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ALCUNI STRAORDINARI MESSAGGI  DI LUIGI MARI: DAL FORUM TORREOMNIA 

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1410

Flavio Russo è un chiaro esempio di valenza torrese non sufficientemente divulgata, non solo per la mole intensa e cospicua di lavoro letterario settoriale svolto, ma per il senso umano, umile, solare di presentare e presentarsi, raccontare e raccontarsi, indagare, scoprire, scrutare, analizzare con meticoloso acume, quasi nell'estremizzazione del dettaglio, nell'esasperazione del particolare, per amore e fede della storia e della verità storica, facendo di se stesso il tessuto connettivo tra archeologia e architettura; una venerazione del reperto, della pietra, della struttura, quali testimonianze inconfutabili del nostro, spesso, glorioso passato; riesumando, per riflesso, il substrato psicologico e soprattutto la natura, le radici del nostro caratteriale, quello un di popolo (come si suol dire) di poeti, santi e navigatori.
A prescindere dal nostro accreditato e affermato Flavio Russo non solo nei confini nazionali, la cultura locale spesso non evidenzia o trascura certi valori, penalizzando personaggi di ottima levatura, con i masi chiusi di certo razzismo diplomatico, e col  "dannoso e annoso provincialismo" (inteso, purtroppo, non solo come goffaggine, impaccio e cattivo gusto, ma talvolta come inclinazione al livore, all'astio, alla rivalità, specie tra gli addetti ai lavori di determinata intellighentzia o di una cultura di stampo demagogico), atteggiamenti assenti in questi personaggi, come dire, "rieducati" o acculturati in etnie differenti, extra-moenia, predisposti ad una visione formativa, cognitiva e criteriale molto ampia, che spazia nel sociale, nella dimensione europea e via via planetaria. Trasporti e fervori negativi, invece, che allignano anche dentro le mura di città che vantano "intelletti" e valentie, dipanate sin dalla gloriosa imparagonabile Scuola Salernitana.
E quello che sconcerta è la diffusione, nei mass-media, del frivolo, dell'apparire e della "notizia", spesso inutile canard. Cosicché il furticello, la sniffata, le turbolenze civiche o le esplosioni della moda o pseudo-moda o i concerti dei big, diventano notizia e cultura di capillare dominio pubblico. Intanto milioni di persone non conoscono il nome di chi ha scoperto la penicillina, o di chi spende la propria vita sulle "sudate carte", per amore della cultura, per capire e diffondere il sapere, creando saggi e narrazioni atti, rispettivamente, a studiare o infiorire la materia fisica, ad esaltare o condannare, sublimare o ricusare il benevolo e l'iniquo della storia; per affondare, altresì, nella conoscenza delle nostre origini, cromosomicamente perpetuate nei secoli sino ad oggi e forse proiettate verso un domani speriamo migliore.
L'operato di Flavio Russo, ribadisco, è di notevole spessore culturale, e Torreomnia, apolitico, libero e indipendente, nella persona del sottoscritto, intende ulteriormente propagare. I lavori del nostro si allargano ad estuario nel campo della saggistica storico-architettonica o archeologico-ambientale, non solo partendo dall'ottica della storia militare. Ciò soprattutto perché le fatiche di questo prolifico studioso torrese beneficino tutti coloro che condividono con lui lo stesso amore per il sapere; senza il pretesto, qui, di intessere una edulcorata apologia ad un compaesano più o meno erudito.
I saggi di Flavio Russo pur essendo tecnicistici e settoriali rasentano un ibrido di saggistica e narrazione, ma quest'ultima solo apparente, subdorabile, non priva di sia pur sparuti accenni aneddotici altrettanto mimnetizzati, non esplicitamente descritti, quasi tutto immaginario, intuibile, al di qua e al di là della penna: un canovaccio interiore ventriloquo e spontaneo, diafano e rutilante che non si legge ma c'è e si coglie come radi sprazzi di luce, sino, spesso, a sfiorare l'umanistico. E mi chiedo se di questo l'autore sia consapevole perché per nulla voluto, ma sentito, non strumentale, che esula da giochi di maniera o da tecniche scrittorie mestieranti. Quasi si evince uno stile letterario, anche se apparente, di solito inesistente, quanto meno desueto nella saggistica, ma che, questa volta, fonde la materia scientifica all'etica e alla morale e ad un sentimentalismo partenopeo non difficilmente riconoscibile.
D'altra parte, giocoforza, è quasi un retaggio lirico nascere tra mare e Vesuvio. Pargoli, con la brezza di Calastro o quella della talassoterapeutica litoranea, sia pur decaduta, col profumo amorevole delle pietanze materne fatte di profumate cime di rapa, scapece o melenzane e peperoni, toccasana per l'ansia cromosomica delle eruzioni. Ambascia "in cantina" ritualizzata da inconsce giaculatorie atte ad esorcizzare la catastrofe, inneggianti il vivere, insufflanti per alimentare le ultime fiammelle di romanticismo e poesia negli anta, per così dire, dotti.
Come si può, con tali presupposti, mettere mano alla penna e stagnare, ad esempio, nei confini asettici dell'ingegneria, punto e stop. In tal modo Flavio Russo sarebbe un "vesuviano pentito", un meridionale snaturato e non vanterebbe l'umiltà, il sorriso, il carisma e la bontà che emana confabulando, con i suoi occhi intelligenti diritti in quelli dell'interlocutore, nel puerile atteggiamento dei puri d'animo.
I saggi di Flavio Russo si distinguono per questo alone di napoletanità o della parente vecchia torresità, pur se   vagamente percettibile, per questo più fantasiosa e personalmente interpretabile, ma che prende corpo e consistenza specie ne "L'oro rosso di Torre del Greco" oltre che, in generale, per la precipua prerogativa di opere univoche nel settore.
I moti dell'animo della nostra maggioranza di popolo buono ci spingono ora a genufletterci ai tabernacoli, ora a sottometterci alla cabala, ora ad ammirare monumenti, antiche torri, vetusti castelli e fortini, non disdegnando il quotidiano nutrirci di pane cafone farcito di interiezioni, nella speranza e nella gioia di vincere il timore del Vesuvio, di casa nel DNA, da noi. Ciò perché persistano nei circumvesuviani reazioni difensive ed esorcizzanti, contro la temuta catastrofe, moti eterogenei o contrapposti: invidia, gelosia, aggressività, o amore smisurato per lo studio, per l'arte applicata, per la glittica, per l'imprenditoria. Sensazioni, consapevolezze e prese di coscienza delle più variegate, presenti, da sempre, perché secolare è l'ansia endemica ed endogena dello "sterminator vesevo", non di meno, pure, ad esempio, nella creazione di un falansterio, di una torre saracena; oppure nella progettazione di un bunker nazista, di una Villa Sora e una Terme Ginnasio, immortalate e conviventi gomito a gomito nella nostra Torre del Greco, perpetuandosi nei millenni.
Per questo i tomi di Flavio sono speciali perché egli è figlio di questo terreno igneo ferace e impietoso, generoso e ingrato, come i devastanti errori a fin di bene di molte mamme verso i figli, le quali, come diceva Nietzsche non li amano, ma si amano in loro. Ed è proprio l'amore-odio dell'uomo per questa terra, che ce lo ricambia, inconscio o consapevole, unico al mondo, che forgia e sventra la creatività, l'acume, la scaltrezza fino al nutrimento di un coraggio pari all'estremizzazione dell'incoscienza, nella sfida folle e immotivata che si regge solo su di uno sfrenato sentimento di palingenesi, di redenzione fino, in alternativa, alla catarsi salvifica post-mortale. Sono certo che questa chiave di lettura dell'operato del Russo e di tutti i torresi creativi non è una rivelazione del sottoscritto inedita e stravolgente, ma intuibile dagli estimatori delle numerose opere, dai militari del suo ambiente di lavoro, dai giornalisti della Rivista Marittima, dai suoi lettori.
Deferente verso Russo, questo infaticabile scrittore che insieme ai collaboratori tutti di Torreomnia, specie quelli fuori le mura, fanno riscoprire in me la gioia di vivere in quel meridione relativo alla nota "questione" mai risolta, alimentando altresì la smarrita fierezza di essere torrese; ma mi vergogno come un ladro pentito, mi vergogno per la gratificazione, l'amore, la bontà, l'altruismo, sentimenti a iosa, trasmessomi e comunicatomi di  persona o per telecomunicazioni da questi numerosi bravi, buoni, onesti torresi; mi vergogno rispetto alle migliaia di compaesani che pur essendo altrettanto buoni, bravi onesti, amorevoli non hanno modo, mezzo e luogo per ricevere questo ampio privilegio e beneficio dai concittadini disposti e raggianti di torresità, insieme alla nostra aria salubre e al sole generoso vesuviano. Mi vergogno perché costoro, rispetto a me, non compenseranno mai ciò che talora subiamo dall'ambiente interno le mura, cioè cattiverie, gelosie, talvolta lordure. Vorrei dividere con gli altri, con tutti i torresi, fratelli in Torre, la gratificazione e l'amicizia disinteressata dei numerosi collaboratori ed estimatori di Torreomnia e la sua ampia utenza sfegatata, e non sentirmi solo vorace ed ingordo d'amore, d'affetto e di uno sviscerato campanilismo.              
Luigi Mari                                               

ID: 2413

Argomentando di "Salvatore in quel di Bologna", slogan, questo, a cui sono affezionato, mi viene spontaneo dire "il caso Argenziano". Caso perché egli rappresenta l'emblematico di una essenziale sfaccettatura della rosa di problematiche dell'area vesuviana, nella fattispecie il malore endemico: edonismo-egotismo di una Torre del Greco allineata alle città italiane con un reddito, sperequato, s'intende, di gran lunga superiore alla media nazionale e condizionata da specifici masi chiusi economici di settore.
Il pragmatismo, si sa, fa a cazzotti con l'antica napoletanità umanistica, pregna di suggestioni etico-religiose che non tenevano conto delle differenze di classe se non per una logica gerarchica, ma che riusciva ad accomunare il malato ricco con il malato povero davanti a Dio; anche se meno davanti al medico.
Il "caso Argenziano" è visto tale perché dimostra come la perdita di pregi morali, elevatezze d'animo ed altri valori, dipendono più da un fatto endemico geografico che da cause epocali di etnicismo più ampio o, addirittura di vastità planetaria.
Torrese DOC, (e mi piace ripetere alla De Curtis: torresi si nasce e lui lo nacque), Salvatore Argenziano con la sua collaborazione incondizionata a Torreomnia, tiene alto il vessillo del torrese vecchia maniera, quello della parola mantenuta o della solidarietà, della disponibilità; il torrese dei baratti sui ballatoi di a laccia e putrusino; quello della "napoletana fumante" che penetrava usci, porte e portelle di architettura spagnola, oramai quasi totalmente falciate dalla ricostruzione.
Per il nostro concittadino il "tempo torrese" si è fermato nel momento in cui mise piedi fuori la Porta di Capotorre; ideale pargolo imberbe con alcuni anta, rivive oggi nitide le processioni profuse d'incenso e di afrore degli anni cinquanta, le pollastre dei poveri fumanti lungo il ciglio delle strade, i cazzabbocchi della Carmenella, i ceci e i semi di zucca tostati dei miraggi hollyoodiani dei Gradoni e Canali.
L'evocazione nei "Ricordi" rivela i primi turbamenti giovanili dell'autore causati dai tedeschi e dagli anglo-americani. Una "Recherche", tuttavia, poetica, metricamente libera, quindi descrittivamente più autentica.
La Torre del Greco di mezzo novecento insieme a Salvatore Argenziano sono l'idillio, due pargoli amanti, castigati dal sortilegio dell'amore indissolubile, una Giulietta e un Romeo divisi da un destino incontrastabile, ma uniti per sempre nell'animo.
Il torrese, in genere, che vive fuori porta (nella fattispecie di Capotorre) idealizza e sublima la Patria del Corallo, soggiace alla nostalgia e al lucore soffuso dei ricordi e questo lo risolleva dal giogo delle problematiche epocali attuali dell'area geografica che lo ospita. 

Dietro questa molla Salvatore Argenziano ha donato ai suoi compaesani, tramite Torreomnia, due gemme, per il momento: "Ricordi" e il "lessico torrese-italiano", che spera di ampliare con la collaborazione fattiva dei concittadini.
Dal primo componimento si evince la lirica che scaturisce dalla componente onirica, prevalente sul fatto epico, eventi, date, bombardamenti, sfollati, eruzione, ecc.
Tuttavia una storicità a mezza strada tra la storiografia e la cronaca, come fatto descrittivo, ma tutto diafano, incerto e sicuro insieme, come il pensiero lontano, come un perduto amore.
Una prosa in versi e dei versi in prosa, quelli di Salvatore Argenziano, che descrivono e sottolineano non già solo l'accaduto, ma la velata apprensione dell'accadibile che coinvolgono esistenzialmente la sfera affettiva di ogni genere di lettore, fuori del tempo, fuori del luogo, fuori della realtà, perché coinvolgono il dilemma eterno dell'uomo, animale sempre ossessionato dai dualismi male-bene, amore-odio che allignano soprattutto nei conflitti bellici, specie quello descritto appunto dall'Argenziano.
Ma, forse senza saperlo, o semplicemente perché egli vive fuori Torre, le note amare del racconto, le bassezze e lo squallore di una guerra così malapartianamente devastante hanno nociuto soprattutto non già solo sul morale quanto la moralità dei vesuviani; Argenziano, quindi, vedeva preannunciato quello che poi si doveva rivelare quel certo degrado della qualità della vita nella cintura vesuviana, come una cancrena morale mai sanata, ma consolidata dalle leggi spietate del business, dei mass-media-grancassa, dei feroci pseudo modelli sociali propinati indiscriminatamente e gratuitamente anche in un'area sociale che adoperava panacee e toccasana come le icone dei Santi, e gli scongiuri in un unico ibrido rituale.
La nostalgica descrizione dei "Ricordi" si ricuce diritta alle odierne guerre dell'animo umano, tra le stesse mura domestiche, tra lo stesso condominio, tra la stessa città. E' importante leggere lo spaccato descrittivo dell'Argenziano che subdorava già una vaga idea di un probabile 68 il quale, insieme a giuste rivendicazioni, ha causato un distacco troppo netto e repentino tra due generazioni favorendo, come dire, manodopera per i gestori dei mutamenti epocali in fatto di edonismo, consumismo, europeizzazione fino alla globalizzazione; mutamenti che saranno pure coerenti e consoni alle esigenze tecnico-scientifiche e demografiche attuali ma che hanno compromesso fino all'osso i tradizionali valori, i rapporti generazionali in un clima di totale incomprensione, confusione e disadattabilità con i modelli sociali.
La seconda fatica di Salvatore Argenziano è il "vocabolario torrese-italiano", un'opera meritoria che solo un torrese irriducibile come lui poteva stendere. Egli compie una minuziosa ricerca per i termini più reconditi. Un recupero di parole ed espressioni che vanno perdendosi nei meandri del tempo. Proprio perché egli, lontano dalla terra natia, quindi meno contaminato dai malesseri endemici della specifica area vesuviana, poteva progettare e stendere con generosità, senza riserve e quant'altro di negativo per Torre del Greco. Chiaramente si spera nella collaborazione di tutti perché questo lavoro possa crescere, poiché molti termini precipui, di stretta settorialità vengono tramandati solo verbalmente.
Ribadisco quello che ho detto in apertura: "il caso Argenziano" sia antesignano per le vere iniziative culturali per Torre, fuori dai masi chiusi della cultura locale; lontano dagli individualismi dottrinari e dai feticisti della raccolta storica di notizie e foto, materiale spesso finito nelle pattumiere dopo le inevitabili dipartite a cui è predestinato ognuno di noi.
Non dimentichiamo le parole del saggio: "il dolore può bastare a noi stessi, ma per vivere veramente una gioia bisogna condividerla con gli altri".

Luigi Mari

...La poesia di Ciccio Raimondo ha forza nella voce caustica del "trasgressivo a tutti i costi", in una dimensione e un parallelo, come dire, pre-evolutivo; un messaggio, perciò, anche candido, quasi una religiosità nella fisiologia erotica, che rasenta talvolta una sorta di venerazione deistico-verginale della donna, un eterno femminino comunque emendato nei suoi canoni classici, una sublimazione del fisiologico, ma devastato immediatamente o contemporaneamente, spesso per ingerenze dalla stessa donna, o della donna rivale nel ruolo di suocera, per subito rimanerne ammaliati, per poi odiare, amare ed odiare ancora.
Una voce, in questi versi, che ha la pregnanza dell'autentico e la spontanea icasticità dello scatto linguistico se pur costruito sul vernacolo partenopeo ortodosso, speculare e modellato, però, sull'idioma torrese che, pur non graficamente presente, verrà comunque colto dai corallini, che ne sentiranno la musicalità, il ritmo.
Il vivianesco, il russiano, fino al digiacomiano soccombono, però, come parametri soliti, non già per l'originalità dell'autobiografismo evidente, ma per la profonda e complessa tematica psicosessuale di stampo partenopeo tipica degli anni 60, che il Raimondo sembra solo sfiorare, con tocchi ironici lazzi e frizzi, come a voler celare e difendere il lettore alleggerendo questa problematica che comunque si evince. Esorcizzare con la nostra capacità di sdrammatizzare, noi, vesuviani, che se dobbiamo dire: "Mi fai piangere" diciamo "Mi fai ridere sotto gli occhi".
Uno spaccato dei sentimenti, dei pregiudizi, dei timori, degli egoismi e degli egotismi, fuori etica, fino ad un mercanteggiamento della materia corpo come fonte di benessere, come investimento di potere e di successo, come strumento di plagio e di sopraffazione, come arma di tattiche meschine; comunque la violenza psicologica dell'uomo contro l'uomo. Ciò evidenziato in un contesto geografico con un reddito (sperequato) superiore alla media nazionale.
E sono certo che persino all'autore, infondo, possa sorgere il dubbio di quali siano le vittime e quali i carnefici, se ci sono, o se sono da ritenere tali, vista questa penosa instabilità epocale, tra screzi, ripicche, tradimenti, immaturità, e folleggiamenti delineati nei personaggi descritti.          

Luigi Mari

ID. 3856

...(si era nell'immediato dopoguerra), ed entrambi, quindicenni, parallelamente, ci preparavamo a soggiacere sotto un avvenire ostico, intricato, spinoso che si dipanava da disarmonie domestiche, tristi retaggi di molte famiglie d'allora, spesso schiacciate nei risvolti di un mantice che ancora insufflava quotidianamente fame ed inedia. Disagi e disequilibri alimentati dal disagio esistenziale della consapevolezza della finibilità specie allora, superstiti, reduci e convalescenti dell'inedia, dell'umiliazione, dello squallore in cui cade lo spirito durante i conflitti bellici lunghi e devastanti. 
Snaturalezze, separazioni, odi e rancori oppure annchilimento mistico, rassegnazione, abbandono di se.
Dietro tale architettura di eventi, intrecciati in un disegno di esistenza ora allucinante, ora onirico, soave e dolcissimo, nell'impeto e l'irruenza di esorcizzare malori e fantasmi insidiatesi in infanzia, giovinezza e maturità aspre e virulente, anche se non prive di gioie...

Luigi Mari

Peppe D'Urzo è un autore prolifico e singolare. Le sue ricerche sono incredibilmente analitiche, di introvabile valore didattico. I lavori che vengon fuori sono "ritratti" dove non sfugge nemmeno il particolare più minuto. Non solo.                      
Mentre una foto ritrae tutto ciò che è visibile, presente, Peppe allarga ad estuario il suo pensiero ora sulla località, adesso sul personaggio, sempre nel tepore della memoria, in maniera tale da rendere inevitabile quel sapore poetico presente in tutte le reminiscenze. La Torre del Greco di Peppe è D'urzo stesso! Come diceva di se Marotta: "la Napoli che racconto sono io, perché solo di me so qualcosa, se lo so".    
                                             
Gli scritti di Peppe D'Urzo non ostentano analisi scelta, egli non adopera schiccherature mestieranti, dialettiche accattivanti per soggiogare e intimidire il lettore, sacrificando la notizia, il contenuto. Il testo, di primo acchito, va appena oltre la dimensione dell'annotazione, della cronaca, della storiografia lineare, ma la prosa è certamente straordinariamente ancorata al tessuto connettivo dei precordi, delle intense emozioni di un umanistico, fidente, franco passato, quello dei nostri nonni, lontani dai covoni bancari, dal pragmatismo e dall'asetticità.
I suoi racconti, dunque, i suoi "graffiti", le sue interviste celate e mimetizzate nel componimento aperto e spontaneo fuggono a tutti i costi l'artificiosità, ma scatenano l'emozione come le vecchie lettere degli emigranti intrise di quintessenze.
Un secondo aspetto, non meno prezioso, che quasi passa inosservato perché scontato persino per l'autore, è quello mimetico dei dialoghi, apparentemente inesistenti; ma soprattutto emerge la certosina fatica glottologica che spesso si estende sino alla filologia, poiché la terminologia torrese antica vastissima e spesso sconosciuta, perché vetusta, è ricercata minuziosamente non solo nell'etimologia, ma nella storicità della coniatura. Quasi un richiamo alla sperimentazione gaddo-pasoliniana del dopoguerra. Testi, quelli del D'Urzo, che, apparentemente lineari e illetterati nel senso artistico, (comunque privi di artificiosità di mestiere, con buona pace di Croce o di Flora) , si rivelano uno studio storico-aneddotico introvabile in tutti i suoi predecessori torresi.
Se si affonda nel substrato, intanto, si raccoglie, comunque, anche una prosa dove contenuti e forma sfiorano, sforano e ritornano in un candore narrativo, per così dire lirico, ispirato, ideale, fantasioso, anche se a tratti tremendamente crudo di realtà materiale e biologica, con eventi anche tragici: lutti, angosce, fusi immediatamente prima e dopo con esultanze, letizie, atti d'amore. Ma come in ogni assimilazione letteraria molto dipende anche dalla soggettività del lettore, dal suo gusto, dalla sua preparazione culturale, dalla sua condizione emotiva, sociale, anagrafica infine.
E sono, senza dubbio, proprio atti d'amore dedicati alla sua cara Torre del Greco che Peppe d'Urzo compie, quasi religiosamente, nell'emozione più intensa e recondita, ogni volta che mette penna su carta. Ed egli ama Torre ogni ora, ogni giorno, da sempre; da quando, pargolo, d'estate, sentiva il tepore del nostro sole generoso sotto i plantari sullo scoglio francese, con le nari narcotizzate dagli aromi delle pietanze materne traboccanti d'amore e di benevolenza.
Solo un grande amore per le proprie mura, per la propria gente, giustifica la fatica immane che compie da anni, instancabile, insaziabile di storie e di fatti, di eventi e tradizioni.
Grazie, Peppe D'Urzo, grazie di amare così tanto la nostra città. Ti voglio bene. Spesso, quando ti leggo, mi fai quasi "ridere sotto gli occhi...".

Luigi Mari