Antonio Abbagnano

NARRATORI TORRESI

Torre d'altri tempi

Palazzo Bonfiglio
di Antonio Abbagnano

era in Piazza Luigi Palomba, proprio di fronte la statua di Garibaldi. Si estendeva dal vicolo del Carmine a via Gaetano de Bottis. Era stato costruito nel XVI secolo dai conti Bonfiglio ed era fornito, come tutte le costruzioni dei nobili d’allora, di un grande e bellissimo giardino, che si estendeva fino alla via Circumvallazione. Ampie scalinate con statue ad ogni piano ed una terrazza grandissima che si allargava fin sul bar Filippiello, gli conferivano un fascino ed una bellezza unica. Con la scomparsa della nobiltà, Palazzo Bonfiglio fu frazionato in tanti appartamenti e venduto a vari proprietari.
Fra i personaggi che abitavano Palazzo Bonfiglio c’era Gennaro, ragazzo sfortunato perché a dieci anni era stato colpito dalla tubercolosi.
Ne era guarito dopo un anno ma le braccia erano rimaste deboli, incapaci di issarlo sull’impalcatura dell’Altare che in Piazza del Popolo gli operai del Comune incominciavano ad ereggere.
Gli amici della Piazza erano già saliti agilmente in alto e da lassù lo incoraggiavano a raggiungerli.
Gennaro recepiva quegli inviti come sfide e se ne sentiva mortificato.
Non resistette comunque a lungo a quei richiami e si avvicinò timidamente ai primi pali. Non li aveva mai visti così da vicino. Appoggiò il viso al palo più vicino e ne sentì il profumo di legno arso al sole. Di colore blu come la carta dei maccheroni da spezzare, i pali avevano piccole fessure piene di segatura e di formiche. Tutto gli sembrò più familiare, il colore, le formiche, l’odore del legno e si rasserenò. Facendo forza soprattutto colle gambe, salì per circa tre metri; guardò in basso e si sentì felice.
"Vvieni Genna’, viene ‘cca ‘ncoppe" lo incitavano i compagni dall’alto dell’Altare,"si vede u campanaro d’a Parrocchia ." "’Nce venesse" mentì Gennaro "ma me sta chiammanne papà".
Scendere si rivelò più difficile del salire e per calarsi giù dovette far forza sulle braccia. Ma i muscoli ancora una volta non ressero al peso e Gennaro cadde sul terreno che i giardinieri avevano accatastato per poi fare le aiuole. Tutti risero e Gennaro, benché dolorante, rise anch’egli. Scappò via un po’ vergognoso facendo un lungo giro per la piazza ed il vento della corsa gli sembrò lo stesso vento che dai tre metri dell’Altare l’aveva sfiorato il viso. Incapace di godere del vento dell’altezza, si consolò così, col vento della velocità in faccia.
La corsa di Gennaro finì nel Palazzo Bonfiglio, dove abitava e dove si sentiva al sicuro. Trovò il solito Gegè "case-case" intento alla sua attività preferita, che era quella di acchiappar mosche.



La signora Assunta della Loggia e famiglia (terza da sin.)

Gegè case-case in realtà si chiamava Eugenio Caso ed era un ragazzino balbuziente, che così si presentava. Quando gli si chiedeva come si chiamasse, rispondeva col nome e cognome, ovviamente storpiati dalla balbuzie. Gennaro si accucciò accanto a Gegè case-case, che, aiutandosi a gesti, poiché a parole sarebbe stato troppo complicato, incominciò ad insegnarli i segreti dell’arte di acchiappar mosche.
"Dunque" faceva capire Gegè"devi tenere il palmo della mano che fa ombra sulla mosca aperto, così l'ombra va sulla mosca ed essa si mette in guardia, aspettandosi l’attacco da quella parte, mentre il colpo deve essere portato dalla seconda mano, quella che non dà ombra. Sarà questo colpo a tradimento che sorprenderà la mosca".
"Dopo averla acchiappata, devi toglierle una sola ala e lasciarla libera. Poi, quando ti sarai stancato, potrai contare tutte le mosche con un’ala sola e sapere così quante ne hai prese e acchiapparne di più la prossima volta".
Gennaro ci provò una, due volte, poi demoralizzato e anche un po’ schifato, andò via lasciando Gegè case-case alle sue mosche.
Gennaro si avvicinò a dei muratori che stavano mettendo l’asfalto sui lastrici del Palazzo e che avevano incominciato a portar su, servendosi di una carrucola, la pece, che riscaldata al punto giusto, era pronta per essere stesa. A forza di braccia il muratore faceva salire su con la carrucola il secchio pieno di pece mentre un altro dal lastrico appendeva un altro secchio vuoto da riempire.
"Fammi vedere se hai forza da far salire su un secchio pieno" disse a Gennaro il muratore, scherzando. Gennaro impallidì ed allora il muratore, come se avesse capito le difficoltà di Gennaro, come per scusarsi, lo alzò di peso, lo ficcò in un secchio vuoto e lo issò in alto fino al quarto piano, lasciandolo penzolare. Gennaro da lassù vide finalmente il campanile della Parrocchia, il treno della Vesuviana che passava alle falde del Vesuvio e guardando in basso, l’immenso giardino di Don Michele e Giuvannina. Si trovava però anche all’altezza della finestra della signora Perez, e Gennaro, benché fosse oltremodo teso, non poté fare a meno di sbirciare dentro, vedendo la signora Perez in mutande che con un ventaglio cercava di mitigare il gran caldo. Gennaro rimase a bocca aperta, meravigliatissimo dalle enormi tette della signora.
"Vuoi scendere?"chiese il muratore" no, no, natu ppoco, me piace e vedé u Vesuvio a ‘cca". Ma il muratore si affrettò a portare giù Gennaro, che, appena toccato terra, incominciò a scappare, ridendo e saltellando per la gioia che quella visione gli aveva trasmesso.
Incominciò a salire le prime rampe di scale che lo avrebbero condotto alla loggia dove era la sua casa e come al solito si fermò a leggere quel "graffito", che qualcuno da tempo aveva scritto. Ormai lo conosceva a memoria, ma si divertiva a rileggerlo sempre ad alta voce:

"Ei fu. Siccome immobile
seduto sul rinale
ad aspettar la carica
intrepida, fatale;
tre volte ci provò
la quarta volta, un pirito
il candaro sfondò"

Rise ancora, rise ancora di gusto, senza ovviamente sapere che questo graffito un giorno gli avrebbe procurato un piccolo guaio.
Fu alla Prima Media, quando il professore di Lettere il primo giorno di scuola, dopo aver fatto l’appello, cercò di capire che tipo di classe avesse davanti. Guardandoci con sguardo fiducioso domandò:"chi conosce qualche poesia?" "io, rispose subito Luciano, conosco Pianto Antico". "Bravo……. e fammene sentire qualche verso ?"
e Luciano "L’albero a cui tendevi la pargoletta mano….ecc. ecc"
Ognuno disse una poesia, ricevendo le lodi del professore. Solo Gennaro era rimasto muto.
"…e tu, fece il professore, non conosci alcuna poesia?"
"….. una sola , fece Gennaro, ma non me la ricordo molto bene. Comincia con: Ei fu.
"…bravissimo, conosci il 5 Maggio di Alessandro Manzoni, bravo, accennala soltanto perché è una poesia che studieremo solo l’anno prossimo"
"…ah l’ha scritta Alessandro u barbiere …l’avevo immaginato" e Gennaro fieramente poetò il graffito, sollevando naturalmente il finimondo e ricevendo la prima espulsione dalla classe della sua scalcinata carriera scolastica.
Continuò a salire le scale e inevitabilmente passò davanti casa Perez. Si fermò timoroso per un attimo, poi fece per scappar via, quando un vocione lo bloccò:
"vieni qua, tu fetentone! C’hai viste a fora a fenesta, eh!"
Gennaro con la testa tra quelle tettone enormi, si sentiva soffocare dal profumo del boro-talco. Tossì, tossì e si spaventò. Si liberò da quell’abbraccio, aprì la porta e scappò via, fino all’ultimo piano. Era arrivato alla sua loggia!
Don Luigi il ferroviere con la moglie Assunta e una barca di figli, la signora Olimpia e la figlia e don Armando l’indoratore e famiglia utilizzavano l’altro gabinetto e l’altra fontana.


La mattina presto e la sera tardi le mamme portavano a svuotare nei gabinetti i Zi Peppe, grandi pitali coi manici, mentre grande accortenza e pignoleria era riservata alla pulizia dei cessi. Guai a chi veniva meno a questa incombenza.
Ogni famiglia aveva il proprio chiodo dove appendere i fogli di giornale a mo’ di carta igienica e grandi discussioni avvenivano quando, per qualche esigenza particolare, si usava la" carta igienica" di un’altra famiglia. Ogni famiglia vantava la delicatezza del proprio foglio di giornale appeso al proprio conosciutissino chiodo, per cui ogni sbaglio era ritenuto imperdonabile ed offensivo. Espletare le proprie esigenze corporali poi quando la loggia era affollata, era oltremodo imbarazzante ed ogni entrata nel cesso sembrava cronometrata da tutti i presenti e criticata se la "seduta" risultava troppo lunga. "Farla" poi esattamente nella tazza del cesso era una necessità inderogabile, ma da un po’ di tempo qualcuno aveva perso questa abitudine e don Armando l’indoratore fu costretto ad affiggere questo biglietto alla porta del cesso:
"io non dico fate centro
ma, gran figli di puttana,
perlomeno cacateci dentro".
Assunta, la moglie di don Luigi il ferroviere, era sostanzialmente, per la sua età ed esperienza , la capobranco delle donne della loggia. Aveva poi l’abilità di lavorare a maglia usando le mani ed i piedi con un sincronismo perfetto degli arti.
Pian piano, col trascorrere della giornata, le altre donne portavano i loro scanni nei pressi di donna Assunta e si sedevano quasi a circolo. Ognuna raccontava i propri fatti, per ognuna donna Assunta aveva un consiglio.
"Donna Assunta, cuntatece u cunto" chiedevano poi le giovani donne e, Donna Assunta, lasciati i ferri sullo scanno, incominciava a raccontare. Inventava all’istante, mescolando fatti vissuti in prima persona ad altri immaginari. Raccontava principalmente di episodi di vita matrimoniale inerenti al sesso, all’allattamento, al parto ed all’obbligo, diceva essa, sancito dalla Chiesa, di accontentare sempre il marito. "Sotto le lenzuola tutto è permesso e nulla è peccato, facite quello che vulite e soprattutto quello che vuole il marito" sentenziava Donna Assunta.
Questi consigli erano accolti con risolini e commenti dalle donne della loggia ed in effetti essi andavano a colmare in parte la sete di sapere delle più giovani, cui mai nessuno aveva parlato di sesso, men che mai i genitori. Per cui quanto sancito da Donna Assunta diventava verità indiscutibile, di cui nessuna dubitava.
Poi, anche a mo' di penitenza per aver parlato di cose sconce, si incominciava a recitare il rosario.
Krieleison, kristeleison, krieleison, kristeleison, nel primo mistero glorioso si contempla…ecc…..ecc..

Gennaro:" mammà, tenghe famme"

Mamma:"zitte, che quanno se rice u rusario, pure i nire stanno ca faccia ‘nterra"

Gennaro:"mammà, ma quali nire?"

Mamma:"chille che so venute ‘n tiempe e guerre"

Gennaro:" mammà, sta saglienne Maria d’e cummerzione".

Maria si sedette in disparte ed aspettò che finisse la recita del rosario. Ella era una poverissima donna sulla cinquantina che soffriva di convulsioni epilettiche. Periodicamente, all’incirca una volta alla settimana, passava per la loggia a chiedere l’elemosina. Per impietosire i presenti ogni volta raccontava di questo suo malanno ed ogni volta essi chiedevano che cosa fossero queste "cummerzioni" di cui ella parlava.
Maria, incapace di esprimersi compiutamente, era costretta allora a mimare le convulsioni, che a volte le venivano poi così bene, che andava veramente in crisi epilettica. Veniva poi aiutata a riprendersi ed assistita e, se le convulsioni erano state convincenti, riceveva anche applausi oltre il cibo da portare a casa, come elemosina.
"Uha, cumme ha fatto belle" commentava donna Olimpia," a mme è piaciuta cchiù llata vota" riprendeva una delle "pacchetelle".



     Vincenzo Abbagnano in Piazza L. Palomba 1951

IL PARTO DIFFICILE

Dalla casa di don Armando incominciarono ad arrivare le grida di dolore della moglie, in preda alle doglie. Tutti i presenti della loggia si alzarono ed accorsero all’uscio della casa."Per favore, implorava don Armando atterrito, qualcuno iesse int’u Rio a chiammà Cuncetta ‘a levatrice. Per favore facite ampresso". Qualcuno guardò Gennaro e Gennaro sembrava non aspettare altro. Sapeva dove abitava Cuncetta e, anche se non capiva bene che cosa stesse accadendo, partì di corsa con la sensazione di compiere qualcosa di importante. Uscì di corsa da Palazzo Bonfiglio, dribblò i giardinieri e i pali dell’Altare in costruzione, aprì le braccia come un uccello, virò a destra e poi subito a sinistra. Imboccò così in discesa via XX settembre, il Rio.
A metà Rio, riconobbe il palazzo della levatrice, vi entrò sempre a braccia aperte, e si mise a gridare con tutto il fiato che gli era rimasto. Don Concetta, coi ferri del mestiere sempre pronti, scese in un attimo ed insieme andarono alla loggia.
L’attesa in casa di don Armando durò più del previsto, poi donna Assunta, cui era stato consentito entrare, uscì fuori dalla porta con faccia triste ed occhi lucidi:"u piccirillo sta stuorto, ci sta pericolo pa mamma e po figlie" disse, e il silenzio calò tra le persone della loggia.
"Donna Assunta,
gridò l’ignara Giuvannina dal giardino, tengo quatte patane, me fai duje strangulaprievete?"
"doppo, doppo, rispose donna Assunta, cchiù tardi"
"Donna Assunta, urlò ancora Giuvannina, tengo pure ddoje mulignane, me faje ‘na parmigianella?"
"Certamente, Giuvannì, nnatu poco t’acalo u panaro, aspetta nu poco".
Uscì la levatrice e disse che occorreva nu miereche do core, perché c’era qualcosa che non andava.
Non ci volle nemmeno più l’occhiata ché Gennaro partì di volata a chiamare il dott. Francesco Balzano, detto ‘u munaciello. Ritornarono dopo poco tempo con la topolino verde decappottabile del dottore, che entrò di corsa in casa al fianco di donna Concetta.
La notizia si sparse in un attimo per tutta la piazza. Pian piano salirono alla loggia: Gigino u barbiere con la moglie, Ciccio u scarparo con la figlia sposata, la famiglia del ragioniere Vitiello al completo, la signora Perez col marito, la famiglia Di Cristo, la famiglia Caso, i Di Lecce, i Palomba e tantissimi altri. Quando fu sera, tutti si misero a pregare Sant’Anna.
Al mattino, Concetta ed il Dott. Balzano uscirono all’uscio della porta: "tutt’a posto è nnato...tutt’a posto… per favore, andate via tutti adesso, devono riposare".
Annuccella, dodici anni e già signorina, guardò Gennaro negli occhi e gli diede un bacio sulla guancia. Gennaro prese una scopa, l’appoggiò sul muretto della loggia e, come se avesse in mano una mitragliatrice, sparò ad aerei di guerra che nella sua mente stavano comparendo all’orizzonte.
"tatatatatatatata, tatatatatatatattaa, tatatatatatatta, hua Annuccè, l’aggio cugliute"
"tatatatatatatata, tatatatatatatatata, venite avanti fetienti. Annuccè, l’aggio cugliute tutte
quante, stai sicura che si tornano ci sto qua io"…….lasciò la scopa, abbracciò Annuccella e sentì la forza ritornargli nelle braccia. "Annuccè, rimane aggià saglì ‘ncoppa all’Altare fino a che nun veche u campanaro da Parrocchia".
        
                   
Antonio Abbagnano