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Argomento presente: « LA NUOVA ARCADIA A TORRE? »
ID: 1679  Discussione: LA NUOVA ARCADIA A TORRE?

Autore: Luigi Mari  - Email: info@torreomnia.com  - Scritto o aggiornato: giovedì 2 novembre 2006 Ore: 00:22

Signori,
stamane un gruppo di componenti la "galassia Torreomnia" si è riunita occasionalmente in un salotto letterario di fortuna presso il "Gambrinus torrese", l'"Olimpiade, ex Casolaro prospiciente le Poste centrali a Via Vittorio Veneto.
I componenti il "Convivio" sono stati Antonio Abbagnano, Peppe D'Urzo, Paolo Di Luca, Carlo Boccia, Enzo Palomba e il sottoscritto e la platea circostante che hanno finalmente "auscultato" argomenti diversi dal calcio e dal Consiglio comunale.
Ed io ho subito ricordato il famoso Caffè Gambrinus del secolo scorso. Il bar di antica origine. Molti sanno che dalla Turchia si estese a Napoli per la particolare abitudine della consumazione del caffè diffusosi col regime spagnolo. Il primo bar fu proprio il "Caffè", dove persone di cultura amavano raccogliersi per degustare tale bevanda e intrattenersi in argomenti letterari.
Mentre discutevo con i cari torresi "letterati" ciascuno con monodialoghi, (è tipico torrese), presso il "caffè" Olimpiade rivedevo la Napoli, del 7-800, dove videro la luce più di cento "Caffè" tra i quali segnalo per la loro importanza: il Diodati, il Fortuna, il S. Apostoli, il Caffè dei Tribunali (ovviamente sempre pieno di avvocati e "pagliette"), il Bar Starace (meta di Antonio Petito), il Caffè Vacca (in Villa comunale), il Caffè d'Italia (in via Toledo, che annoverava tra i suoi clienti Francesco Mastriani, autore di 100 lunghi romanzi).
Per un po' la posta centrale di Torre si è dissolta, i nostri abiti sono tornati di fattura ottocentesca Abbagnano con marsina, Boccia con parrucca incipriata; carrozzelle e non automobili nella Via Veneto torrese. Sarò folle, ma ero seduto innanzi al caffè culturale per antonomasia, il Gambrinus all'angolo di via Chiaia, stamane ed è stato il 1850 e non 2005. Mi sono trovato per incanto tra la nuova e la vecchia Napoli: la poetica e l'industriale.
Altro che bar Olimpiade di Torre, ho goduto della magnifica struttura del famoso salotto letterario all'aperto Gambrinus, affrescato per la maggior parte da Caprile, intorno a me gli amici torresi si sono trasformati in personaggi politici come Crispi, Nicotera, Bonchi, ecc. e l'élite napoletana dei Filangieri, Colonna, Caracciolo, Pignatelli e Del Balzo, nonché artisti e poeti da Di Giacomo a Serao, Dalbono, Gemito, Murolo, Bovio, Michetti, Russo, Bracco, D'Annunzio.
Stamane, innanzi a me nei locali del Gambrinus-Olimpiade. a pochi passi della scuola intitolata al gracolatinista Giovanni Mazza, sono nate le celebri canzoni napoletane. E' accaduto stamane che "A Vucchella" di Gabriele D'Annunzio e Paolo Tosti e sorta dai precordi di un mio collaboratore di Torreomnia, il Dannunzio-Boccia.

A proposito di letterature e premi letterari. Quello istituito attualmente a Torre del Greco è di buono spessore, ma è bene non ignorare che in Italia si consumano ben 30.000 eventi culturali non meno nelle altre nazioni europee, con la cosiddetta “semicultura” e con il “sottopensiero” oggi abbastanza diffusi favoriti dal consumismo e dalla globalizzazione.
Come se fosse la desolante prefigurazione di un mondo ormai “postculturale”, dove persone e libri sono diventati merci fungibili, dove la letteratura stessa è continuamente scambiata con qualcos’altro: un gadget, un soprammobile, un oggetto da status simbol.
Scorrendo le pagine di Internet l’elenco degli eventi in programma appare fittissimo: festival letterari, giardini letterari, parchi letterari, maratone letterarie, e poi cene filosofiche, colazioni con l’autore, recital di poesia (in un caso perfino letture pubbliche di reportage narrativi. Senza parlare delle tonnellate di zavorra scrittoria trita retorica, tracimante dalle pagine web, dove ciascun pseudo-autore produce nella dimensione di una netta sottocultura, sotto il vessillo di arte e di contenuti surrogati e insignificanti.
Insomma, siamo in presenza di una pervasiva "culturalizzazione" della vita quotidiana, e anzi di una sua estetizzazione.
E i moderni pub e caffé alla moda sembrano delle gallerie d'arte! Non sarà che questa culturalizzazione sia l'ennesima versione dell'attacco all'"individuo", alla sua autonomia critica, alla sua capacità di formarsi da sé i propri giudizi, sferrato con più o meno consapevolezza dal "Grande Animale", ovvero dal "sistema".?

Il futurologo Alvin Toffler osservava che il capitalismo del futuro sarà "culturale", dato che le multinazionali hanno scoperto proprio la cultura (non solo l'informazione) come business illimitato e capace di generare alti profitti. Ma quale cultura? I temi di terza elementare lunghi chiamati romanzi, le tiritere ametriche chiamate poesia?
Qual è l’alternativa? Il ritorno alla cultura d’élite, cioè non massificata, quella dei salotti Europei del passato? No, la contrapposizione non è tra élite e massa, ma semplicemente tra individuo e uomo-massa. E soltanto l’individuo può davvero “fare cultura”, ricreando un itinerario conoscitivo personale e trasformando incessantemente la propria esperienza in qualcosa di significativo e di comunicabile agli altri, tutto ciò in modo lento, accidentato, e comunque non garantito.
Quindi il salotto letterario è anticultura perché anti-individuale?.

Poi ho pensato agli anatemi e alle scomumiche di qualche dissidente di Torreomnia ed il timore, per esorcismo, mi ha portato ancora più indietro a Publio Ovidio Nasone, che per altro mi somiglia fisicamente, che fu il più famoso poeta erotico dell’antica Roma. Nato a Sulmona nel 43 a.C.
Egli preferì la vita mondana e superficiale delle classi abbienti e la compagnia dei poeti nei circoli letterari alla carriera politica. Divenne famoso per i suoi componimenti erotici quali gli Amores, le Heroides, e soprattutto l’Ars amatoria, l’Arte d’amare, composta tra l’1 a.C. e l’1 d.C. Glie lo suggerirò di sicuro a Monica,
Ma predicare Libertà e Amore spinsero l’imperatore Augusto a a mandare l’amato Ovidio in esilio a Tomi, sul Mar Nero.
Il poema ”L’arte di amare” venne immediatamente bandito dalle biblioteche pubbliche come qualcuno vorrebbe bandire Torreomnia dalla rete con la scusa del trasgressivo e della presunta dissidenza. Forse Ovidio fu il proverbiale capro espiatorio punito da Augusto come istigatore della decadenza e del libertinaggio. La prima ipocrisia perbenista della storia che si è perpetuata in Oscar Wilde, Andre Gide, Anais Nan, Pasolini, Busi, ecc.
Il tempo però portò ad Ovidio la ben meritata rivincita post mortem. Il poeta di Sulmona godette di una fortuna immensa soprattutto durante il medioevo, quando i suoi componimenti erotici vennero presi come esempi d’amore dai poeti europei. Infatti Ovidio influenzò moltissimo tutta la produzione poetica del tempo, dai romanzi di Chretien de Troyes, al Romanzo della rosa e agli scritti d’Abelardo; dal “dolce stil nuovo” di Dante al Canzoniere di Petrarca, dai Carmina Burana agli scritti di Milton.
Si può dire senza paura d’esagerare che è soprattutto grazie a lui che la poesia amorosa europea si è pienamente sviluppata.
Non mi sottopongo al "Nemo propheta in Patria". E' oggi che una stretta di mano, un sorriso mi farebbe bene. La gloria a morte avvenuta è una grande defecata solida.

A Via Vittorio Veneto di Torre del Greco, dopo sorbito il "caffè letterario" con gli amici di Torreomnia ho sentito il filo della mannaia solleticarmi il collo, mi son trovato a cavalcare il porco, mi hanno legato alla berlina, infine.
Fortuna che Carlo Boccia mi scuote per la falda della giacca. Rinsavisco e ci incamminiamo verso casa.

Peppe D’Urzo strada facendo ci ragguaglia sui "pomi bussanti", i bassorilievi in legno dei portoni, i semi archi in ferro battuto dove gli abitanti, spiega, scrostavano il fango dalle scarpe. E si duole perché sono solo due le ville vesuviane da S. Giovanni a Teduccio a Castellammare che non ha scandagliato con notizie di prima mano.
Ad un certo punto mi sono ritrovato circondato dai "covoni bancari". A sinistra avevo la “banca dati” della Turris: Paolo Di Luca a destra la “banca dati” dei fatti e personaggi torresi: Peppe d’Urzo, dietro di me la “banca dati” storico-anagrafica torrese: Antonio Abbagnano e, innanzi, a me, la Banca di Credito popolare di Palazzo Vallelonga. Eccolo il sincretismo, ma nella quarta dimensione della mia postura ci sarebbe voluta una chiesa, per un accomodamento totale. Ma c'era Dio dall'alto, stamattina, come sempre, che sicuramente sorrideva sornione alla vista delle nostre sceneggiate umane dove tremendi mass-media planetari trascinano masse anche in nome Suo.

Ecco formato una nuova Arcadia torrese, anche se all'acqua di rose o all’aroma di caffé olimpidiano o casolariano, come vi pare; ma un Arcadia emendara disidealizzata, fatta di danaro e di menti, un sincretismo da Dio e mammona. Arcadia nuova maniera rispetto a quella fondata nel 1690 a Roma, da parte di un gruppo di letterati Gravina, Crescimbeni, ecc, dove Guerra e imperialismi sono assenti dall'Arcadia: l'avidità dell'avere è un disvalore, così come la violenza d'ogni tipo, simboleggiata dalla figura del satiro libidinoso. Sono quindi assenti, nella costruzione della sua utopica società anarchica, il commercio e l'industria, ma anche l'agricoltura.
L'Arcadia infatti, essendo un movimento di intellettuali, affidava alle astrazioni dell'amore platonico e dell'arte poetica e musicale il compito di riconciliare l'uomo con la natura. L'Arcadia si era sempre sentita come assediata da un mondo proteso verso il profitto e, dando per scontata la propria sconfitta, preferiva rifugiarsi nel profondo delle foreste o fra montagne inaccessibili o in isolette solitarie. Rispetto alla Nuova Atlantide baconiana e alla Città del Sole di Campanella è meno filosofica e più "ambientalista" (le idee-guida sono poche ma precise: l'albero, l'animale, l'uomo, il corso d'acqua sono membri paritetici dello stesso ecosistema).

Ma l'Arcadia torrese in seno a Torreomnia va ancora statutizata e si rivolge innanzitutto alla carenza principe letteraria locale: la narrativa che non ha mai trovato sbocco valido nella nostra città, quella dell'aneddotica e del fatto domestico, delle famiglie, dove in fondo si forgiano gli uomini di domani. La narrativa e rivealzione, confessione, sventramento, può conciliarsi col perbenismo, col provincialismo, col salvare la faccie e filare sempre sul filo della bravura e della perferzione?

E concludo con Peppe d'Urzo che ho appena lasciato, stamane, nella sua mole turrita.

Peppe D'Urzo è un autore prolifico e singolare. Le sue ricerche sono incredibilmente analitiche, di introvabile valore didattico. I lavori che vengon fuori sono "ritratti" dove non sfugge nemmeno il particolare più minuto. Non solo. Mentre una foto ritrae tutto ciò che è visibile, presente, Peppe allarga ad estuario il suo pensiero ora sulla località, adesso sul personaggio, sempre nel tepore della memoria, in maniera tale da rendere inevitabile quel sapore poetico presente in tutte le reminiscenze. La Torre del Greco di Peppe è Durzo stesso! Come diceva di se Marotta: "la Napoli che racconto sono io, perché solo di me so qualcosa, se lo so".
Gli scritti di Peppe D'Urzo non ostentano analisi scelta, egli non adopera schiccherature mestieranti, dialettiche accattivanti per soggiogare e intimidire il lettore, sacrificando la notizia, il contenuto. Il testo, di primo acchito, va appena oltre la dimensione dell'annotazione, della cronaca, della storiografia lineare, ma la prosa è certamente straordinariamente ancorata al tessuto connettivo dei precordi, delle intense emozioni di un umanistico, fidente, franco passato, quello dei nostri nonni, lontani dai covoni bancari, dal pragmatismo e dall'asetticità.
I suoi racconti, dunque, i suoi "graffiti", le sue interviste celate e mimetizzate nel componimento aperto e spontaneo fuggono a tutti i costi l'artificiosità, ma scatenano l'emozione come le vecchie lettere degli emigranti intrise di quintessenze.
Un secondo aspetto, non meno prezioso, che quasi passa inosservato perché scontato persino per l'autore, è quello mimetico dei dialoghi, apparentemente inesistenti; ma soprattutto emerge la certosina fatica glottologica che spesso si estende sino alla filologia, poiché la terminologia torrese antica vastissima e spesso sconosciuta, perché vetusta, è ricercata minuziosamente non solo nell'etimologia, ma nella storicità della coniatura. Quasi un richiamo alla sperimentazione gaddo-pasoliniana del dopoguerra. Testi, quelli del D'Urzo, che, apparentemente lineari e illetterati nel senso artistico, (comunque privi di artificiosità di mestiere, con buona pace di Croce o di Flora) , si rivelano uno studio storico-aneddotico introvabile in tutti i suoi predecessori torresi.
Se si affonda nel substrato, intanto, si raccoglie, comunque, anche una prosa dove contenuti e forma sfiorano, sforano e ritornano in un candore narrativo, per così dire lirico, ispirato, ideale, fantasioso, anche se a tratti tremendamente crudo di realtà materiale e biologica, con eventi anche tragici: lutti, angosce, fusi immediatamente prima e dopo con esultanze, letizie, atti d'amore. Ma come in ogni assimilazione letteraria molto dipende anche dalla soggettività del lettore, dal suo gusto, dalla sua preparazione culturale, dalla sua condizione emotiva, sociale, anagrafica infine.
E sono, senza dubbio, proprio atti d'amore dedicati alla sua cara Torre del Greco che Peppe d'Urzo compie, quasi religiosamente, nell'emozione più intensa e recondita, ogni volta che mette penna su carta. Ed egli ama Torre ogni ora, ogni giorno, da sempre; da quando, pargolo, d'estate, sentiva il tepore del nostro sole generoso sotto i plantari sullo scoglio francese, con le nari narcotizzate dagli aromi delle pietanze materne traboccanti d'amore e di benevolenza.
Solo un grande amore per le proprie mura, per la propria gente, giustifica la fatica immane che compie da anni, instancabile, insaziabile di storie e di fatti, di eventi e tradizioni.
Grazie, Peppe D'Urzo, grazie di amare così tanto la nostra città. Ti voglio bene. Spesso, quando ti leggo, mi fai quasi "ridere sotto gli occhi...".

Luigi Mari

 
 

ID: 3275  Intervento da: Pasquale Zuccarini  - Email: ziccarini2@virgilio.it  - Data: mercoledì 24 maggio 2006 Ore: 13:34

Amici,
grazie a Giovanni Raiola ho capito che vi sono molti messaggi in coda al forum che varrebbe la pena leggerli. Io che faccio il barista-pasticciere di professione, dirimpetto alla tipografia Mari, mi sono consolato a conoscere la storia dei vecchi caffè letterari di Napoli, ma così bene trasfigurati da Luigi in quel di Torre.

Pasquale Zccarini


ID: 3274  Intervento da: Giovanni Raiola  - Email: raiolagiovanni@virgilio.it  - Data: mercoledì 24 maggio 2006 Ore: 13:19

Il nostro è certamente un paese strano,
il messaggio di questa proposta di discussione, scritto dal Mari mesi or sono, è un vero e proprio affresco narrativo, eppure non ha avuto seguito.
Credo che l'interesse e il piacere della lettura sia oramai scemato anche là dove, per cultura, si'intende quella fredda e asettica dei testi universitari per fini pragmatici e di utilità sociale dove le opere d'ingengo creative sono rare.
Mi verrebbe da scrivere alto a riguardo, ma temo di non essere letto o di venire trascurato.
Giovanni Raiola


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