Da: Latina CarminaFabularum liber
                                    Presentazione

                                                                                                                            traduzione di Biagio Scognamiglio

Nucleo generativo, sostanza nutrizionale del discorso poetico nei due libri delle Favole (Fabularum liber primus, 1930; Fabularum liber alter, 1934) è il "sanum consilium" che il "vulgus" manifesta al momento opportuno con detti arguti e "fabellae" (favolette, raccontini, aneddoti, motti di spirito, barzellette).
La materia a Fedro l'aveva offerta Esopo; per Mazza, auctor è il vulgus. In queste favole si va dalla tradizione popolare alla veste classica, da una proverbialità quotidiana alla dignità poetica. Ciò che conta, però, non è la "gloria", bensì la "laus sodalium", (I,
1). Poi anche questa vien messa da parte: il poeta prende a scrivere per sé. Mentre il ridicolo mondo va in rovina, si migliora lui solo (II, 1).
Le favole seguono lo schema narrativo-gnomico inaugurato da Esopo.
Ciascun brano di vita si impone per la presenza di uno o più personaggi che assumono rilievo esemplare per difetti o pregi, rivelandosi di solito in frasi spiritosamente ingegnose. Poche le favole con animali protagonisti (I,
6; I, 14; II, 4; II,11; II,16). Alcune ci presentano personaggi umani alle prese con animali (I, 15; II, 8; II, 14; II, 15) o cose personificate (II, 12).
Il repertorio sentenzioso è vario: non si può mutare la propria natura (I,
2); chi non è contento della propria sorte, si guardi alle spalle (I, 3); c'è chi sperpera il patrimonio ed è parsimonioso in inezie (I, 4); ciascuno persegue

il suo utile (I, 5); gli analfabeti sono spesso stolti (I, 7); la morte arriva donde meno te l'aspetti (I, 8); l'avaro e avaro fino alla morte (I, 9; I, 10); il vanaglorioso, scoperto, è deriso (I, 12); gli sciocchi comprenono le parole non oltre il loro suono (II, 2); chi non è più intelligente del padre, segua il mestiere di lui (II, 3 - alla Tolstoj); i malvagi si uniscono a danno dei buoni (II, 4); è ridicolo il senno di poi (II, 5); bisogna evitare voli troppo ambiziosi (II, 6); un aiuto eccessivo può essere dannoso (II, 8); niente è difficile per chi è ostinato (II, 9); col tempo e la pazienza si ottiene tutto (II, 11); la vera saggezza è la prontezza di spirito (II, 13). Ciascun precetto configura una regola o una cautela del vivere.
In due casi la morale non è enunciata e i racconti si esauriscono sul piano del puro diletto, non disgiunto però da una saggezza arguta (II,
15; II, 17). Talora deve essere il lettore stesso a ricavarsi, sviluppandola, la morale appena accennata (I,6; I,13; I,15), oppure egli è invitato esplicitamente a seguire un consiglio dall'autore stesso (II, 3; II, 6; II, 7; II, 10) o da un personaggio (I, 3), che può anche limitarsi ad una enunciazione aforistica (II, 12).
In qualche caso, il proverbio che la favola illustra, drammatizzandolo, è assai noto: "Contadino, scarpe grosse e cervello fino", con l'aggiunta dell'altro tema proverbiale delle "fave cotte" (I,
11); "A ciascuno il suo destino", con accentuazione della tragicità del motto (I, 14).