LAUREARSI  SULL’AUTORE  INTERVISTANDO   IL  CRITICO

A cura di Biagio Scognamiglio *

Manuela Mosca, 110 e lode: con questa lusinghiera votazione si è laureata di recente, 24 giugno 2005, presso la Facoltà di Lettere dell’Università “Federico II” di Napoli. Vertiginosamente impegnativa la sua tesi in Storia del Teatro e dello Spettacolo, relatore il Chiarissimo Professor Ettore Massarese, su Samuel Beckett e in particolare su “Beckett in Italia”. 

C’è voluto l’apporto fondamentale di un critico  italiano che l’intraprendente Manuela si è premurata di intervistare. Non un critico qualunque, ma  il “miglior fabbro” (direbbero Dante e Pound) dell’interpretazione del grande drammaturgo irlandese, anche come attore: Antonio Borriello. Si veda il curriculum, ampio per quanto sintetizzato al massimo, che il nostro studioso è in grado di esibire.


Manuela Mosca e il Professore Antonio Borriello, tra i massimi esperti del grande drammaturgo irlandese 

Il curriculum di un critico - attore   

Il prof. Antonio Borriello,
antonio.borriello@tin.it, relatore e performer presso il Glendale Community College in California e al Trinity College di Dublin, ha tenuto numerosi interventi sul Teatro Contemporaneo in diverse Scuole e Università italiane e straniere: si rammenta fra l’altro che al “Beckett in Berlin 2000”,  simposio mondiale organizzato dall’Università di Baltimora e dalla Humboldt di Berlino, oltre che dalla “Beckett Society”, della quale fa parte, ha presentato l’inedito e singolare saggio Numerical references in ‘Krapp’s Last Tape’ . Lo studio, che considera il rapporto numero-parola in una delle più suggestive pièces beckettiane, dimostrando passo dopo passo, battuta per battuta, la predilezione di Beckett per il numero tre e i suoi multipli, è diventato parte fondamentale della miscellanea di saggi Samuel Beckett: Endlessnes in the Year 2000. Samuel Beckett: Fin sans fin en l’an 2000, a cura di Angela Moorjani e Carola Veit, Amsterdam – New York, 2002. Punto di riferimento sugli studi beckettiani a livello internazionale per essere mirabilmente riuscito ad unire competenza e conoscenza di Beckett dal punto di vista sia scenico che drammaturgico, lo studioso, oltre che fine operatore culturale, è attore, regista, scenografo, con un background che spazia da Euripide a Eschilo, da Pirandello a Ionesco, da Beckett ad Arrabal. Numerosissimi i suoi rapporti con studenti ed appassionati di Beckett, finalizzati alla realizzazione di studi, messinscene e tesi di laurea. In proposito, fondamentale strumento di ricerca risulta l’apprezzatissimo Samuel Beckett, ‘Krapp’s Last Tape’: dalla pagina alla messinscena, Napoli, E.S.I., lavoro imponente con un apparato biografico di oltre 2000 voci (di prima mano) e con significativi stralci di interviste a Fo, Kelly, De Berardinis, Mauri, Scaccia ed altri, risultato di uno studio eccezionalmente incoraggiato dallo stesso Beckett con un’affettuosa lettera indirizzata all’autore. Ha interpretato e diretto diverse opere beckettiane, nonché curato “Beckett per Sarayevo” e “La Scena e le Immagini”. Dal 1981 al 2001 è stato Presidente, regista ed attore del “Gruppo Sperimentazione teatrale ABC”.

Manuela Mosca intervista Antonio Borriello

“Il silenzio e la catastrofe. L’ultimo nastro di Krapp di Samuel Beckett”: questo il titolo della tesi. Non poteva dunque sfuggire alla nostra Manuela il volume di Antonio Borriello sull’argomento, lavoro completo sui molteplici aspetti scenici e prezioso sia per l’acuta analisi che per l’enorme apparato bibliografico. Poi dal libro all’autore in persona, resosi disponibile per l’incontro con l’intervistatrice il 5 maggio 2004 in nome di un artista letterario e teatrale che “ … ci ha lasciato un messaggio universale possente, profondo, teso comunque a credere, nonostante tutto nell’Uomo”, come esplicitato ne L’innominabile:  “ … nel silenzio non si sa, bisogna continuare, e io continuo”. Ed ecco l’intervista in cui Beckett rivive, anzi vive, grazie al colloquio fra Manuela e Antonio.

Dunque, che tipo di persona era Beckett? 

        “Era eccezionalmente umile, un umile grande genio, come ho già detto in altre occasioni. Poteva essere miliardario: nel 1969 gli venne assegnato il Nobel per la Letteratura (che allora ammontava a circa un miliardo e seicento milioni di vecchie lire), ma Beckett non si presentò alla premiazione e offrì l’intera somma in donazione, ai poveri. Si sono verificati soltanto tre casi del genere nella storia del Premio Nobel: prima di lui i Quaccheri, più di recente Madre Teresa di Calcutta. E non mancano altri notevoli gesti dell’impegno civile dell’autore di Aspettando Godot. Quando i tribunali di Franco accusarono Arrabal di ‘insulto alla patria’ e di ‘blasfemia’, Beckett si schierò energicamente a favore del giovane drammaturgo; analogamente manifestò la sua autorevole solidarietà allo scrittore cecoslovacco dissidente Vaclav Havel. Quest’ultimo, pochi giorni dopo la morte di Beckett, sarà nominato Presidente della Cecoslovacchia. A riprova del suo essere una persona schiva, riservata, incurante del successo, ricordo un altro evento: il 22 dicembre 1989 si spense, ma il mondo seppe della sua morte solo tre giorni dopo. Tutti i grandi geni sono stati profeti: Samuel Beckett non fa eccezione e le sue ‘visioni e/o preveggenze’ si stanno, purtroppo, realizzando (solitudine urbana, feti buttati nelle discariche, smarrimento di senso, incomunicabilità, catastrofi imminenti e come immanenti, paura di un nemico invisibile … e di una crescente desertificazione). Il grande dubliner di Parigi, come tutti i grandi, è un autore che si presta ancora e più che mai a degli scavi, quelli che raggiungono le profonde pieghe dell’anima, le più recondite e lontane”.

 Beckett si muoveva con facilità, amava viaggiare?

        “Assolutamente no! Era una persona pigra, ma di una pigrizia costruttiva, artistica, creativa, accostabile per certi versi a quell’otium  letterario latino più che a quell' indolenza  tipica del suo Belacqua dantesco e dei personaggi degli altri romanzi. Beckett seguì personalmente le riprese di Film, recandosi a New York suo malgrado, dato che temeva sarebbero state eccessivamente chiassose ed  esigenti, con numerosi cocktail party a cui partecipare e troppe interviste da rilasciare. A questo preferiva la quiete di Parigi e il suo rifugio di campagna a Ussy. E solo su insistenza di Suzanne si recò a Sorrento: nel 1959, in occasione del Prix Italia, quando lo invitarono a riscuotere il premio per la migliore opera radiofonica ossia Embers (Ceneri, trad it., in S. Beckett, Teatro completo, Torino-Parigi, Einaudi-Gallimard, 1994, pp. 219-234). Beckett in quell’occasione visita Capri ed altri splendidi luoghi della costiera, ma solo fugacemente. Subito, infatti, riparte per la sua Ussy”.

Quali difficoltà ha incontrato nel mettere in scena il suo Krapp?

         “Dovevo essere Krapp! I suoi pensieri e gesti i miei. Le sue memorie e azioni  le mie esperienze vissute. Condividere, convivere assolutamente con Krapp la scena. Una profonda empatia con il personaggio. Ricordo che una volta il sublime Carmelo Bene ha detto: ‘Per interpretare Shakespeare, bisogna essere Shakespeare: io sono Shakespeare’. In tal senso ognuno di noi dovrebbe dimostrare una forte vicinanza con l’autore, per condividere pienamente le altrui istanze. In tutti i sensi: nell’Amore, nella Passione o nell’Amicizia e, perché no?, anche in Politica. In questa ottica ho analizzato il testo Krapp’s Last Tape, vivendolo intensamente fuori dalla scena, per poi trasferirlo sulle tavole del palcoscenico, col trasportare le analisi ed il pensiero in termini speculari nel segno di un confronto tout court con il corpo, il gesto e la parola. Privilegiando la sovranità della parola, per accedere e superare il silenzio ed entrare in quella condizione ipnotica esteriore, di static-moving, con (invece) un’esaltante agitazione intima dei sentimenti. In proposito, consiglio di leggere quanto ha riportato Deidre Bair in Samuel Beckett. Una biografia (trad. it. Garzanti, 1990, pp. 573-574).
La studiosa americana nel suo ponderoso studio precisa: ‘Secondo Beckett, il miglior spettacolo teatrale è quello in cui non vi sono attori o registi, ma soltanto l’opera. Interrogato sul modo di rendere possibile un simile teatro, Beckett ha risposto che l’autore ha il dovere di cercare l’attore migliore, cioè quello che esegue alla perfezione le sue istruzioni e che ha la capacità di annullarsi completamente nell’opera’. Ed è assolutamente indispensabile questo stato fisico e psicologico per interpretare Beckett. Sempre nel testo della Bair si legge una condizione ancora più estrema voluta da Beckett: ‘La miglior opera teatrale possibile è quella in cui non ci sono attori, ma soltanto il testo. Sto cercando il modo di scriverne una’. Un desiderio che ricorda molto gli intenti di Edward Gordon Craig (vedi il bel volume Il mio teatro, trad. it., a cura di Ferruccio Marotti, Milano, Feltrinelli, 1971 e l’articolo di Antonio Borriello Antonin Artaud, Bertolt Brecht ed Edward Gordon Craig: una vera rivoluzione copernicana nell’Arte Scenica, in ‘Mi Consenta’, anno I, n. 7, novembre 2002, pp. 41-43). 
E Beckett realizzerà quanto auspicato con Breath
(Respiro, la più breve messinscena della storia del teatro: circa 20 secondi!, senza attori) e Not I  (Non io, un intensissimo e struggente monologo: in scena solo … una bocca!), in S. Beckett, Teatro completo, op. cit., pp. 425-438”.

Che ne pensa delle altre messinscene italiane di Krapp? 

      “A mio avviso, alcune sono gratuitamente stravolte e distanti dal testo originario. In generale una lettura personale di una pièce, che dia conto della traduzione, della lingua, del suono, della cultura, dei gusti dell'interprete può andare bene, ma per le opere beckettiane la fedeltà al testo è indispensabile. L’ubbidienza al concepimento stesso dell’opera è fondamentale. In Beckett il rispetto dell’allestimento deve essere assoluto. Ricordo che Beckett, in alcuni casi, ha imposto la sospensione di messinscene estranee alle sue indicazioni. Forse anche per questo, come i grandi Euripide e Shakespeare, Molière e Pirandello, o anche il nostro Eduardo, Samuel Beckett passa alla realizzazione dei suoi testi.  Le minuziose e lunghe didascalie beckettiane sono una sorta di ulteriore testo drammaturgico. O meglio sono il testo stesso. Vedi le maniacali didascalie in Krapp. Colme di suggerimenti spazio-temporali, nonché di precise attenzioni al costume, al trucco, agli oggetti, ai gesti. Tutto precisato come in uno spartito musicale. In questo Beckett è un autore pitagorico (o, se preferite, euclideo). Perfetto”.

 È complicato interpretare Beckett?

         “Assolutamente no. Di solito si parla di un autore difficile da interpretare o anche solo da leggere. A mio avviso, Beckett va considerato per quello che dice e basta. Beckett non lo si interpreta: lo si vive. Non ci sono rimandi o allusioni ad altro concetto filosofico, teologico o letterario. Niente di straordinario, anzi l’ordinario. Beckett non lo si tradisce: gli  si ubbidisce. Nessuna soverchia teatralità, ma la verità. Quella della vita e della morte”.

Tra i romanzi, quale testo indicherebbe ad uno studente che vuole accostarsi a Beckett?

    “L’intera produzione è  colma di fascino. Di una bellezza della parola e del pensiero che rimandano a visioni di infinita suggestione. Eppure, tutto così terribilmente ordinario, quotidiano … Non succede nulla. Nessuno va. Nessuno viene. Tutto resta nella più totale immobilità. Beckett lavora su una sola nota (parola evocativa, immaginifica, inesauribile), proiettandola in riverberi concettuali che racchiudono miriadi di emozioni. Pagine ed azioni (o non azioni) straordinariamente intense, intrise di lucida serenità esistenziale, rimandano ad una moltitudine di allusioni e di verità. Dai romanzi alla poesia, dalle novelle alla drammaturgia, agli stessi saggi, sono testi fortemente suggestivi. Anche se personalmente mi è difficile differenziare i generi letterari. Voglio dire che non trovo confini tra testo drammaturgico, narrativo o poetico, filmico o televisivo. Insomma, è un autore totale. Un suo scritto, mi piace ribadirlo, è possente, pieno di suggestioni metafisiche e al tempo stesso incredibilmente semplice. Vi domina il bianco. L’assenza. Eppure, come per magia, tutto si muove e si agita nell’intimo più recondito del pensiero. Dell’azione o della non azione. Della presenza o assenza di un movimento, anche di quello minimo, infinitesimale, impercettibile. Sì, impercettibile. Ed invece quanti rinvii ed affollamenti di immagini che s’intrecciano, si annullano e si ripetono ad ogni pagina (ad ogni istante). Sempre. In ogni opera del grande dubliner c'è uno spunto su cui riflettere, un elemento che ci consente di rintracciare un comune filo conduttore all’interno dell’intera produzione. Un filo, uno sguardo che altissimo si eleva come in una complessa architettura trecentesca, per raggiungere la punta massima dell’arco acuto in cui, comunque, trionfa l’Uomo. In merito, mi piace riferire quanto tempo fa mi ha detto Dario Fo, che Beckett è un autore gotico che va avanti per follie, come follia è un arco rampante. Sicuramente un testo, un romanzo che offre una chiave di lettura importante (una sorta di summa beckettiana) è L’Innominabile.

Che ne pensa  delle letture filosofiche che sono state fatte di Krapp?

     “Beckett si era interessato anche di filosofia. Sul suo comodino non potevano mancare le amate letture (in lingua italiana) di Dante e Leopardi, ma anche Proust, Schopenhauer … La dottrina manichea: penso che effettivamente essa sia alla base del rapporto luce-tenebre che tanta importanza ha in Krapp.

Beckett per molti è un pessimista “ leopardiano”: qual è il suo parere?

          “Beckett si abbevera alla fonte della Filosofia di Bruno e Vico, alla cultura Zen e alla costante lettura di sant’Agostino; mostra passione per Dante e Leopardi; aspira all’amicizia e nutre rispetto nei confronti di Joyce; dimostra infinito amore per la sua verde Irlanda. Da questi svariati percorsi scaturiscono sensibilità che collocano l’Uomo, nonostante il dolore, in una sorta di gioia per la vita. Altro che pessimismo. I disarmanti personaggi di Beckett sono sempre in castigo, quasi in una perenne penitenza purgatoriale; eppure, nonostante le lacerazioni, sono felicemente ricchi di spirito e voglia di vivere. Beckett è l’interprete dei reietti, degli emarginati, dei clochard, dei ‘poveri cristi’, di noi stessi, proiettati in un futuro spesso terribile. Ma stranamente le sue opere (tutte), alla fin fine, nonostante il tormento e lo strazio dei protagonisti, sono un eccezionale inno alla vita, sono eternamente oh les beaux jours.  I sopravvissuti in Beckett palesano una gioia di vivere infinita: parlano parlano (a volte pregano), senza mai placarsi, dicono sempre di altri … ‘giorni divini’ e la parola vale contemporaneamente per il suono e per il significato (fonetica e concettuale). In Finale di partita Nagg e Nell, dai famosi bidoni della spazzatura, benché mozziconi umani e prossimi alla fine, hanno ancora tanta voglia di rievocare  i bei ricordi andati, raccontare barzellette, litigare per un biscotto e di … scopare! Ecco perché quella invocazione: nonostante la globalizzazione, a dispetto della possibilità di correre sulle autostrade telematiche, siamo sempre più soli. Le amate creature sono sempre dei vecchi o di età non definita. Ed è allora che sono maggiormente ricchi di umanità e pronti per la scena. Colmi di gioia. Mai un rimpianto per la giovinezza, mai una restituzione di un frammento di Tempo. Krapp così chiude: ‘Dopo mezzanotte. Mai sentito tanto silenzio. La Terra potrebbe essere disabitata. (Pausa). Qui termino questo nastro. Scatola … (Pausa) … tre, bobina  … (Pausa)  … cinque. Forse i miei anni migliori sono finiti. Quando la felicità era forse ancora possibile. Ma non li rivorrei indietro. Non col fuoco che sento in me ora. No, non li rivorrei indietro’.”  

Perché proprio Beckett? da dove nasce la passione per il grande dubliner?  

      “Unicamente per la sua meravigliosa capacità di svelare la vita nella sua interezza con le mille sfaccettature di tutti i giorni. Quelle ordinarie, dei pensieri semplici, piccoli piccoli, degli aspetti dell’esistenza più banali che mai. È un po’ come nelle opere di Joyce, di Leopardi o di Pascoli. L’esaltazione delle piccole cose, dei gesti minuti, delle azioni terribilmente normali. Eppure, quanta poesia ed esaltazione della vita e dell’intelligenza dell’Uomo in quei versi, in quelle pagine … Rigo dopo rigo, Beckett esalta, nonostante tutto, la fragilità di noi tutti”.

Chi è per lei Godot?

“Le rispondo ricordando il tema di una delle più splendide ed emozionantissime pellicole della storia del Cinema: Ladri di biciclette di Vittorio De Sica (1948). Per il povero attacchino (protagonista del film) il furto subìto della bicicletta, che “rappresenta per lui un provvidenziale strumento di lavoro” (Zavattini), è una tragedia; per  quel disgraziato, in quei giorni, il suo Godot è una bicicletta! Per ognuno c’è un Godot. Anzi, a ciascuno il suo Godot. È come Tar (meta agognata da tutti) nell’onirico Fando e Lis di Fernand Arrabal, sincero amico di Beckett”.

* Dirigente M.I.U.R.