii e dei delitti degli uomini. Avevano gia scontato la morte, e la discesa all’inferno, e la resurrezione. (…)".

Curzio Malaparte

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