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Argomento presente: « MALAPARTE - TORRE ERUZIONE 1944 »
ID: 1701  Discussione: MALAPARTE - TORRE ERUZIONE 1944

Autore: Luigi Mari  - Email: info@torreomnia.com  - Scritto o aggiornato: domenica 26 gennaio 2014 Ore: 23:22

SOTTO IL CAPITOLO DEL LIBRO "LA PELLE" DEL GRANDE SCRITTORE CURZIO MALAPARTE DEDICATO ALLA ZONA VESUVIANA E AMBIENTATO A TORRE DEL GRECO DURANTE L'ERUZIONE DEL 1944 NELLA SECONDA GUERRA MONDIALE


Signori,
l'identificativo 1700 di Nicola Sannino nella discussione "IL VESUVIO E' UN DIAVOLO" mi ha indotto a stilare questa discussione per senso di responsabilità.


Si è in grado di ricostruire la storia del Vulcano degli ultimi 20.000 anni. Tutto sommato appena DUE catastrofiche eruzioni avvennero in OTTOMILA anni (da 20.000 a 12.000); da NOVEMILA anni fa sino all'anno 100 cristiano ve ne sono state appena altre TRE pliniane. Insomma in VENTIMILA ANNI solo CINQUE ERUZIONI ESPLOSIVE. D’altra parte in 20.000 anni, secondo il vecchio testamento, c’è stata pure una fine del mondo, e mica ci siamo preoccupati? Stiamo qua!

Gli eventi catastrofici del Vesuvio, dunque, sono rari ed avvengono quindi alla distanza di centinaia di anni.


Un’eruzione simile a quella del 1944 potrebbe essere, in fondo, un ottimo business per i torresi, ma speriamo che nemmeno una simile a quella rivenga, ad ogni buon pro.

Riporto la superba, insuperabile, lirica, straordinaria, dettagliatissima descrizione dell’eruzione del 1944 del grande scrittore Curzio Malaparte. Sono alcuni stralci delle pagine più belle della letteratura mondiale ambientate nella nostra zona, (come l’altro capitolo sempre del Libro “La pelle” ambientato a Torre del Greco: “Il figlio di Adamo” i cui stralci sono pure presenti in questo forum).

La descrizione di Malaparte non è solo geo-vulcanologica, ma profondamente umana, e straordinariamente cristiana e sociale, che riporta magistralmente nei particolari più minuti le reazioni, i moti dell’animo, le emozioni, il terrore dei torresi in quei giorni, come solo la penna di un grande scrittore sa fare. L’eruzione fece, come è noto più danni architettonici che umani.


NON LEGGERE QUESTA PAGINA SAREBBE UN ...SACRILEGIO CULTURALE.


Come per “Il figlio di Adamo” di Malaparte (Altro capitolo del Nostro, ambientato a Torre, sono stati estrapolati solo alcuni stralci essenziali del lungo capitolo. "La pelle" di Curzio Malaparte. Ediz. 1967. Vallecchi editore. Un grande, discusso, amato, contrastato, apprezzato, vilipeso capolavoro della letteratura mondiade del XX secolo.



"1944 (…) un grido terribile sconvolse la notte e un immenso bagliore di sangue illuminò il cielo a oriente; squarciato da un’immensa ferita, sanguinava, e il sangue tingeva di rosso il mare. L’orizzonte si sgretolava, ruinando in un abisso di fuoco. Scossa da profondi sussulti, la terra tremava, le case oscillavano sulle fondamenta, e già si udivano i tonfi sordi dei tegoli e dei calcinacci che, staccandosi dai tetti e dai cornicioni delle terrazze, precipitavano sul lastrico delle strade, segni forieri di una universale rovina.
Uno scricchiolio orrendo correva nell’aria, come d’ossa rotte, stritolate. E su quell’alto strepito, sui pianti, sugli urli di terrore del popolo, che correva qua e là brancolando per le vie come cieco, si alzava, squarciando il cielo, un terribile grido.
Il Vesuvio urlava nella notte, sputando sangue e fuoco. Dal giorno che vide l’ultima rovina di Ercolano e di Pompei, sepolte vive nella tomba di cenere e di lapilli, non s’era mai udita in cielo una cosi orrenda voce. Un gigantesco albero di fuoco sorgeva altissimo fuor della bocca del vulcano: era un’immensa, meravigliosa colonna di fumo e di fiamme, che affondava nel firmamento fino a toccare i pallidi astri.
Lungo i fianchi del Vesuvio, fiumi di lava scendevano verso i villaggi sparsi nel verde dei vigneti. Il bagliore sanguigno della lava incandescente era così vivo, che per un immenso spazio intorno i monti e la pianura n’erano percossi con incredibile violenza. Boschi, fiumi, case, prati, campi, sentieri, apparivano nitidi e precisi, come mai avviene di giorno: e il ricordo del sole era gia lontano e sbiadito.
Si vedevano i monti di Agerola e i gioghi di Avellino spaccarsi all’improvviso, svelando i segreti delle loro verdi valli, delle loro selve. E sebbene la distanza fra il Vesuvio e il Monte di Dio, dall’alto del quale contemplavamo, muti d’orrore, quel meraviglioso spettacolo, fosse di molte miglia, il nostro occhio, esplorando e frugando la campagna vesuviana, poc’anzi quieta sotto la luna, scorgeva, quasi ravvicinati e ingranditi da una forte lente, uomini, donne, animali, fuggire nei vigneti, nei campi, nei boschi, o errar fra le case dei villaggi, che le fiamme gia lambivano d’ogni parte.
(...) E non solo coglieva i gesti, gli atteggiamenti, ma discerneva fin gli irti capelli, le arruffate barbe, gli occhi fissi, e le bocche spalancate. Pareva perfino di udire il roco sibilo che erompeva dai petti. L’aspetto del mare era forse più orribile che non 1’aspetto della terra. Fin dove giungeva lo sguardo, non appariva che una dura crosta e livida, tutta sparsa di buche simili ai segni di qualche mostruoso vaiolo: e sotto quella immota crosta s’indovinava l’urgenza di una straordinaria forza, di un furore a stento trattenuto, quasi che il mare minacciasse di sollevarsi dal profondo, di spezzar la sua dura schiena di testuggine, per far guerra alla terra e spegnere i suoi orrendi furori.

(...) Davanti a Portici, a Torre del Greco, a Torre Annunziata, a Castellammare, si scorgevano barche allontanarsi in gran fretta dalla perigliosa riva, col solo, disperato aiuto dei remi, poiché il vento, che sulla terra soffiava con violenza, sul mare cadeva come un uccello morto: e altre barche accorrere da Sorrento, da Meta. da Capri, per portar soccorso agli sventurati abitanti dei paesi marini, stretti dalla furia del fuoco.
Torrenti di fango scendevano pigri giù dai fianchi del Monte Somma, avvolgendosi su se stessi come nere serpi; e dove i torrenti di fango incontravano i fiumi di lava, alte nubi di vapore purpureo si alzavano, e un sibilo orrendo giungeva sino a noi, quale lo stridore del ferro rovente immerso nell’acqua.
Un’immensa nube nera, simile al sacco della seppia, (e seccia e chiamata appunto tal nube), gonfia di cenere e di lapilli infocati, si andava strappando a fatica dalla vetta del Vesuvio e, spinta dal vento, che per miracolosa fortuna di Napoli soffiava da nord-ovest, si trascinava lentamente nel cielo verso Castellammare di Stabia. Lo strepito che faceva quella nera nube gonfia di lapilli rotolando nel cielo era simile al cigolio di un carro carico di pietre, che si avvii per una strada sconvolta.
Ogni tanto, da qualche strappo della nube, si rovesciava sulla terra e sul mare un diluvio di lapilli, che cadevano sui campi e sulla dura crosta delle onde col fragore, appunto, di un carro di pietre che rovesci il suo carico: e i lapilli, toccando il terreno e la dura crosta marina, sollevavano nembi di polvere rossastra, che si spandeva in cielo oscurando gli astri.
Il Vesuvio gridava orribilmente nelle tenebre rosse di quella spaventosa notte, e un pianto disperato si levava dall’infelice città.
(…) I muri di uno stretto vicolo erano percossi da un tal furore di luce vermiglia, uomini che camminavamo come ciechi, brancolando. Da tutte le finestre, gente ignuda si sporgeva agitando le braccia, con alte grida e striduli pianti chiamandosi l’un l’atro, e coloro che fuggivano per le strade alzavano il viso gridando anch’essi e piangendo, senza arrestar ne rallentare la precipitosa fuga. Per ogni parte gente d’aspetto miserabile e feroce, quali vestiti di stracci, quali nudi, accorreva portando ceri e torce alle Madonne e ai Santi dei tabernacoli, o inginocchiata sul lastrico invocava ad alta voce l’aiuto della Vergine e di San Gennaro, battendosi il petto e lacerandosi il viso con selvagge lacrime.
Come avviene in un grande e disperato pericolo, che un’immagine sacra, o il debole chiarore di una candela in un tabernacolo, richiama all’improvviso al cuore il ricordo di una fede da tanto tempo negletta, e riaccende speranze, pentimenti, timori, e la fiducia, da tempo negata, o dimenticata, in Dio, e l’uomo che aveva dimenticato Dio si ferma, e stupito, commosso, contempla la sacra immagine, e il cuore gli trema, tutto acceso d’amore, cosi avvenne a Jack.
Si fermo all’improvviso davanti a un tabernacolo, e si copri il viso con le mani, gridando: « Oh Lord! oh my Lord! » A quel grido rispose dal fondo del tabernacolo un pigolio, come d’uccelli. E udimmo un debole batter d’ali, un fremito come d’uccelli in un nido. Jack si ritrasse spaventato.
« Non aver paura, Jack, » gli dissi stringendogli il braccio, « son gli uccelli della Madonna. In quei terribili anni, non appena le sirene d’allarme annunziavano l’avvicinarsi dei bombardieri nemici, tutti i poveri uccellini vesuviani andavano a rifugiarsi nei tabernacoli.
Eran passeri, eran rondini, dalle piume arruffate, dai tondi occhi lucenti sotto la palpebra bianca. Si nascondevano in fondo ai tabernacoli come in un nido, stretti l’uno all’altro e tremanti, fra le statuine di cera e di cartapesta delle anime del Purgatorio.
«Credi che li abbia spaventati?» mi domando Jack a voce bassa. E ci allontanammo in punta di piedi, per non spaventare gli uccellini della Madonna.
Vecchi quasi nudi, dagli stinchi scarniti e bianchicci, camminavano reggendosi ai muri, la fronte avvolta di candidi capelli arruffati dal vento della paura, e venivan gridando monche parole, che mi parevan latine, ed eran forse magiche formule rituali di maledizione, o di esortazione a pentirsi, a confessare ad alta voce i proprii peccati, a prepararsi cristianamente alla morte.
Torme di popolane dalla faccia stravolta procedevano in furia, quasi correndo, strette l’una all’altra come guerrieri all’assalto di una fortezza, e correndo gridavano alla gente, gesticolante e piangente alle finestre, insulti osceni e minacce, esortandola a pentirsi delle comuni infamie, poiché era finalmente venuto il giorno del giudizio, e il castigo di Dio non avrebbe risparmiato ne donne, ne vecchi, ne bambini.
A quegli insulti e a quelle minacce la gente dalle finestre rispondeva con alti pianti, con ingiurie atroci e imprecazioni nefande, cui dalla strada la folla faceva eco con gemiti e grida, tendendo i pugni al cielo e orribilmente singhiozzando. Finche la folla irruppe nella casa, e ne usci trascinando per i capelli ignude puttane e soldati negri sanguinanti e atterriti, che la vista del cielo in fiamme, delle nubi di lapilli sospese sul mare, e del Vesuvio avvolto nel suo orrendo sudario di fuoco, faceva umili come bambini spauriti. All’assalto ai bordelli si accompagnava quello ai forni e alle macellerie.
Il popolo, come sempre, al suo cieco furore mescolava la sua antica fame. Ma il fondo di quel furore fanatico non era la fame: era la paura, che si voltava in ira sociale, in brama di vendetta, in odio di se stesso e di altri. Come sempre, la plebe attribuiva a quell’immane flagello un significato di punizione celeste, vedeva nell’ira del Vesuvio la collera della Vergine, dei Santi, degli Dei del cristiano Olimpo, corrucciati contro i peccati, la corruzione, i vizii degli uomini.
E insieme col pentimento, con la dolorosa brama di espiare, con l’avida speranza di veder puniti i malvagi, con l’ingenua fiducia nella giustizia di una così crudele e ingiusta natura, insieme con la vergogna della propria miseria, di cui il popolo ha una triste consapevolezza, si svegliava nella plebe, come sempre, il vile sentimento dell’impunità, origine di tanti atti nefandi, e la miserabile persuasione che in cosi grande rovina, in cosi immenso tumulto, tutto sia lecito, e giusto. Talché si videro in quei giorni compiere atti turpi e bellissimi, con cieca furia o con fredda ragione, quasi con una meravigliosa disperazione: tanto possono, nelle anime semplici, la paura, e la vergogna dei proprii peccati. (…)
Il tumulto si faceva ad ogni passo più denso e furioso: poiché avviene delle commozioni popolari come nel corpo umano delle commozioni del sangue, che in una medesima parte tende a raccogliersi e a far violenza, ora nel cuore, ora nel cervello, ora in questo o in quel viscere. Dai più lontani quartieri della città il popolo scendeva a raccogliersi in quelli che fin dai più antichi tempi son reputati i luoghi sacri. Il tumulto era immenso, e prendeva talvolta l’aspetto di una sommossa. I soldati americani, confusi in quella spaventosa folla che li menava or qua or la nella sua rapina, voltandoli e percuotendoli, tal la bufera infernale di Dante, parevan anch’essi invasi da un terrore e da un furore antichi. Avevano il viso brutto di sudore e di cenere, le uniformi a brandelli. Ormai umiliati uomini anch’essi, non più uomini liberi, non più orgogliosi vincitori, ma miserabili vinti, in balia della cieca furia della natura; anch’essi inceneriti fin nel profondo dell’animo dal fuoco che bruciava il cielo e la terra.
Di quando in quando un cupo, soffocato rombo, propagandosi per le misteriose latebre della terra, scuoteva il lastrico sotto i nostri piedi, faceva sussultare le case.
Una voce rauca, profonda, usciva gorgogliando dai pozzi, dalle bocche delle fogne. Le fontane soffiavano vapori sulfurei, o gettavan zampilli di fango bollente.
Quel sotterraneo rombo, quella profonda voce, quel fango bollente, stanavano fuor delle viscere della terra la miserabile plebe che in quei dolorosi anni, per sottrarsi agli spietati bombardamenti, s’era rintanata a vivere nei meandri sotterranei (…)

Erano i giorni di Pasqua allieta ogni più squallida casa napoletana, ed e sacro, perché e l’immagine di Cristo. Quella «resurrezione», cui la coincidenza della Pasqua dava un senso atroce, il risorgere dal sepolcro di quelle torme cenciose, era segno sicuro di grave e imminente pericolo. Poiché ciò che non possono ne la fame, ne il colera, ne il terremoto, che e antica credenza ruini i palazzi e i tugurii, ma rispetti le grotte e i cunicoli scavati sotto le fondamenta vesuviane, potevano i fiumi di fango bollente con che il maligno Vesuvio godeva a stanar dalle fogne, come topi, quei poveretti.
Quelle turbe di larve bruttate di fango, che sbucavan da ogni parte di sotterra, quella folla che, simile a un fiume in piena, precipitava schiumando verso la città bassa, e le risse, gli urli, le lacrime, le bestemmie, i canti, le paure e le fughe improvvise, le lotte feroci intorno a un tabernacolo, a una fontana, a una croce, a un forno, facevano dappertutto un orrendo e meraviglioso tumulto (…) Vesuvio rovente, delle fiumane di lava serpeggianti lungo i fianchi del vulcano, dei villaggi in fiamme (il riverbero dell’immane incendio si spandeva fino all’isola di Capri, errante all’orizzonte, fino alle montagne del Cilento bianche di neve), la folla cadeva in ginocchio: e alla vista del mare, tutto coperto di un’orribile pelle chiazzata di verde e di giallo come la pelle di uno schifoso rettile, con alti pianti, con urla bestiali, con bestemmie selvagge, invocava soccorso dal cielo.
E molti si gettavano nelle onde, sperando di poterle calpestare, e miseramente annegavano, incitati dalle imprecazioni e dalle atroci ingiurie della plebe inferocita e gelosa. E la, di fronte a noi, tutto avvolto nel suo mantello di porpora, ci apparve il Vesuvio. Quello spettrale Cesare dalla testa di cane, seduto sul suo trono di lava e di cenere, spaccava il cielo con la fronte incoronata di fiamme, e orribilmente latrava.
L’albero di fuoco che usciva dalla sua gola affondava profondamente nella volta celeste, scompariva negli abissi superni. Fiumi di sangue sgorgavano dalle sue rosse fauci spalancate, e la terra, il cielo, il mare tremavano. (...) La folla che gremiva le piazze aveva visi piatti e lucidi, screpolati d’ombre bianche e nere, come in una fotografia al lampo di magnesio. Qualcosa di quel che d’immoto, di gelido, di crudele, ha la fotografia, era in quegli occhi sbarrati e fissi, in quei volti intenti, nelle facciate delle case, negli oggetti, e quasi nei gesti.
Il bagliore del fuoco batteva nei muri, accendeva le grondaie e i cornicioni delle terrazze: e contro il cielo sanguigno, di un tono cupo, teso al viola, quella gengiva rossa che orlava i tetti contrastava con effetti allucinanti. Turbe di gente traevano al mare sbucando dai cento vicoli che d’ogni parte sfociano nelle piazze, e camminavano col viso rivolto in alto, alle nere nubi, gonfie di lapilli infocati, che rotolavano in cielo a picco sul mare, alle pietre roventi che solcavano l’aria torbida, stridendo, come comete. Clamori terribili si alzavano dalla piazza.
E ogni tanto un profondo silenzio cadeva sulla folla: rotto di quando in quando da un gemito, da un pianto, da un grido improvviso, un grido solitario che subito moriva senza frangia d’eco, come un grido sulla nuda vetta di un monte. La in fondo alla piazza, torme di soldati americani facevan forza contro le cancellate che chiudono il porto, tentando di spezzare le grosse sbarre di ferro.
Le sirene delle navi invocavano aiuto con rauchi gridi lamentosi, sui ponti, lungo le murate, si schieravano in gran furia picchetti di marinaj armati, zuffe feroci si accendevano sui moli e sulle passerelle, fra i marinai e le torme di soldati, impazziti dal terrore, che davan l’assalto alle navi per cercar scampo dall’ira del Vesuvio. (…)
Qua e la, perduti nella folla, soldati americani, inglesi, polacchi, francesi, negri, erravano attoniti e sbigottiti, e quali stringevano per il braccio donne piangenti, cercando di farsi largo nella ressa, e pareva che le avessero rubate, quali si lasciavan trascinare dalla corrente, istupiditi dalla crudeltà e dalla novità dell’immane flagello. Negri quasi nudi, come se avessero in quella folla ritrovata l’antica foresta, si aggiravano nel tumulto con le froge dilatate e rosse, i tondi occhi bianchi sporgenti dalla nera fronte, attorniati da branchi di prostitute mezze nude anch’esse, o avvolte nei sacri paludamenti di seta gialla, verde, scarlatta, dei bordelli. E alcuni intonavano certe loro litanie, altri gridavano parole misteriose con acutissima voce, altri invocavano in cadenza il nome di Dio.
«Oh God! oh my God!» annaspando con le braccia su quel mare di teste e di facce stravolte, e tenere.
Una tenebra verde avvolgeva la funerea campagna. Appena passata Ercolano una pioggia di fango caldo ci sferzò il viso per un lungo tratto. A picco sopra di noi, il Vesuvio ringhiava minaccioso, vomitando alte fontane di pietre roventi, che ricadevano sulla terra stridendo.

(...) Poco prima di Torre del Greco ci sorprese un’improvvisa pioggia di lapilli. Ci riparammo dietro il muro di una casa, presso la marina. Il mare di Torre del Greco era di un meraviglioso color verde, pareva una testuggine di rame antico. Un veliero solcava lentamente la dura crosta del mare, dove la pioggia di lapilli rimbalzava con un crepitio sonoro.
Nel luogo dove eravamo si stendeva, a ridosso di un’alta roccia che lo riparava dal vento, un breve prato, sparso di cespugli di rosmarino e di ginestre fiorite. L’erba era di un color verde acerbissimo, un verde crudo e lucente, di un bagliore cosi vivo, cosi inatteso, cosi nuovo, che pareva appena allora creato: un verde ancora vergine, sorpreso nel momento della sua creazione, nei primi istanti della creazione del mondo. Quell’erba scendeva fin quasi a toccare il mare: che, per contrasto, appariva di un verde gia stanco, come se il mare appartenesse a un mondo gia antico, da remoto tempo creato. Intorno a noi la campagna, sepolta sotto la cenere, era qua e la bruciata e sconvolta dalla matta violenza della natura, da quel ritornato caos. Gruppi di soldati americani, il viso chiuso dentro maschere di gomma e di rame simili a celate di antichi guerrieri, andavano vagando per la campagna, e recavan barelle, raccoglievan feriti, avviavano gruppi di donne e di bambini verso una colonna di macchine ferma sull’autostrada. Alcuni morti eran distesi in margine alla strada, presso una casa diroccata: avevano il viso murato dentro un guscio di cenere bianca e dura, talché pareva avessero un uovo al posto del capo. Erano morti ancora informi, non del tutto creati, i primi morti della creazione. I lamenti dei feriti venivano fino a noi da una zona posta di la dall’amore, di la dalla pietà, di la dalla frontiera fra il caos e la natura gia composta nell’ordine divino della creazione: erano l’espressione di un sentimento non ancora conosciuto dagli uomini, di un dolore non ancora sofferto dagli esseri viventi pur mo’ creati, erano la profezia della sofferenza, che veniva fino a noi da un mondo ancora in gestazione, ancora immerso nel tumulto del caos.
E li, su quel breve mondo d’erba verde, appena uscito dal caos, ancora fresco del travaglio della creazione, ancora vergine, un gruppo d’uomini scampati al flagello dormivano distesi sulla schiena, il viso rivolto al cielo. Avevano visi bellissimi, dalla pelle non bruttata di cenere e di fango, ma chiara, come lavata dalla luce: erano visi nuovi, appena modellati, dalla fronte alta e nobile, dalle labbra pure. Erano distesi nel sonno, su quell’erba verde, come uomini scampati al diluvio sulla vetta del primo monte emerso dalle acque.
Una ragazza, in piedi sulla riva sabbiosa, la dove l’erba verde moriva nelle onde, si pettinava guardando il mare. Guardava il mare come una donna si mira in uno specchio. Da quell’erba nuova, appena creata, ella nuova alla vita, ella appena nata, si mirava nell’antico specchio della creazione con un sorriso di felice stupore, e il riflesso del mare antico tingeva di un verde stanco i suoi lunghi, morbidi capelli, la sua pelle liscia e bianca, le sue mani piccole e forti. Si pettinava lentamente, e il suo gesto era gia d’amore.
Una donna vestita di rosso, seduta sotto un albero, allattava il suo bambino. E il seno, sporgente fuor del corpetto rosso, era bianchissimo, splendeva come il primo frutto di un albero appena sorto dalla terra, come il seno della prima donna della creazione. Un cane, accucciato presso gli uomini addormentati, seguiva con gli occhi i gesti lenti e sereni della donna. Alcune pecore brucavano l’erba, e ogni tanto alzavano la fronte, guardando il mare verde. Quegli uomini, quelle donne, quegli animali, erano vivi, erano salvi. Lavati dei loro peccati. Gia assolti della viltà, della miseria, della fame, dei vizii e dei delitti degli uomini. Avevano gia scontato la morte, e la discesa all’inferno, e la resurrezione. (…)".
Curzio Malaparte

 
 

ID: 16200  Intervento da: la redazione  - Email: info@torreomnia.it  - Data: domenica 26 gennaio 2014 Ore: 23:22

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ID: 1734  Intervento da: messaggio libero  - Email: e-mail@inesistente.00  - Data: sabato 30 aprile 2005 Ore: 16:24

Amici miei,
non so come viene in mente alla gente di riportare in rete testi allarmanti sul Vesuvio. L'intervento di Luigi Mari e di Antonio Abbagnano ci hanno rassicurati.
Voglio contribuire a vedere il lato poetico e folkloristico del Vesuvio riportando in questo messaggio la canzone Funiculì funiculà conosciuta in tutto il mondo con traduzione anche in italiano. Almeno una nota di allegria. (Musica di Luigi Denza, testo di Peppino Turco, 1880)
La canzone fu scritta dal giornalista Peppino Turco e fu musicata da Luigi Denza nel lontano 1880. L’evento che ne ispirò la nascita fu l’inaugurazione della prima funicolare del Vesuvio, sempre nel 1880, e servì ad avvicinare i turisti e gli stessi napoletani alla funicolare. Gli autori impiegarono solo poche ore per comporre Funiculì funiculà, ma nonostante ciò la canzone fu un successo. La celebre melodia fu cantata per la prima volta nei saloni dell’Albergo Quisisana di Castellammare di Stabia. Turco e Denza ebbero l’occasione di presentarla alla festa di Piedigrotta dello stesso anno, e la canzone risultò essere la più cantata ed ottenne il risultato sperato. Il successo riscosso contribuì a diffondere la canzone napoletana nel mondo, ed a richiamare flotte di turisti provenienti da tutto il mondo.

(Funiculì funiculà - Gamboni, Neri)
Testo originale in dialetto napoletano

Aieressera, oi' ne', me ne sagliette,
tu saie addo'?
Addo' 'stu core 'ngrato cchiu' dispietto farme nun po'!
Addo' lo fuoco coce, ma si fuie
te lassa sta!
E nun te corre appriesso, nun te struie, 'ncielo a guarda'!...
Jammo 'ncoppa, jammo ja',
funiculi', funicula'!


Ne'... jammo da la terra a la montagna! no passo nc'e'!
Se vede Francia, Proceta e la Spagna...
Io veco a tte!
Tirato co la fune, ditto 'nfatto,
'ncielo se va..
Se va comm' 'a lu viento a l'intrasatto, gue', saglie sa'!
Jammo 'ncoppa, jammo ja',
funiculi', funicula'!


Se n' 'e' sagliuta, oi' ne', se n' 'e' sagliuta la capa già!
E' gghiuta, po' e' turnata, po' e' venuta...
sta sempe cca'!
La capa vota, vota, attuorno, attuorno,
attuorno a tte!
Sto core canta sempe nu taluorno
Sposammo, oi' ne'!
Jammo 'ncoppa, jammo ja',
funiculi', funicula'!


Traduzione per i "nordisti".


Ieri sera, Annina, me ne salii,
tu sai dove?
Dove questo cuore ingrato non può farmi più dispetto
Dove il fuoco scotta, ma se fuggi
ti lascia stare!
E non ti rincorre, non ti stanca,
a guardare in cielo!...
Andiamo su, andiamo andiamo,
funiculi', funicula'!


Andiamo dalla terra alla montagna!
non c'è un passo!
Si vede Francia, Procida e la Spagna...
Io vedo te!
Tirati con la fune, detto e fatto,
in cielo si va..
Si va come il vento all'improvviso,
sali sali!
Andiamo su, andiamo andiamo,
funiculi', funicula'!


Se n'e' salita, Annina, se n'e' salita
la testa già!
E' andata, poi è tornata, poi è venuta...
sta sempre qua!
La testa gira, gira, intorno, intorno,
intorno a te!
Questo cuore canta sempre un giorno Sposami, Annina!
Andiamo su, andiamo andiamo,
funiculi', funicula'!

Asdrubale


ID: 1702  Intervento da: nicola scognamiglio  - Email: nicoscogna@libero.it  - Data: mercoledì 27 aprile 2005 Ore: 16:29

Un saluto a tutti. Grazie, Mari.
Tu sei la guida spirituale ed intellettuale dei vesuviani. Non avevo mai visto nulla di simile prima di Torreomnia, dove li scovi questi testi, come fai a coordinare tutto a mettere ogni cosa a suo posto e a trovare un posto per ogni cosa?
Nelle mie parole c'è solo ammirazione spontanea, Dio mi fulmini se nascondo uno scopo diverso o se voglia semplicemente esibirmi nel fare dei complimenti a un vincente.
E' bello leggere argomenti vesuviani di veri professionisti come Kurt Erick Suckert (Malaparte) accreditati e tradotti in tutto il mondo, e non la solita solfa dei sedicenti eruditi locali che credono che basta far mettere ad una tipografia inchiostro su carta da stampa e fruire della presentazione di un nome conosciuto, per farsi chiamare scrittori. Se fossi carta o inchiostro mi offenderei. Ho imparato da Te chiamare questa "roba" zavorra. Un tedesco ha descritto la nostra terra meglio di noi.
Meno male che in quanto alla letture c'è pigrizia mentale, specie sotto il nostro generoso sole e il suadente mare vesuviani, almeno molti aborti letterari vengono fatti riposare in pace negli stigli domestici adibiti a biblioteche.
Ma grazie a Te queste "reliquie" della letteratura vera le piazzi al punto giusto come il cacio sui maccheroni. Forse siamo stati troppo impegnati con i libri di scuola, noi altri, con i testi di aggiornamento, con i successivi studi per i concorsi, per le specializzazioni. Ma non ci illudiamo, però, di "scrivere" perché offendiamo l'intelligenza di chi legge, poiché chi prende un libro in mano ed è avvezzo a leggere sicuramente ne sa di più di chi ha scritto male o ha non scritto.
Tu sei un vecchio topo di tipografia, per forza, sei infarinato nella letteratura come un pesce prima d'essere fritto. Eppure Tu non hai nulla all'attivo a parte Magonza e qualche testo esplicativo sulle opere multimediali. Perché?
Predichi e postuli narrativa a destra e a manca, ma a chi aspetti? Te l'ho già detto in un altro messaggio, con Torreomnia dai anche perle ai porci. Il Tuo capolavoro elettronico è già compiuto. Nessuno è così stupido di avanzare la benché minima critica, su una stella che brilla di luce propria, altrimenti si autodefinirebbe fesso e ignorante.
Per questo il forum difetta in scrittura e coloro che producono ciarle si affacciano, fanno un post e si ritirano. Dire Forum di Torre del Greco, poi è quanto dire. Abbiamo terrore sotto il Vesuvio di essere letti nell’anima, di scoprirci. Hai detto bene Tu in un messaggio: meno male che la coscienza non si vede.
Chiamalo Forum di Milano, di Roma, di Roccaravindola, di Pollenatrocchia e vedi che già le cose cambiano. Per troppi anni alcune persone da noi si sono auto-allineate nella pseudo-rosa degli intellettualoidi (non intellettuali, quelli sono i veri), e non possono sentirsi defenestrati e spodestati così, da un momento all'altro.
Mari, fa che il Tuo prezioso tempo sia speso bene e non solo costruendo torri altissime che arrivano al cielo della gloria e dell'onore della città ma che vengono abitate a sbafo e senza riconoscenza. Non pensare più alla città, l'hai fatto abbastanza e per troppo tempo. Pensa un po' a Te, adesso.
L'osservazione Tua sulla situazione globale dell'attività de Vesuvio è convincente. Straordinaria la frase. "In 20.000 anni abbiamo già subito una fine del mondo e mica ci siamo preoccupati? Siamo qua". Sei unico Luigi, anche senza arca. Non temo più per i miei parenti a Torre. Il Vesuvio non c’è è una nostra illusione è la punizione segreta per la nostra incapacità di amare non già solo il nostro simile, ma soprattutto i nostri concittadini il “nostro sangue corallino”.
Pazienza Luigi, il mondo va male perché tutti fanno quello che fanno gli altri e non come quelli che fanno bene. E lo scotto di quelli che fanno bene è paradossalmente il rischio di diventare impopolare.
Tuta est hominum tenuitas, magnae periclo sunt opes obnoxiae...

Ti abbraccio
Nicola


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